L'opera di D'Annunzio si può studiare sotto i tre aspetti: il
fondo programmatico, i legami con le correnti letterarie
europee, il motivo vitale. L'ultimo si presenta isolato
soltanto nelle liriche migliori, in una parte della Figlia di
Jorio e, s'intende, nelle pagine antologiche dei romanzi e
delle memorie. Credo che il rivolgere contemporaneamente
l'attenzione ai tre aspetti abbia impedito di vedere
limpidamente la vera ispirazione della lirica di D'Annunzio.
Si è parlato spesso delle sue pretese magiche e mistiche, e si
sono messe accanto alle scorie niciane. Ma proprio da quelle
pretese si deve partire per trovar l'anima della sua lirica e
per vedere come essa si sia lentamente illuminata, dal Canto
novo all'Alcione.
D'Annunzio ha meditato spesso sulla sua tecnica e sul suo
gusto di poeta, ed è fra gli scrittori italiani uno dei
pochissimi che abbiano attentamente studiato la psicologia
dell'ispirazione. Il segreto della sua poetica e della sua
arte è nelle sue magiche designazioni della poesia e nella
descrizione dei momenti dell'ispirazione; e sopra tutto in
alcune note sparse di Cento e cento e cento e cento pagine del
libro segreto. Il primo capitolo ritrae con una febbrile
leggerezza il poeta curvo nella notte sopra la sua pagina, e
si suggella con le parole «in quest'ora il mio genio è la mia
solitaria fosforescenza». Le note che seguono qua e là
attraverso il libro, insistono a precisare questa intuizione
dell'estro come fascinazione e come sforzo per rimanere e
sprofondarsi nel cerchio della fascinazione. La poesia è per
D'Annunzio una «potenza rivelatrice» che «trasfigura» lo
spirito «per innumerevoli contatti con gli altri spiriti e col
mistero circostante», una forma di magia consapevole, una
sublime tensione per immergersi nell'arcano e trarlo alla riva
con l'aiuto della parola: «la scrittura continua l'opera di
creazione e dà forma al mistero estraendolo dalla tenebra per
esporlo alla luce piena». E altrove più esplicitamente: «A
Eleusi in un meriggio d'estate appresi da una pietra che
secondo una essenzial legge dello Spirito, l'arte stessa può
divenire esotèrica». Di qui la sua concezione ermetica del
ritmo: «Il ritmo - nel senso di moto creatore, ch'io gli dò -
nasce di là dall'intelletto, sorge da quella nostra profondità
segreta che noi non possiamo né determinare né signoreggiare»;
e il valore che hanno per lui le pause nella poesia:
«Le più arcane comunanze dell'anima con le cose non possono
essere colte, fino a oggi, se non nelle pause; che sono le
parole del silenzio».
D'Annunzio ebbe una chiara consapevolezza della sua vera arte
«Pur nella più tenue e nella più potente ode di Alcyone, non è
tanto mistero quanto nei numeri della mia prosa recente; ove
(si badi bene a questa affermazione) ove io aduno gli arcani
della Magìa e quelli della Poesia non dissimili». La mèta
ultima a cui egli tendeva nelle pagine di vera poesia, era un
estremo assottigliamento della parola, alleggerita fino quasi
ad essere inafferrabile come l'aria e come l'arcano che giace
sotto le apparenze delle cose. « Talvolta », dice ancora in
quel libro, «la poesia è trasmessa da una specie di sostanza
senza sostanza, di materia spogliata di ogni qualità e
servigio».
Per capire D'Annunzio poeta non dobbiamo ascoltarlo quando
leva oratoriamente la voce, ma quando la spegne e quasi
l'ascolta dentro se stesso. Scrive ancora in quel libro:
«Nell'aprire i vetri per dar respiro e frescura alla
malinconia giacente, scorgo la luna logora che sfiora la nuca
della collina solinga. M'indugio su l'omero della poesia».
«M'indugio su l'omero della poesia»: è proprio questo
l'atteggiamento dei più bei momenti di Alcyone, quello che si
viene via via delineando dal primo all'ultimo volume di poesia
di D'Annunzio.
Io parlo della lirica, e dovrei parlare di tutta l'opera di
D'Annunzio, perché la sua linea di svolgimento è una, e anche
le pagine di prosa belle sono regolate da un ritmo manifesto,
é tutte tendono, più o meno risolutamente, all'indefinito e al
magico. Tutte, sia che descrivano gli idolatri che vendicano
l'insulto al loro santo, o lo strazio crescente e
ossessionante di Gialluca, o le fiamme che investono -
splendide, avvolgenti e terribili - il palazzo del duca d'Ofena,
o la fiumana di malati e di deformi che sale ebbra di
superstizione e di fede verso il santuario di Casalbordino, o
la fontana muta che riacquista la sua molteplice voce, o l'usignuolo
dell'Innocente, o Roma incantata sotto la neve e sotto la
luna, o le ville abbandonate del Brenta - con le quali non
meno che con il citatissimo Poema paradisiaco il poeta ha
precorso i crepuscolari -, o gli aspetti malinconici o cadenti
di Venezia, o lo smarrimento nel labirinto, o il cielo, le
allodole e le alghe di San Francesco del deserto, o il vespro
fra l'Anguillara e il fiume morto, sorridente come l'Elisio e
malinconico come l'Ade, o i Mani i corsieri il cavaliere che
nella figurazione sepolcrale etrusca sembrano fermi chi sa da
quando sul limitare della morte, o gli oscuri e musicali
fermenti dell'adolescenza, o le donne e i fanciulli che
cantano - scorporati e rapiti -, o le donne dal fascino
leonardesco e medusèo, tutte tolgono alle persone e alle cose
i loro cortorni concreti. In certe prose e particolarmente in
certe tragedie, il magismo è voluto, ostentato, scenografico -
non in Aligi stregato che ha nella voce e nel volto l'ombra e
l'eco della lontananza -: ma dovunque nella prosa bella di
D'Annunzio c'è un alone magico, quello che più chiaramente,
nel cerchio più ristretto della lirica, si può vedere nascere
e diffondersi dal Canto novo ad Alcione.
La poesia di D'Annunzio è una depurazione del magismo e
misticismo perverso del decadentismo europeo. Al di là della
cupa e greve vegetazione mistica-sadica che è in parte. uno
degli aspetti della sua ostentazione erudita, c'è una zona di
limpido incanto. Dal romanzo di Andrea Sperelli all'Alcione la
concezione dannunziana del piacere si viene sollevando verso
una sfera più spirituale; il poeta delle terze laudi è un
Andrea Sperelli redento, che non cerca più l'assoluto nella
sensualità ma nella contemplazione e nell'ascoltazione.
D'Annunzio cominciò con un verismo già sfumato di musica; e
sempre quando vi ritornò, il suo verismo parve quello di un
antiverista. La sua natura lo spingeva ad evadere dalla
realtà, a vivere in una stira d'incanto. Dalla zona del Verga
egli tendeva a quella opposta di Fogazzaro, Grazia Deledda,
Pascoli, Cecchi: artisti diversissinii da lui, ma tutti, in
vario snodo e misura, attratti da quello che si nasconde sotto
le apparenze della vita. Pascoli ha il senso problematico del
mistero, Fogazzaro fantastica sull'animazione occulta della
natura, la Deledda migliore si aggira in un'atmosfera isolante
e pensosa che accomuna il paesaggio alle correnti profonde
della vita della coscienza: tre scrittori in cui l'aura
irreale esprime la preoccupazione spirituale, Cecchi è
diverso, è più vicino a D'Annunzio: libero da problemi morali,
egli si fissa sulle cose fino a dar loro una nitidezza
intagliata e ferma che sa di sortilegio. Deve scrivere in uno
stato d'animo simile a quello di D'Annunzio: ma con un
risultato diverso: egli lascia insieme un'impressione di
evidenza e di lontananza, di incisione e di musica; D'Annunzio
fissa le cose per assorbirle, per farle svaporare in musica e
in rapimento. |