Nell'origin sua la poesia
é la scienza delle umane e divine cose, convertita in immagine fantastica
ed armoniosa.
La quale immagine noi, sopra ogn'altro poema italiano ravvisiamo vivamente
nella Divina Commedia di Dante, il quale s'innalzò al sommo
nell'esprimere, ed alla maggior vivezza pervenne, perché più largamente e
più profondamente d'ogn'altro nella nostra lingua concepiva: essendo la
locuzione immagine dell'intelligenza, da cui il favellare trae la forza e
il calore. E giunse egli a sì alto segno d'intendere e profferire, perché
dedusse la sua scienza dalla cognizione delle cose divine, in cui le
naturali, e le umane e civili, come in terso cristallo, riflettono...
Considerata la lingua del poeta, e quel che ha comune con gli altri nel
fraseggiare, degna è di special riflessione la foggia del fraseggiar
particolare, dalla comune degl'italiani poeti distinta. Questa egli trasse
non solo dall'imitazione de' Greci, e de' Latini ai Greci più simiglianti,
ma spezialmente dagli Ebrei e da' profeti; a cui, siccome simile nella
materia e nella fantasia, così volle ancor nella favella andar vicino.
Lungo sarebbe rincontrare i luoghi tutti alla poetica frase
corrispondenti, de' quali è il suo poema non solo sparso, ma strettamente
tessuto: come tela che si dilata e si spande dentro una fantasia commossa,
se non da sopranaturale, pur da straordinario furore e quasi divino; il
quale fervendo ne' sublimi poeti, acquistava loro appo i Gentili
l'opinione di profezia, dalla quale traevano il nome. Oltre questa selva
di locuzioni dal proprio fondo prodotte, vengono incontro molte, le quali
egli ha voluto a bello studio nella nostra lingua trasportare, come, per
tacer d'innumerabili, può in esempio addursi quella di Geremia: Ne taceat
pupilla oculi tui; dal poeta imitata e trasferita nella descrizione di un
luogo oscuro, dicendo:
Mi
ripingeva là, dove il Sol tace; |
ed altrove
Venimmo in luogo d'ogni luce muto ». |
E siccome il parlar figurato e sublime de' profeti non tolse loro la
libertà di usare il proprio, o d'esprimere con esso tanto le grandi quanto
le umili e minute cose, quando il bisogno di loro veniva; così Dante volle
le parole alle cose sottoporre, e queste, quantunque minime, si studiò co'
proprii lor vocaboli d'esprimere, quando la ragione e la necessità ed il
fine suo il richiedea; donde il suo poema divenne; per tutte le grandi,
mediocri e picciole idee, di locuzioni, tanto figurate quanto proprie,
abbondante e fecondo. E perché ambì egli per suoi ascoltanti solo gli
studiosi, e non il volgo, al quale Omero volle anche farsi comune col
sentimento esteriore, benché l'interiore a' soli saggi dirizzasse; quindi
avviene che Dante, simile ad Omero con la vivezza della rappresentazione
si è reso però dissimile collo stile suo contorto, acuto e penetrante;
quando l'Omerico è aperto, ondeggiante e spazioso, qual convenne a chi
dietro di sé tirar dovea l'applauso e gli onori di tutte le città di
Grecia, dove la plebe, per la parte che avea nel governo civile, non era
meno arbitra degli onori che gli ottimati. Per qual parte Dante rimane, se
non d'altro, di felicità e di concorso, inferiore ad Omero: benché non si
possa di oscurità riprendere chi non è oscuro se non a coloro co' quali
non ha voluto favellare. Perciò non si è astenuto da' vocaboli proprii
delle scienze, e di locuzioni astratte, come colui che ha voluto fabbricar
poema più da scuola che da teatro.
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