DANTE ALIGHIERI

  • DANTE E OMERO
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    Autore: Giambattista Vico Tratto da: Lettera a Gherardo degli Angioli, in Opere

     
         

    Ora è ben fatto che sappiate cosa fece gran poeta Dante, di cui voi cotanto vi dilettate per un certo natural senso, onde egli vi fa poeta che lavorate di getto, non per riflessione forse men propria, onde egli vi facesse un imitatore meschino'.
    Egli nacque Dante in seno alla fiera e feroce barbarie d'Italia, la quale non fu maggiore che da quattro secoli innanzi, cioè nono, decimo ed undecimo. E nel dodicesimo, di mezzo ad essa, Firenze rincrudelì con le fazioni de' Bianchi e Neri, che poi arsero tutta Italia, propagata in quella de' guelfi e de' gibellini, per le quali gli uomini dovevan menar la vita nelle selve o celle città come selve, nulla o poco tra loro e non altrimenti che per le streme necessità della vita comunicando. Nel quale stato dovendosi penuriare di una somma povertà di parlari, tra per la confusione di tante lingue quante furono le nazioni che dal settentrione eranvi scese ad innondarla, quasi ritornata in Italia quella della gran
    torre di Babilonia, i latini da' barbari, i barbari da' latini non intendendosi, e per la vita selvaggia e sola menata nella crudel meditazione d'innestinguibili odî che si lasciarono lunga età in retaggio a' vegnenti, dovette tra gl'italiani ritornare la lingua muta, che noi dimostrammo delle prime nazioni gentili, con cui i loro auttori, innanzi di truovarsi le lingue articolate, dovettero spiegarsi a guisa di mutoli per atri o corpi avèntino naturali rapporti alle idee, che allora dovevano essere sensibilissime, delle cose che volevan esse significare, le quali espressioni vestite appresso di parole vocali, debbono aver fatta tutta l'evidenza della favella poetica.
    Il quale stato di cose dovette, più che altrove, durare in Firenze per lo bollore turbolento di quell'acerrima nazione, come per ben ducento anni appresso, fino che fu tranquillata col principato, durò il maroso di quella repubblica tempestosissima. Ma la Provvidenza, perché non si sterminasse affatto il gener umano, rimenandovi i tempi divini del primo mondo delle nazioni, dispose che almeno la religione, con la lingua della Chiesa latina (lo stesso per le stesse cagioni provvidde all'Oriente con la greca), tenesse gli uomini dell'Occidente in società, onde coloro solo che se n'intendevano, cioè i sacerdoti, erano i sapienti. Di che, quanto poco avvertite, tanto gravi ripruove son queste tre:

     

    che da questi tempi i regni cristiani, in mezzo al più cieco furore delle armi, si fermarono sopra ordini ecclesiastici, onde quanti erano vescovi, tanti erano i consiglieri de' re; e ne restò che per tutta la cristianità, ed in Francia piú che altrove, gli ecclesiastici andarono a formare il primo ordine degli Stati;
    che di tempi si miserevoli non ci sono giunte memorie che scritte in latin corrotto da uomini religiosi, o monaci o chierici;
    che i primi scrittori de' novelli idiomi volgari furono i rimatori provenzali, siciliani e fiorentini; e la loro volgare dagli spagnuoli si dice tuttavia « lingua di romanzo », appo i quali i primi poeti furono romanzieri. Appunto come, per le stesse precorrenti cagioni, noi nella Scienza nuova dimostrammo Omero, come egli é il primo certo autor greco che ci è pervenuto, così è senza contrasto il principe e padre di tutti i poeti che fiorirono appresso ne' tempi addottrinati di Grecia, che li tengon dietro, ma per assai lungo spazio lontani. La qual origine di poesia può ogniuno che se ne diletti sentire, non che riflettere, esser vera in sé stesso, ché, in questa stessa copia di lingua volgare nella quale siamo nati, egli, subito che col verso o con la rima avrà messa la mente in ceppi ed in difficoltà di spiegarsi, senza intenderlo è portato a parlar poetico, e non mai piú prorompe nel meraviglioso se non quando egli è piú angustiato da sì fatta difficoltà.


    Per cotal povertà di volgar favella, Dante, a spiegare la sua Comedia, dovette raccogliere una lingua da tutti i popoli dell'Italia, come, perché venuto in tempi somiglianti, Omero aveva raccolta la sua da tutti quelli di Grecia; onde poi ogniuno ne' di lui poemi ravvisando i suoi panari natii, tutte le città greche contesero che Omero fosse suo cittadino. Così Dante, fornito di poetici favellari, impiegò il colerico ingegno nella sua Comedia. Nel cui Inferno spiegò tutto il grande della sua fantasia in narrando ire implacabili, delle quali una e non più fu quella di Achille, ed in memorando quantità di spietatissimi tormenti, come appunto, nella fierezza di Grecia barbara, Omero descrisse tante varie atroci forme di fierissime morti avvenute ne combattimenti de' troiani co' greci, che rendono inimitabile la sua Iliade; ed entrambi di tanta atrocità risparsero le loro favole, che in questa nostra umanità fanno compassione, ed allora cagionavan piacere negli uditori, come oggi gl'inghilesi, poco ammolliti dalla delicatezza del secolo, non si dilettano di tragedie che non abbiano dell'atroce, appunto quale il primo gusto del teatro greco ancor fiero fu certamente delle nefarie cene di Tieste e dell'empio straggi fatte da Medea di fratelli e figliuoli. Ma nel Purgatorio, dove si soffrono tormentosissime pene, con inalterabile pazienza; nel Paradiso, ove si gode infinita gioia con una somma pace dell'animo, quanto in questa mansuetudine e pace di costumi umani non lo è, tanto, a quo' tempi impazienti di offesa o di dolore, era meravigliosissimo Dante; appunto come, per lo concorso delle stesse cagioni, l'Odissea, ove si celebra l'eroica pazienza d'Ulisse, è appresa ora minor dell'Iliade, la quale a' tempi barbari d'Omero, simiglianti a quelli che poi seguirono di Dante, dovette recare altissima meraviglia.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis