DANTE ALIGHIERI

  • PIER DELLE VIGNE
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    Autore: Francesco De Sanctis Tratto da: Saggi critici

     
         

    E qui lo spirito racconta la sua storia. E dov'è più l'inferno? dov'è il tronco? Noi siamo in Napoli, nella corte di Re Federico, innanzi a un Cancelliere. Se guardiamo al fatto, abbiamo in pochi ersi tutto un dramma nelle sue parti essenziali. Pier delle Vigne al sommo della potenza e della grandezza, la guerra che gli move contro l'invidia, collisione che genera la catastrofe. Pier delle Vigne non fa che narrare; ma se guardiamo allo stile, vi troviamo un carattere ricchissimo, una compiuta persona poetica. Voi lo vedete tutto vano del suo uffizio, del suo « glorioso uffizio », compiaciuto di volger a suo senno le chiavi del cuore di Federico, geloso della confidenza che in lui pone il suo signore ed intento a rimuoverne ogni altro; un uomo debole, che vede nella sua sventura gli onori tornati in lutto, la gioia volta in mestizia, e che si uccide per « disdegnoso gusto », per non saper sostenere il nuovo suo stato; un'anima schietta che parlando fa senza saperlo il suo proprio ritratto, e si rivela qual è in tutto il suo abbandono. Quanta ricchezza di determinazioni! Un dramma intero non potrebbe mostrarcelo più compiutamente: qui è quello che dicesi visione poetica, quel saper cogliere il personaggio nell'atto della vita. Il fondo di questo carattere non è la grandezza e la forza, ma una squisita gentilezza di cui ammirammo il tipo in Francesca da Rimini, e che qui scorgiamo fin dalle prime parole:

     

    . . . Sì col dolce dir m'adeschi,
    Ch'io non posso tacere; e voi non gravi
    Perch'io un poco a ragionar m'inveschi.


    Non solo egli si esprime con delicatezza ma con grazia ed eleganza, da uomo colto, ingegnoso e finamente educato; con antitesi, con metafore, con concetti, con frasi a due a due: « morte comune e delle corti vizio » - « gl'infiammati infiammarono Augusto » - « i lieti onor tornarono in tristi lutti » - « per disdegnoso gusto credendo... fuggire disdegno » - « ingiusto fece me contra me giusto ». E perché questo? Perché Pier delle Vigile non è commosso ancora da quello che dice; e se parla della sua abilità segretariesca, egli può bene uscir su con quel suo serrare e disserrare di chiavi; e se parla dei suoi avversarli, può bene usare una personificazione rettorica, la « meretrice » che infiamma, sicché gli infiammati infiammino Augusto. Il suicidio stesso non lo commove; quell'istante supremo non vale a risvegliare in lui una ricordanza o una immagine: è un concetto che gli esce dal labbro. Si sente in lui non l'uomo, ma il cortigiano e il trovatore. Ma vi è una cosa, una sola cosa seria che gli pesa, l'infamia che si tenta di gittare sulla sua memoria, l'accusa che gli è lanciata di traditore. Qui è il patetico del racconto: qui la sua immaginazione si scalda, di sotto alla veste del cortigiano spunta l'uomo, e il suo linguaggio diviene semplice ed eloquente:

     

    Per le nuove radici d'esto legno
    Vi giuro che giammai non ruppi fede
    Al mio Signor, che fu di onor sì degno.
    E se di voi alcun nel mondo riede,
    Conforti la memoria mia che giace
    Ancor del colpo che 'nvidia le diede.


    A questa pianta una sola cosa avanza viva e presente di uomo, la sua memoria in terra, e strazia il cuore a vedere un tronco che, in nome delle sue radici ancor nuove, raccomanda quella parte di sé che gli rimane ancora uomo, la sua memoria. Essa è qualche cosa di vivente che non è lui, o che piuttosto è l'antico lui: egli è un tronco.

    Noi siamo all'ultimo atto, alla scena delle spiegazioni. La spiegazione distrugge il fantastico: il misterioso vien meno. Quando la realtà è ancor nuova e poco nota, l'anima vive d'immaginazione, e popola la terra di fate, di giganti e di streghe: il reale uccide questo fantastico. Quando l'uomo non sa spiegare i fenomeni naturali, egli immagina esseri fantastici che sieno causa di quelli; la scienza uccide questo fantastico: Apollo col suo cocchio svanisce innanzi al telescopio di Galileo. Qui il fantastico è spiegato e diviene intelligibile, cioè a dire cessa di essere un fantastico, un maraviglioso, e diviene la realtà, l'eterna realtà dell'inferno. Ma se il fantastico muore, rimane il patetico, anzi si accresce. Poiché la spiegazione qui non ha niente di didattico: il concetto scientifico è gittato per incidente in un verso

     

    Ché non è giusto aver ciò ch'uom si toglie.


    Il qua concetto diviene poesia, perché Dante ne ha fatto un individuo, l'anima del suicida che racconta la propria storia dal punto che si è separata dal corpo fino al giudizio universale. Non vi è pensiero, ma azione, narrata con una vigoria ed efficacia di stile insolita. Le parole sono molto comprensive e risvegliano parecchie idee accessorie. Nel « disvelta » si sente non solo la separazione, ma la violenza e lo sforzo contro natura; nel « balestra » non solo il cadere, ma l'impeto e la rapidità della caduta e l'ampio spazio percorso; nella parola « finestra », si sentono i sospiri ed i lamenti e il pianto che esce fuori per quel varco. Perché tanto affetto e vivacità nella spiegazione di un fatto? Perché è un suicida che spiega la pena del suicidio, e narrando la storia dell'anima suicida ricorda insieme la sua propria storia. Nell'immaginazione di Pier delle Vigne vi è sé stesso presente: sul suo labbro vi è « un'anima »; nella sua coscienza vi è « io »: tanto che da ultimo si mescola nella narrazione: la terza persona va via, e al « parte », al « cade », al « surge » succede « verremo » e « strascineremo ». Quando la spiegazione è compiuta, sembra che la situazione sia oramai esausta; ma ecco un nuovo fatto che infiammala pietà: le spoglie del suicida appese all'albero, ch'egli si vedrà innanzi eternamente senza potersene mai rivestire. Nelle parole di Pier delle Vigne si sente una mestizia ineffabile:

     

    Qui le strascineremo, e per la mesta
    Selva saranno i nostri corpi appesi,
    Ciascun al prun dell'ombra sua molesta.


    La sua immaginazione gli presenta quei corpi che penzolano, « i nostri corpi », ma quel « nostri » desta un'immagine in confuso e collettiva; egli vede tra gli alberi il suo proprio corpo, e sente il bisogno di singolarizzare quel plurale

     

    « Ciascuno » al prun dell'ombra sua molesta.


    Tal è questo canto, una ricca armonia che dal misterioso e dal fantastico va digradando in suoni flebili e soavi.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis