DANTE ALIGHIERI

  • L'UGOLINO DI DANTE
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    Autore: Francesco De Sanctis Tratto da: Saggi critici

     
         

    Ugolino ha sotto i suoi denti il nemico, e rimane insoddisfatto, e non perché desideri una vendetta maggiore, ma perché non c'è vendetta che possa saziare il suo dolore, essere eguale al suo odio. Il suo dolore è infinito; la sua anima rimane al di sopra della sua azione. È stata notata una certa somiglianza tra le prime parole di Ugolino e le prime di Francesca; vi è certo lo stesso concetto, ma con diversa musica. Perché nelle due situazioni vi è qualche cosa di simile e di diverso, somiglianza di concetto con diverso sentimento. Ambedue ricordano con dolore il passato. Cedono alla dimanda di Dante, e piangono e parlano insieme. Ma per Francesca è un passato voluttuoso e felice congiunto con la miseria presente, e la sua anima innamorata ingentilisce il pianto ed abbella il dolore: onde la mollezza e la soavità di quei versi:

     

    Nessun maggior dolore
    Che ricordarsi del tenipo felice
    Nella miseria......

    Ma se a conoscer la prima radice
    Del nostro amor tu hai cotanto affetto,
    Farò come colui che piange e dice.


    Per Ugolino passato e presente sono d'uno stesso colore, sono uno strazio solo che sveglia sentimenti feroci e ravviva la rabbia; attraverso le sue lacrime vedi brillare la cupa fiamma dell'odio. Il « rodere » è posto accanto al lacrimare; quell'uomo piange, ma il suo pianto ti spaventa, e ti pare ad ogni tratto che in mezzo alle lacrime, mutato il dolore in rabbia, dia di morso a quel teschio. Parla e piange, e non già per fare il volere di Dante, come la gentile Francesca, ma per odio, perché le sue parole « fruttino infamia » al traditore. L'ultima pennelleggiata è in quel terribile « tal vicino » . « Vicino » risveglia idea benigna d'amicizia e dimestichezza di uomini che vivono ed usano insieme; ma in bocca ad Ugolino è una ironia amara.
    Con questa combinazione patetica la poesia entra anche in questo prosaico fondo dell'inferno, e fonde il ghiaccio e risuscita la vita. E la poesia non è altro che la rappresentazione del tradimento, che è la colpa qui punita in tutte le sue gradazioni, fatta non dal traditore, il cui cuore indurito e perciò ghiacciato è morto ad ogni sentimento, è immobile come quel teschio, ma fatta dalla vittima, divenuta il suo carnefice.

    Creata questa situazione, il regno della ghiacciata e prosaica necessità ridiviene il regno libero dell'arte. Ugolino, se, come traditore, è lui pure tra' ghiacciati, come vittima, posta lì dal divino giudizio col capo come « cappello » al capo dell'offensore, e non solo un istrumento fatale dell'eterna legge, ma l'offeso che mene nell'adempimento dell'ufficio tutte le sue passioni di uomo e di padre. Indi è che nella rappresentazione della pena il concetto della giustizia rimane un sottinteso: né il poeta vi fa alcuna allusione, né Ugolino ne ha coscienza. Bertram dal Bornio è non altro che peccatore e dannato, che riconosce in sé la giustizia della pena e può dire:

     

    Così si osserva in me lo contrappasso.


    In questo caso l'interesse poetico non può nascere che dall'orrore e dalla maraviglia di una pena così insolita, un busto che tiene per le chiome « presol con mano» il suo capo trenco, un orrore e una maraviglia che si trasforma in un appagamento intellettuale, quando la pena è spiegata e legittimata. Ma Ugolino qui non è il peccatore e il dannato, e non è neppure un esecutore della legge divina se non inconscio. Una sola cosa egli sa, di aver sotto a' denti il teschio del suo nemico e di sfogare in quello il suo odio. Dante stesso non è colpito se non da ciò che in quel fatto è personale, sfogo d'odio d'uomo offeso:

     

    O tu che mostri per sì bestial segno
    Odio sovra colui che tu ti mangi,
    Dimini il perché, diss'io, per tal convegno:
    Ché se tu a ragion di lui ti piangi, ecc.


    Così Ugolino è un personaggio compiutamente poetico, che può manifestarsi in tutta la ricchezza della sua vita interiore.
    Già in pochi tratti il poeta ha abbozzata questa colossale statua dell'odio, un odio che rimane superiore a quel « segno bestiale », che già ha fatto tanta impressione in Dante. Ma in seno all'odio si sviluppa l'amore, e il cupo e il denso dell'animo si stempra ne' sentimenti più teneri. Quest'uomo odia molto, perché ha amato molto. L'odio è infinito, perché infinito è l'amore, e il dolore è disperato, perché non c'è vendetta uguale all'offesa. Tutto questo trovi mescolato e fuso nel suo racconto, non sai se più terribile o più pietoso. Accanto alla lacrima sta l'imprecazione; e spesso in una stessa frase c'è odio e c'è amore, c'è rabbia e c'è tenerezza; l'ultimo suono delle sue parole, che chiama i figli, si confonde con lo scricchiolare delle odiate ossa sotto ai suoi denti.

    Gli antecedenti del racconto sono condensati in rapidissimi tratti, che ti risvegliano tutta la vita del prigioniero, al quale i mesi e gli anni che per gli uomini distratti nelle faccende volano come ore, sono secoli contati minuto per minuto. Ugolino è chiuso in un carcere, a cui viene scarsa luce da un breve foro, al quale sta affisso; ed il suo orologio è la luna, dalla quale egli conta i mesi della sua prigionia. Quell'angustia di carcere paragonato ad una « muda » , quel piccolo « pertugio », e le ore contate sono tutto il romanzo del prigioniero nelle sue forme visibili. Né con meno sicuri tocchi è rappresentato l'animo. Due sono i sentimenti che nutrono l'anima solitaria di Ugolino :l'incertezza del suo destino e l'accanimento de' suoi nemici. Ciò che più strazia il prigioniero, è il dubbio, è il « che sarà di me? »; la fantasia esagitata da' patimenti e dalla solitudine si abbandona alle speranze e a' timori. Ugolino ignora la sua sorte, e teme e spera: l'idea della morte non può cacciarla da sé. E rimane in quest'ansietà, quando viene « il mal sonno » che gli « squarcia il velame » del futuro. Il poeta di tutta questa storia intima non esprime che l'ultima frase, la quale ad un lettore anche di mediocre immaginazione fa indovinare il resto, ma in quel modo vago e musicale che è il maggiore incanto della poesia. Il « mal sonno »! Quel « mal », quella imprecazione e maledizione al sonno fa intravedere quante speranze esso ha distrutte, quante illusioni ha fatto cadere! Il sogno è un velo, dietro al quale è facile vedere le agitazioni della veglia: il reale si rivela sotto al fantastico. Ruggiero, Gualandi, Sismondi, Lanfranchi stanno presenti innanzi al prigioniero, crudeli in sé e ne' figli, e ora gli appariscono in sogno cacciando il lupo e i lupicini; l'occhio vede animali, ma l'anima sente colifusamente che si tratta di sé e de' suoi figliuoli, e quel lupo e quei lupicini si trasformano con vocabolo umano in « padre e figli ». L'uomo in sogno quando s'immagina di essere inseguito e vuol correre, come sta immobile in letto, gli pare che le gambe sieno indolenzite e tarde al corso. Quel povero lupo non è che il padre e non può correre e si sente già ne' fianchi « le acute zane »:

     

    In picciol corso mi parcano stanchi
    Lo padre e i figli, e con le acute zane
    Mi parca lor veder fender li fianchi.


    Qui entrano in iscena nuovi attori; Ugolino non è solo; compariscono i figli proprio nel momento della crisi, e per più strazio. Anch'essi sognano; sentono fame e domandano pane. Il padre congiunge il suo sogno con quello de' figli, e l'ultima sua impressione è: morire, e morir di fame! Questo è ciò che « si annunziava » al suo cuore. E gli par così chiaro, che non sa come non lo senta anche Dante e non se ne commova al pari di lui:

     

    Ben se' crudel, se tu già non ti duoli,
    Pensando ciò che al mio cor s'annunziava;
    E, se non piangi, di che pianger suoli


    Quando siamo presi da passione, vorremmo che tutti partecipassero al nostro dolore, e ci fa male la vista delle persone indifferenti. Una madre del popolo che teme ucciso il figliuolo, va correndo per le vie forsennata chiedendo alla gente: - L'avete veduto? - quasi tutti sapessero di chi parli o di che si affanni. Ugolino nel sogno suo e de' figli vede già tutta la sua storia, e quando, alzando gli occhi a Dante, non vede in quel volto più curioso che commosso le stesse sue impressioni, gli par quasi che colui non abbia anima d'uomo, e se ne sdegna, e gliene fa improvviso e brusco rimprovero. Fieri accenti, che, usciti dalla sincerità di un dolore impaziente e sdegnoso, non movono collera in Dante, anzi accrescono la sua commiserazione e gli tirano per forza lacrime non ancora mature.

    Questa rappresentazione può parere scarna a quelli che sono inclinati alla rettorica e all'analisi, a ridurre i sentimenti in pillole, a diluire in un volume Le ultime ore di un condannato a morte. Essa è un capolavoro della maniera dantesca, che è la grande poesia, quel dipingere a larghi e rapidi tocchi, lasciando grandi ombre illuminate da qualche vivo sprazzo di luce. Tutto è al di fuori; tutto è narrato, anziché descritto o rappresentato, ma narrato in modo che l'immaginazione, fatta attiva e veloce, riempie le lacune e indovina il di dentro. Non è un quadro, ma uno schizzo, tale però che il lettore ti fa immediatamente il quadro. E questo avviene perché il quadro esiste già nella mente del poeta, esiste e si rivela in quello schizzo così chiaramente, ch'egli si sdegnerebbe, come Ugolino, se il lettore rimanga freddo ed abbia aria di non capire. La grandezza dell'ingegno non è in quello che sa dire, ma in quello che fa indovinare.

    L'importanza di quello che segue, è tutta nella presenza de' figli. Se Ugolino fosse solo, il racconto finirebbe qui, né il fiero uomo dimorerebbe ne' particolari della sua agonia. L'offesa non è la morte sua, ma de' suoi figliuoli. E questo lo rende altamente interessante. Ve ne accorgerete al tono così tenero e molle del suo dire, quando per la prima volta mette in iscena i figli:

     

    Pianger sentii fra 'l sonno i miei figliuoli,
    Ch'eran con meco, e dimandar del pane.


    Questa vista lo commuove tanto, che provoca la sua sdegnosa e brusca apostrofe a Dante, non commosso del pari al pensiero di ciò che « si annunziava » al cuore del padre. Quello che si annunziava al cuore era il non dover morir lui, ma il dover vedersi morire i figliuoli. E quando sente « chiavar l'uscio di sotto all'orribile torre », il primo suo atto è guardare in viso i figliuoli, che non avevano sentito nulla ed erano ignari della loro sorte. Una vena di tenerezza penetra in questa natura selvatica; l'amore paterno abbella la sua figura e raddolcisce anco il suo accento. Quella musica scabra ed aspra nel principio e nella fine, quella musica dell'odio ferino prende qui la morbidezza e la soavità quasi dell'elegia.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis