DANTE ALIGHIERI

  • LA RIMA NELLA DIVINA COMMEDIA
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    Autore: E. Giacomo Parodi Tratto da: La rima nella Divina commedia

     
         

    Dante sovra gli altri poeti « com'aquila vola »; che mentre negli uni il disegno predomina sul colore e il pensiero quasi si ribella alle esigenze della forma, e negli altri, come l'Hugo, altamente poetica e colorita è l'espressione, ma difettoso il disegno e scarso il contenuto, egli invece con la nettezza della linea e colla profondità del pensiero e del sentimento accoppia le più potenti facoltà dell'immaginazione, creatrice non solo d'una
    architettura solida e severa, di situazioni e di caratteri, ma delle più vigorose e originali espressioni, delle più plastiche e più luminose imagini, che sieno scaturite da mente umana. La potenza inventiva della frase è in Dante senza confini, ed è essa la grande produttrice di rime; ma dalla rima attinge a sua volta continuamente nuova materia e nuovi impulsi, cosicché è fra loro un incessante dare e ricevere. Che la rima non traesse mai Dante a dire quello che non voleva, potremmo credere anche senza l'antico commentatore; poiché veramente il suo pensiero « sta come torre fermo », ma dal nudo tronco di esso germogliano in copia e foglie e fiori, che lo rivestono, senza nasconderlo mai. Chi ci dirà dove la rima gli abbia suggerito l'imagine, o dove da questa sia sgorgata la rima? Certo anche in Dante, come in qualunque poeta, la parola usata in rima è usata per la rima, giacché solo di rado avviene che la parola necessaria cada naturalmente proprio là dove dovrebbe; ma le cose, interrogate dal suo cuore o dal suo pensiero, rispondono con una varietà immensa di suoni, e fra questi ve n'è sempre uno, che rende, con mirabile felicità, l'eco voluta. Egli vede e sente per imagini, e anche una semplice parola e anche il pensiero più astruso o più impalpabile e il ragionamento più astratto assume subito nella sua mente una forma concreta di cosa sottoposta ai sensi, e, per esprimerci al modo antico, s'incarna; o parli dell'anima beata, che potendo negare all'altrui sete « il vin della sua fiala », cioè potendo rifiutarsi di compiacere a giusto desiderio,
     

    in libertà non fora,
    Se non com'acqua che al mar non si cala,


    o del raggio riflesso che si parte dal « raggio primo » e risale in su,

     

    Pur come peregrin che tornar vuole,


    o del corpo solido della luna che accoglie in sé un altro corpo,

     

    com'acqua recepe
    Raggio di luce, permanendo unita,


    (dove la felicità dell'imagine è tale, che c'illudiamo di comprendere quello che è per sua natura incomprensibile); o ragioni infine degli errori a cui l'uomo va incontro, giudicando senza maturo consiglio:

     

    Non sien le genti ancor troppo sicure
    A giudicar, sì come quei che stima
    Le biade in campo, pria che sien mature,
    Ch'io ho veduto tutto il verno prima
    Il prun mostrarsi rigido e feroce,
    Poscia portar la rosa in sulla cima,
    E legno vidi già dritto e veloce
    Correr lo mar per tutto suo cammino,
    Perire al fine all'entrar della foce.


    E che larghezza di movimento, che pienezza e che esuberanza di accordi! Chi non ricorda il principio del ventesimo canto del Paradiso, il sole, « colui che tutto il mondo alluma », che diventa una persona viva, il giorno « che d'ogni parte si consuma », quasi nello struggimento dell'abbandono, l'aquila « il segno del mondo e de' suoi duci », espressione così larga e solenne, e l'amore « che s'ammanta di riso», e le anime, divini flauti, « c'avieno spirto sol di pensier santi », e il torrente d'imagini che segue?

     

    Poscia che i cari e lucidi lapilli,
    Ond'io vidi ingemmato il sesto lume,
    Poser silenzio agli angelici squilli,
    Udir mi parve un mormorar di fiume,
    Che scende chiaro giù di pietra in pietra,
    Mostrando l'ubertà del suo cacume.
    E come suono al collo della cetra
    Prende sua forma, e sì come al pertugio
    Della sampogna vento che penetra,
    Così, rimosso d'aspettare indugio,
    Quel mormorar dell'aquila salissi
    Su per lo collo, come fosse bugio.


    Rapide, plastiche e luminose, tutte le frasi sono segnate dell'interna stampa di Dante, l'ubertà del cacume, il suono che prende sua forma al collo della cetra; e ci mostrano fuse in indissolubile accordo la potenza fantastica e la potenza creatrice della rima.

    E così sempre le imagini di Dante, o sia quella del villano, che

     

    Come la mosca cede alla zanzara,
    Vede lucciole giù per la vallea,
    Forse colà dove vendemmia ed ara,


    o quella notissima del tizzo, che arde dall'uno dei capi e

     

    dall'altro geme
    E cigola per vento che va via,


    o quella della carta, che abbrucia:

     

    Come procede innanzi dall'ardore
    Per lo papiro suso un color bruno,
    Che non è nero ancora e il bianco muore,


    o quella dei beati, che si soffermano dalla danza, per attendere le nuove note:

     

    Donne mi parver, non da ballo sciolte,
    Ma che s'arrestin tacite, ascoltando
    Fin che le nuove note hanno ricolte,


    o anche quella, pur adoperata innanzi a lui, della fronda

     

    che flette la cima
    Nel transito del vento, e poi si leva
    Per la propria virtù che la sublima,


    o cento e cento altre. La rima scaturisce insieme coll'espressione nuova ed immortale, e la visione dantesca, nella sua incredibile intensità, si fissa senza sforzo apparente, in modo immediato, nella parola, con frasi di maravigliosa evidenza, come geme e cigola per vento che va via, oppure che non è nero ancora e il bianco muore, e con vocaboli, anche se non nuovi, ripieni d'un'anima nuova e impressi d'indelebile suggello, come da ballo sciolte, e le note ricolte, e quell'incomparabile ardore. L'imagine della fronda non è nuova, di certo; ma l'ultimo verso della terzina, che pur si direbbe suggerito dalla rima, balza ad un tratto dall'anima fiera di Dante, e fa della povera fronda inanimata, esposta ai capricci del vento, un essere vivo, che tende con irresistibile forza verso l'alto.
    E si noti. La padronanza assoluta, che Dante ha della rima, si manifesta pure nel confronto delle immagini col loro contesto; giacché esse non sono mai un puro ornamento, ma piuttosto una determinazione e un'illustrazione del pensiero, o fanno parte del ragionamento, che ora conducono più in là del punto di partenza, ora forniscono di nuovi addentellati, per procedere più oltre. Come nei globi di fuoco, che sfavillano e danzano davanti al poeta per gli spazi dei cieli, si nascondono le anime dei beati, così nel fulgore delle imagini dantesche è sempre racchiuso il pensiero, del quale sono come la luce naturale. E questo è vero anche nei pochi casi, in cui possiamo tenerci sicuri, che furono suggerite direttamente dalla rima. Quando Dante narra della seconda gerarchia angelica, che gira cantando intorno al punto luminoso, simbolo e segno della Divinità, dalla rima voglia scaturisce la comparazione del ternaro degli angeli con un albero, che germoglia in mezzo ad un'eterna primavera:

     

    L'altro ternaro, che così germoglia
    In questa primavera sempiterna,
    Che notturno Ariete non dispoglia,
    Perpetualemente Osanna sverna
    Con tre melode. . .


    L'imagine riesce alquanto inattesa, e non sgorga necessariamente dal contesto né illustra o continua il pensiero fondamentale, ma si svolge, per così dire, a fianco di esso, lumeggiando particolari, ai quali l'attenzione non si sarebbe rivolta. E tuttavia non è ridondante, poiché ad un tratto codesti particolari si confondono nell'insieme, facendo lampeggiare d'un riso primaverile tutta la scena; e il terzo verso « Che notturno Ariete non dispoglia >, è uno dei più bei versi di Dante, compie in noi la visione, coll'evocazione magica della notte e il confronto della primavera terrena.
    A chi legga l'Ariosto, poeta di così fluido e tosi florido verso, può facilmente accadere, che da una rima indovini quale sarà la rima e la frase del verso corrispondente; in Dante invece, quando non è rara o inaspettata la rima, rara e inaspettata è l'imagine. Un illustre critico francese, il Brunetière, ha recentemente ricordato un motto del Fontanelle, singolare pel tempo in cui fu pronunciato: « (la rime) est d'autant plus parfaite que les deux mots qui la forment sont plus étonnés de se trouver ensemble n. Di codesti vocaboli, stupiti di farsi così tuona compagnia, ve n'è in Dante un gran numero, e tutti ricordano, quasi direi, come preziosità tecniche, « Del no per li danar vi si fa ita », o la singolare terzina:
     

    Vedrassi al Ciotto di Gerusalemme
    Segnata con un I la sua bontate,
    Quando il contrario segnerà un emme


    o l'ardita immagine:

     

    Vidi moversi un altro roteando,
    E letizia era ferza del paleo.


    Ma se è rima preziosa cruna, nei versi dove il poeta narra del suo incontro con Brunetto Latini, meno preziose sono forse, considerate nel loro contesto, sera e runa, pur tosi comuni per sé stesse?

     

    incontrammo d'anime una schiera,
    Che venia lungo (argine, e ciascuna
    Ci riguardava, come suol da sera
    Guardar l'un l'altro sotto nuova luna,
    E si ver noi aguzzavan le ciglia,
    Come vecchio sartor fa nelle cruna.


    O la rima nodo d'una terzina del Paradiso, sebbene così ovvia che sarebbe balenata anche al più infelice dei rimatori, è forse meno nuova, quando fiorisce in un 'immagine, strettamente legata coll'insieme e di singolare evidenza?
     

    Se li tuoi diti non sono a tal nodo
    Sufficienti, non è maraviglia,
    Tanto, per non tentare, è fatto sodo.


    La ricchezza della rima non consiste, come spesso vogliono i tecnici, nelle novità del vocabolo, o nelle consonanti d'appoggio e nel maggior numero degli elementi, che si corrispondono; tutto ciò contribuisce naturalmente all'eleganza e alla robustezza del verso, ma non è in fondo che qualcosa di materiale e d'esteriore, la cornice del quadro, alla quale possiamo attribuire più o meno grande importanza, secondo i nostri gusti e secondo le tendenze del momento. Ma la vera ricchezza, che sfida le rivoluzioni del gusto e dei tempi, è tutta interiore, e si confonde col contenuto ideale del vocabolo e della frase in rima. Senza dubbio, quanto più vario e pieno è il contenuto, più vari, più numerosi, più nuovi riescono necessariamente i vocaboli che lo esprimono; ma non conviene riguardar come principale quello che è secondario, secondoché hanno fatto, specialmente in Francia, le moderne scuole poetiche, né come uno scopo o almeno non come il più alto scopo da raggiungere quella ricchezza esteriore, che dev'essere un efetto spontaneo della potenza imagin ativa.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis