Edgardo Poe in una sua
bella conferenza - The poetic principle arrischiò l'affermazione che il «
lungo poema » non esiste e che una tale espressione è puramente e
semplicemente una contraddizione in termini, e che, insomma, il Paradiso
Perduto, la Divina Commedia del mondo anglosassone, va considerata come
una serie di brevi poesie (as a series of minor poems). Perché, egli dice
nella sua terminologia semplicista, la poesia, per esser degna del nome,
deve eccitare, elevando l'anima, e tutti gli eccitamenti sono, per una
necessità psichica, transeunti. Se non che, Dante, che, da buon
fiorentino; sapeva perfettamente come si faccia l'inventiva spicciola a
base di politica e di rancore personale, ma che, d'altra parte, usciva dal
mondo degli universali, era ben remoto dal sentire, come noi sentiamo (e
da così poco tempo in qua), che la poesia. strettamente personale, potesse
aspirare alla cittadinanza del mondo. Ma, anche, già vivo in lui il
conflitto tra la personalità irrompente e il senso medievalmente preciso
della transitorietà di tutto ciò che è personale, cioè semplicemente
umano, egli sentiva che la poesia realistica alla quale avea fatto
l'orecchio e la mano nel rimescolio della pettegola vita fiorentina,
grande poesia, cioè espressione di una cultura superiore e d'universale
interesse non potea divenire che propagginata lungo i meandri d'una
costruzione dottrinale e ultra-mondana. Cara quindi al poeta, che
amorosamente la curava colle sue mani onnipossenti, la carcassa della gran
mole, perché giustificatrice del laborioso dettaglio; caro il dettaglio
più o meno personale, perché, a titolo di esemplificazione di principi
incrollabili nella sua coscienza, veniva a partecipare dell'universalità
dell'insieme. La cattedrale gotica fu, malgrado il suo nome che fa pensare
al medio evo feudale, un prodotto della vita comunale, cioè di umanità che
si rinnovava, precisamente come nella Divina Commedia; con questo in meno:
che al rinnovamento mancava la coscienza individuale che solo dà la
cultura; sicché gli artisti anonimi che cercavano a forza di archi
buttanti e di ogive incrociate la prossimità del cielo, nelle congerie poi
dei particolari grottescamente realisti, di cui popolavano i portali,
depositavano il residuo non ancora eliminabile della mortificata umanità
medievale; laddove nella Divina Commedia l'elemento umano, estratto da una
personalità coscientemente superiore, si fondeva di pieno diritto col
divino.
E tutto ciò, si capisce, per virtù d'arte, d'un'arte che di nulla tanto si
gode quanto del suo trionfo sulla materia dottrinale, ch'essa riesce ad
improntare di quel medesimo carattere di plasticità che contraddistingue
la parte genuinamente « lirica » del poema. Dante si gode a metter ordine
nello scibile del suo tempo come S. Tommaso a metter ordine nell'andatura
alluvionale delle correnti mistiche.
L'arte, che nel senso classico della parola, esclude il caos ed è
disciplina e norma che ci permette di commisurare continuamente noi a noi
stessi e agli altri ai quali vogliam tradurre il nostro pensiero, ecco
quello su cui Dante poté contare per esprimere quella sua personalità che,
mancando l'arte, sarebbe andata del tutto perduta ,o si sarebbe
frammentariamente espressa.
Che per tal via differisse dai suoi predecessori e contemporanei Dante
ebbe precisa coscienza, e che arte fosse cultura oltre che ispirazione
egli aveva già profondamente creduto prima di scrivere la Divina Commedia
e continua a crederlo scrivendola.
Il De vulgari Eloquentia ha un suo fondamento, una concezione
perfettamente umanistica della poesia, non solo e non tanto in quanto
addita e prescrive la gara coi modelli classici, ma in quanto una tal gara
è additata e prescritta perché la nuova poesia si disciplini sotto la
norma già preesistente e più ancora in quanto l'origine della. virtù della
parola poetica è rimessa nelle mani dell'uomo come un'operazione volitiva,
e considerata quindi com'uno dei tanti trionfi umanistici dello spirito
sulla natura.
E se così teorizzando nel De vulgari Eloquentia egli non faceva che
illustrar la pratica già seguita come poeta del « dolce stil novo », con
perfetta coerenza al suo ideale della poesia ch'è arte e quindi anche cosa
che si fa e progredisce colla cultura, egli era portato e disporre come
tappe di progresso su una linea evolutiva, le scuole che avean preceduto
quella da lui illustrata: e la provenzale e la siciliana e la bolognese e
la toscana (...il notaio e Guittone e me... E anche: Così, ha tolto l'uno
all'altro Guido La gloria della lingua .... E i Provenzali, e i Siciliani,
e i Bolognesi, e i Toscani: « eloquentes », cioè campioni dell'eloquenza
in poesia, che non può voler dire se non lo sforzo verso il nobile ideale
umanistico che parifica oratore e poeta (difatti, Virgilio « fonte, che
spande di parlar sì largo fiume »), poeti che primi « hanno regolarmente
poetato », cioè con fisse norme, che portassero a ciò che noi non
ammettiamo volentieri la creazione della scuola; « dictatores », dettatori,
cioè campioni dell'arte del 'dire, della rettorica affermata nel nome
tradizionale di cui andaron fieri e Boncompagno e Guido Fava; « doctores »
in fine, il solenne appellativo che per sé e per gli altri della sua
taglia invocava, l'anno di grazia 1274, in cui agli occhi di Dante novenne
«apparve prima la gloriosa donna della sua mente », un trovator
provenzale, Giraldo Riquier, da Alfonso re di Castiglia, per antonomasia
detto il Sapiente, quello dal quale si recò ambasciatore Brunetto, il
maestro di Dante stesso.
Cosa dotta, quindi, ai suoi occhi e solo in quanto tale altamente
pregevole il dolce stil novo nelle sue origini. Guido Guinizelli il «
savio », cioè il « dittatore », che in suo « dittato » eleva a formule
definitive e il principio, che già aleggiava sulla poesia provenzale della
identificazione di «amore» e « cor gentile » e la confusione della donna
amata colla Regina dei Cieli, che è motivo col quale cerca rinnovarsi la
poesia decaduta di Provenza allorché sbocca nella morta gora
dell'Accademia tolosana. Squisito « fabbro del parlar materno » sia pur
non quanto Arnaldo, ma, comunque, prima di Dante e nella sua stessa
direzione, cioè sommo artefice che colla squisitezza delle parole tien
dietro alle sottigliezze dell'amore pensato come una dottrina complicata -
« occultae ratiocinationes faciunt plurimum ad usum amoris » aveva da un
pezzo insinuato Boncompagno, gran maestro di rettorica, non come una
polla di facile ispirazione, della quale, del resto, non è mai cenno nel
libro teorico dell'Eloquenza. Cioè: Amor che spira non nel senso che
sempre si è inteso e Croce ancora intende e che il Perez e dopo di lui il
Cesareo misero in dubbio; ma nel senso che suggerisce le complicate
sottigliezze dell'amore assurto a scienza attraverso centocinquant'anni di
poesia provenzale, vale a dire cortese, e, come tale, materia
singolarmente adatta alla gioventù di Bologna e di Firenze, fiera della
nobiltà nova della cultura; Amor che « detta » ed è dunque un « dictator
», che colla sua brava « ars dictaminis » alla mano suggerisce « quel modo
», quel certo dato modo che proprio perché è una cosa determinata dal «
dictatore » per gli eletti della sua scuola, i quali gli tengono dietro a
prendere appunti con le frettolose « penne » (diretro al dittator seri
vanno strette) non può esser l'amore (amoris accensio) come allo stato
rudimentale sprizza fuori dalla facoltà animale dell'uomo (De vulg. El.,
II, a) e che, preso in quel momento iniziale, è per tutti lo stesso e
tutti ispira in un unico modo.
Poesia dunque di testa questa dello « stil novo », poesia convenzionale
che legittima in tutto e per tutto le riserve colle quali il Croce argina
l'ammirazione, essa stessa di testa e convenzionale, della quale per lungo
ordine d'anni fu fatta oggetto. È una poesia di classe anch'essa, com'era
stata quella provenzale; ma di una classe ben più ristretta, quella della
gioventù colta che, là dove furori tratti i baroni a pettinare il lino,
sostituiva risolutamente all'ideale della poesia di corte quello della
poesia di scuola, venendo così anche a sostituire al privilegio feudale
quello della cultura, il solo conveniente alle istituzioni della libera e
borghese Firenze.
Si tratta né più né meno che di un cenacolo di giovani che s'adunano, come
sogliono adunarsi i giovani che non hanno ancora trovato se stessi, sotto
la signoria d'Amore e d'amore conversano - come torneran poi a fare i
gentiluomini e le cortigiane della Rinascenza sotto la signoria di Platone
- con un linguaggio che oscilla tra la donna gentile delle canzoni e dei
sonetti e le forosette delle ballate, ma non è meno convenzionale nell'uno
che nell'altro caso. Al Carducci questa poesia ricordò Heine: un poeta di
testa più assai che il Carducci non pensasse e come il Bartels ha
egregiamente dimostrato.
Ma a Dante - dice il Croce - non fu inutile il giovanile esercizio di
questa difficile poesia d'amore: fu il suo tirocinio.
E a me fa piacere che per questa via egli venga ad ammettere che anche per
un poeta come Dante c'è la possibilità di crearsi o perfezionarsi la
tecnica. Ma non posso non domandarmi: la tecnica di Dante, lirico dello
stil novo, non è quella teorizzata nel De vulgari Eloquentia? e non è
passato in giudicato che mentre qui egli lo ripudiava, adottò poi, con una
geniale contraddizione, il fiorentino nella Divina Commedia?
Ora, la verità è che Dante non si contraddisse affatto, scrivendo la
Divina Commedia dalla cui soglia, si badi (Lo bello stile che mi ha fatto
onore), egli riguarda la sua attività poetica di stilnovista come il
laborioso trionfo d'arte il quale gli ha già assicurato, là dove solo si
poteva conseguirla, cioè nella poesia d'amore, la gloria letteraria. La
lingua d'oro, della quale egli aveva inteso fissare il tipo nel De vulgari
Eloquentia, d'oro nel senso che, per essere costituita dal fondo comune a
tutti i parlari italici, doveva necessariamente rivestire un carattere di
schifiltosa genericità, era la lingua riservata alla lirica amorosa, che
proprio da quella genericità derivava, come avea già fatto in Provenza, la
sua impronta aulica, cortigiana, cioè supremamente nobile. E c'è da
scommettere che se avesse scritto il De volgari Eloquentia dopo aver
finita la Divina Commedia, lo avrebbe scritto come noi lo abbiamo. Ma la
Divina Commedia sta alla Vita Nova come il sirventese provenzale sta alla
canzone. E la lingua trovadorica dei sirventesi è tutt'altra cosa da
quella delle canzoni; della quale, si badi, unicamente si preoccupano e il
Donato Provenzale e le Leys d'Amors, le poetiche, cioè, che sono per la
letteratura provenzale quello che il De vulgari Eloquentia è per la
italiana. Il realismo più crudo invade, irresistibile, non solo il
sirventese politico o personale, ma anche, e più ancora, la tenzone
burlesca: più ancora, perché essa reagiva alla tenzone seria, alla quale
appunto eran riservate le più squisite sottigliezze della casistica
amorosa. C'è da sentirsi offesi i cinque sensi come nei più scabrosi passi
della Commedia, e, anche, della poesia realistica fiorentina, che fa da
preciso contrappeso a quella dello stil novo. Or Dante conobbe questa
poesia, ne fece, anzi, egli stesso, a gara con Forese Donati, che - fu
giustamente notato - riesce a tenergli testa, e come! L'incontro con
Farinata, laggiù all'inferno, è anch'esso, alle prime battute, uno
scontro, ringhioso da una parte e l'altra. La profezia di Vanni Fucci
ladro è animata da quello stesso dispetto che anima i sonetti scambiati
tra fiorentini guelfi e ghibellini sull'imminente conflitto tra Corradino
e Carlo d'Angiò, là negli anni che Dante era bambino. Quasi tutti quei
sonetti volgono nelle terzine a profezie non so più se minacciose o
dispettose; e nella decima bolgia Sinon Greco e Mastro Adamo s'incalzano
terzina per terzina, salva la maggior acerbità di tono e l'intervento del
sonoro pugno, precisamente come nella loro tenzone Monte Andrea e Schiatta
di messer Albizzo Pallavillani. E ci sorprende pur sempre la minuzia del
realismo regionale contrastante con figurazioni della più nobile
tradizione classica: ad esempio, i giganti, tra i quali Tifeo, Briareo,
Anteo, i più noti, insomma, della galleria mitologica, paragonati alle
torri del castello di Montereggioni.
Egregiamente vi esalta il Croce l'effetto ultimo d'una legittima
parificazione sullo sfondo dell'eternità, ma essa non esclude affatto la
capricciosa gioia dell'artista nel grottescamente giustapporre le
peregrine figurazioni del mondo classico e le attualità che sono a portata
di mano, la stessa capricciosa gioia dello stilista davanti alla stridente
attiguità del crudo latinismo e dell'idiotismo beceresco.
Se non che la vita così viva della Divina Commedia per la brevità e
precisione dei gesti che la ferrea terzina - uscita essa stessa dal
vecchio sirventese - impone, ha i suoi più stretti precedenti in quella
più tarda parte del Canzoniere che contrasta con la Vita Nova precisamente
per un lacerante realismo d'accenti. Nella canzone Così nel mio parlar
voglio esser aspro Amore, rimboccate facchinescamente le maniche della
camicia, si caccia sotto in rissa il poeta, e, disteso e riverso,
malamente lo pesta, come Ercole farà con Caco, ch'ebbe le cento e non
sentì le diece (beceresco linguaggio anche questo, e come!). Certo, già
Cavalcanti aveva avuto di tali uscite: per es., il cuore dell'amante « che
morte porta in man tagliato in croce » come dall'esperta mano di un
beccajo o d'un cuoco, e non si potrà non pensare che caratteristica di
questa poesia fiorentina della gioventù di parte bianca, sia l'azione
mossa, la drammatizzazione, che, come notò un egregio storico dell'arte
giottesca, caratterizza e Cimabue e Giotto e giotteschi a reazione contro
il rigidismo bizantino sorvegliato a vista dalle improrogabili esigenze
del cerimoniale. Ma di un così nuovo e cospicuo mezzo d'arte, Dante si
fece coscientemente una maniera e nelle canzoni della pietra e nelle
sestine, attraverso le quali egli sempre più si avvicina allo stile della
Commedia e nelle quali gli giovò anche il modello del tanto ammirato
Arnaldo Daniello, il trovatore che sentì il bizzarro incanto della parola
realisticamente lacerante sulla trama tenuissima della canzone d'amore. «
Oncle », « ongla », « cambra », ecco parole ignote al lessico trovadorico
e che in una sestina di Arnaldo risuonano ostinatamente come ciottoli
agitati in un bossolo metallico. E non è possibile calcolare quanto questi
ardimenti incuorassero Dante nelle alternative e commistioni continue di
spirito e materia che la Commedia gli chiedeva.
Dante dovea passar di lì per poter poi trovarsi a suo agio nella Divina
Commedia, dove gli occorreva dir tutto, oltre che in stridenti attiguità,
nel modo più breve e quindi più diretto che fosse possibile. Ma in tale
tirocinio lo accompagnò pur sempre l'illusione di far della poesia, non
realistica nel senso che noi intendiamo, ma squisitamente colta, poiché
sin nelle origini del trovare oscuro e della rima aspra e sottile, due
ingredienti si contendono il campo: il dottrinale o moraleggiante e
l'espressione difficile per troppo concentrato realismo. Marcabruno -
certamente un chierico raté, non un giullare-giocoliere - insegni, là ai
primi albori della poesia occitanica, e con lui tutti i chierici
sermoneggianti in esametri leonini e inclinati e consonanti (Bernardo di
Morlas, Ildeberto di Tours, ecc.); molto di qua da Marcabruno, e in
immediata attiguità a Dante, Guittone e gli altri suoi peggiori. E una
tale illusione continuò ad essergli compagna nel viaggio ultramondano,
dove il parlar breve, e quindi sempre un po' difficile ed oscuro, oltre a
convenire al suo sguardo prodigioso che nel girarsi impietrava per
l'eternità le cose, rispecchiava anche l'ostinata ambizione di poeta
docente.
Questo per la storia, tanto più che Dante pel primo mostra di avere una
così gran fede nella perfezione evolutiva dell'arte.
E per la storia ancora sarà da notare che il prodigioso realismo di Dante
il quale anche da già vecchi espedienti rettorici spreme la vita come la
primavera la spreme dai rovi, sul margine polveroso delle strade, non
poteva far tradizione perché rispecchiava un momento di transizione. Quel
senso ingenuo della vita, che rendeva interessante agli occhi di Dante
tutta la vita, in quello stesso momento in cui doveva scomparire per
necessità storica ebbe a suo servigio la perfezione dell'arte, ch'era cosa
d'un mondo nuovo e che in questo mondo nuovo parve poi dissociarsi dalla
vita (è il pregiudizio del De Sanctis) solo perché, interpretandolo per
quel che era, diventò essa stessa la principale realtà della vita, e come
tale ripugnò a tutto ciò che fosse troppo limitato nel tempo e nello
spazio.
Il meglio della Divina Commedia è tutto ciò che sa di cronaca strettamente
locale (gli episodi di Francesca, Buonconte, Farinata, Cavalcanti,
Ugolino) o è notazione di minuscoli particolari di natura, notazione che
fuori della Divina Commedia parrebbe affettata; l'uccellino che di
sull'orlo del nido affretta col desiderio degli occhi fissi nello spazio
l'alba, si direbbe la sua alba; il cicognino che con un gesto né prima né
poi mai piú precisato prova le ali; i fioretti che si destano al sole
individuati e vivi come soldati in campo all'ora della sveglia;
l'epilettico che si leva di terra trasognato e si guarda intorno; i
giganti - figurazione della più solenne tradizione classica - assomigliati
alle torri di Montereggioni. Tutto realismo della portata di quello che
solo a titolo burlesco aveva utilizzato la poesia spicciola fiorentina del
suo tempo e che a tale titolo tornerà a fiorire sotto la penna del Berni e
dei seguaci suoi: laddove esso trova la sua prodigiosa rappresentazione
positiva tra le mani dell'artista che mette tutto se stesso in qualsiasi
momento della sua poesia, che va dalla contemplazione di tali minuzie a
quella dell'empireo e della divinità; ma il quale di tutto questo mondo
che tramonta con lui trionfa col mezzo dell'arte che al prodigioso modo di
vedere fornisce il modo dell'espressione adeguata e che è la
caratteristica fondamentale del mondo che si rinnova.
Se non che, tutto codesto doveva scomparire a Rinascenza maturante, se non
già matura. La Rinascenza, non per capriccio né per insincerità, ma perché
portata a commisurare natura e storia alla stregua della ragione
universale, doveva aver la ripugnanza sistematica dell'attuale, che
comprende in sé l'effimero e il locale.
E così stando le cose, il De Sanctis che, a differenza del Croce, fu
ancora un poco evoluzionista e perciò poté concepire una storia della
letteratura italiana, non ha ragione di intonare, allo staccarsi da Dante,
l'epicedio della letteratura italiana.
Alla poesia d'amore dello stil novo doveva seguire quella del Canzoniere,
così come alla poesia politica della Divina Commedia dovea succedere, con
caratteri che risponderan per secoli ai bisogni della nazione, la poesia
politica della canzone All'Italia.
L'uomo meraviglioso che il Croce ricostruisce fu in quanto autore della
Divina Commedia, poeta artista per eccellenza. Solo perché tale poté
compiere nel mondo della fantasia il miracolo che S. Tommaso compié in
quello del pensiero: di trarre un edificio compiuto dalla greggia materia
medievale. E come tale non fu, secondo crede il De Sanctis, la fine di una
letteratura uccisa poi dalla « precoce cultura » del Petrarca e successori
suoi, ma ne fu il principio.
Fu la « cultura » che permise al grande poeta di esprimere tutta
l'attualità di quel suo mondo che tumultuava inespresso e inesprimibile
nella coscienza dei suoi contemporanei ignari dell'arte che tutto fa,
nulla si scopre; e questa cultura, con quel suo carattere laico e
borghese, cioè moderno, continuò ad evolversi in direzione della
Rinascenza attraverso il Petrarca. Il quale non creò niente affatto il
dissidio tra arte e vita che tanto cruccia il De Sanctis; perché
rappresentò il suo mondo qual era, cioè già così avanti nella via della
Rinascenza, che sentisse il bisogno di esprimersi in un linguaggio che
rispondesse alle esigenze di una umanità eletta e nel quale la Bellezza
prendesse in prestito dalla Ragione la nota dell'universalità.
Il Petrarca spogliò la poesia amorosa, che volea poi dir la poesia
personale in un'età in cui l'amore fu come il perno delle tormentosità
dell'anima moderna, del carattere regionale, anzi provinciale, anzi
comunale, che riveste nello stil novo. Fu il Petrarca che abolì e la
castellana e la fanciulla angelica: figurazioni una di classe, un'altra di
scuola, e creò il tipo della « signora » della buona società; così come
per inquadrare la figura solitaria del poeta melanconico creò,
prescindendo da note locali, il paesaggio dalle fiorite piagge e dalle
scure valli che basterà poi al Rousseau e al Leopardi.
Ciò che par limitare l'umanità di questa poesia è la sua squisita
distinzione. Ma risponde essa stessa alla realtà delle cose, e nel
giudicarne noi dobbiamo prescindere dalla carità pel terzo stato che ha
sempre preoccupato la critica romantica e quindi anche il De Sanctis.
Quanto a poesia politica, ecco. L'apostrofe del canto di Sordello è la
canzone all'Italia di Dante; ma la differenza è che nella canzone del
Petrarca non si profilano né Papa né Imperatore, né Guelfi né Ghibellini,
né Bianchi né Neri, né Alberto Tedesco, né Montecchi e Cappelletti, né
Monaldi e Filippeschi; sì solo l'Italia, di contro al mondo barbarico,
cioè feudale, gotico, medievale: l'Italia che, noncurante di tutte le
fazioni e orientazioni politiche del momento o d'un troppo .recente
passato, si ricolloca solennemente nel bel mezzo della grande storia, e
raccogliendosi nella sua latinità, come in un paludamento imperiale, dalle
sue tradizioni di cultura e di civiltà si attende, come un imprescindibile
diritto, la propria redenzione.
Basterebbe questa canzone per provare, non solo che la « cultura » sempre
più progrediente non creò un dissidio tra la vita e la letteratura
italiana, .ma questa improntò di sé perché di quella fu il carattere
dominante.
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