DANTE ALIGHIERI

  • LA MONARCHIA
  •  
    Autore: E. Giacomo Parodi Tratto da: Dante: la vita le opere

     
         

    Che la Monarchia fosse scritta da Dante nell'aurora e nel meriggio del gran sogno imperiale (1310-1312), e non molto prima (che è quasi un assurdo), e non dopo, cioè negli ultimi anni della sua vita, come altri ha pensato (si direbbe che Dante non abbia risoluto di lavorar sul serio se non quando stava per morire), non già, dunque, dal 1317 in poi, quando la vampata di Arrigo ebbe un oscuro succedaneo nel fuoco fatuo di Lodovico il Bavaro, è attestazione del Boccaccio, dal quale pure ci proviene la notizia ch'essa però solo al tempo di Lodovico divenne famosa. Essa fu allora adoperata dai seguaci dell'Imperatore come arma polemica contro la parte del Pontefice; il che indusse poi il Cardinale del Poggetto, Legato pontificio nelle parti di Lombardia, a farla bruciare pubblicamente (1330), come libro eretico, « e il simigliante si sforzava di fare dell'ossa dell'autore ». Il solo dubbio ragionevole sarebbe se Dante riuscisse a pubblicarla, a pubblicarla tutta intiera nei primi tempi della spedizione d'Arrigo, o fosse prevenuto dall'incalzare degli avvenimenti. Nel principio del secondo Libro sembra già manifestarsi uno stato d'animo meno tranquillo e fiducioso, poiché il Poeta sa di popoli che meditano vane obbiezioni contro la santità dell'Impero, e assiste già « al doloroso spettacolo di Re e di capi di Stato in questo solo concordi, di far contro al loro Signore, e all'Unto suo, il Principe romano ». Forse il primo Libro era stato subito divulgato da solo? E il secondo dopo il tempo in cui, oltre ai Fiorentini, lo stesso re Roberto di Napoli si palesò apertamente contra Arrigo? Se non altro, questo è certo, che ci basta l'espressione Uncto suo del passo citato ad assicurarci che la Monarchia non poté ispirarsi se non a quell'unico che, durante la vita del suo autore, fosse « unto » imperatore a Roma, cioè ad Arrigo. E a ciò basterebbe da sé anche il fatto evidente che fin dagli inizi o dal « primo anno del faustissimo passaggio in Italia del divo Arrigo », - come Dante si esprime nella seconda e nella terza Epistola, inaugurando nel computo degli anni quasi una nuova era del mondo -, la Monarchia era già tutta pronta nel suo pensiero, e ch'egli si affrettò a bandirne i concetti essenziali in quegli opuscoli di propaganda e di polemica imperialistica, apocalitticamente gonfii, esaltati, terribili, che sono le Epistole stesse. Nella prima di esse, che porta per indirizzo: « A tutti e ai singoli Re d'Italia, e Senatori della Santa Città, e inoltre Duchi, Marchesi, Conti, ed ai Popoli, l'italiano Dante Alighieri, fiorentino ed esule senza colpa », Dante, benché certo gli stesse a cuor di non turbar l'idilliaca concordia d'allora fra l'Imperatore e il Pontefice, inseriva in mezzo ai suoi gridi d'esultanza e ai suoi solenni moniti il concetto, non ancora ben determinato nel Convivio e nello stesso Inferno, che l'Imperatore è in terra una specie di Vicario di Dio, in nulla inferiore al Pontefice; e dovunque, in questa e nelle altre due, risuonano argomenti e quasi espressioni della Monarchia.

    Eppure fra il Trattato e le Epistole non si potrebbe immaginare un più forte e quasi bizzarro contrasto. Alle personalissime Epistole la Monarchia si contrappone con la sua studiata impersonalità e obbiettività - specialmente nel primo libro -, col suo andamento scientifico, con la sua totale astrazione da luoghi e da tempi, quasi che si prefiggesse di rimanere il Codice perpetuo dell'umanità. Polemizza bensì, ma contro dottrine e argomenti, e solo contro i più importanti e diffusi, da qualsiasi parte vengano, trascurando la minuta plebe delle argomentazioni secondarie; e, poiché il primo libro intende a dimostrare la necessità e la bontà dell'Impero, e il secondo che all'Impero fu predestinato il Popolo romano, non è impossibile che in essi siano prese di mira le asserzioni in contrario dei Guelfi in genere, tanto dei Curialisti come Egidio Romano quanto dei polemisti francesi di Filippo il Bello, e di quelli che, secondo indizi a noi rimasti, debbono essere sorti intorno specialmente a Roberto di Napoli durante l'impresa di Arrigo. Il terzo libro invece, con la sua minuta e scolastica confutazione delle pretese pontificie di superiorità sull'Imperatore, è anticurialista per eccellenza. Ma a Dante più che di confutare gli errori, preme di costruire inoppugnabilmente la verità.
    Il carattere scientifico e originale dell'opera brilla di viva luce almeno nell'introduzione, dove Dante determina la natura e il fine della società e dello Stato. Dopo aver annunciato, come quasi in ogni sua opera, ch'egli tenterà una via nuova (anzi, qui come nel De vulgarí Eloquentia, scientificamente nuova « intentatas ostendere veritates »: costruire ex novo, e dimostrare, una teoria), Dante si propone una domanda che nessuno s'era ancora proposto: quale sia il fine terreno della società umana nella sua totalità. San Tommaso aveva detto aristotelicamente che il fine di tutti è lo stesso che il fine di un solo, e conchiuso piamente che, se il viver bene quaggiù è pure un fine secondario dell'uomo e della società, esso non ha valore se non in quanto sia ordinato al fine supremo, della vita eterna. Donde s'induce la superiorità del sacerdozio sopra ogni ministero della vita civile. Era una conseguenza naturale e ben dura a rimuoversi. Dante però la rimuove, quanto era possibile senza urtare contro i presupposti della fede, con un ragionamento che è un'ulteriore conseguenza logica di quello stesso di san Tommaso, mentre d'altra parte ridona il valore che le era stato tolto o scemato alla felicità di Aristotile. La vera felicità, quella oltre terrena, consiste per san Tommaso in una conoscenza che adegua intieramente la capacità di conoscere posseduta dall'intelletto umano. Sennonché questa, come san Tommaso riconosce, è la sua capacità « non naturale » o « ultranaturale », a cui si contrappone quella semplicemente « naturale », di cui dispone in terra; e Dante ne conchiude, con un logicissimo parallelismo, che il fine o la felicità dell'uomo in terra consisterà dunque nel conoscere tutto ciò ch'egli è capace « naturalmente » di conoscere. Ed ecco che un tal fine appare cosa indipendente e così pieno, che i mezzi atti a conseguirlo debbono possedere un'uguale indipendenza e pienezza. Ciò che riguarda il mondo di là può conservare una certa sua autorità morale maggiore; ma ciò che riguarda il mondo di qua si muove in una sua propria sfera, diversa, ben circoscritta e cosa ampia e augusta da bastare a se stessa e da non poter subire, per altrui preminenza, diminuzione di dignità.

    Quali sono i mezzi adatti a raggiunger questo fine? È qui che Dante riesamina il concetto di società. Se l'individuo non è sufficiente a se stesso, è chiaro che alla società si deve attribuire un proprio fine, diverso almeno quantitativamente da quello dell'individuo, che sarà di completare l'individuo medesimo. E poiché fine non possono essere i caratteri non specifici dell'uomo, per esempio la vita fisica, come per una società d'animali, fine sarà invece di sviluppare la potenza specificamente umana, l'intelletto; di ottenerne cioè quello sviluppo totale, nel senso più ampio, speculativo e pratico, che, come s'è detto, è per Dante il fine terreno dell'uomo, e che, per definizione, l'individuo isolato non è in grado di raggiungere. Ma non è in grado di raggiungerlo - questo è il punto estremo a cui Dante mira, « sillogizzando » i suoi « invidiosi veri » neppure una parte della società. Poiché la capacità totale dell'intelletto non può misurarsi che sulla totalità del genere umano, e il fine non può riguardar solo un avvenire indefinito, ma si appropria a tutti i momenti dell'umanità, solo l'intiera società umana, collaborando nel miglior modo insieme, può essere in grado di adeguare « sempre » (nella cognizione dei dati di fatto, dei « sensibili » in cui è il seme delle idee, se non nelle deduzioni, le quali costituiranno l'indefinito progresso), « sempre », cioè in ogni momento della vita storica del genere umano, la capacità naturale dell'intelletto. Il che si esprime forse anche più chiaramente, e meno scolasticamente, dicendo che, se il fine della società umana, la quale è complemento dell'individuo, è la felicità, questa non può ricercarsi per un dato luogo o momento, ma per tutti i luoghi e tutti i momenti. E la collettiva o, misi permetta il vocabolo, collaborazionistica felicità di Aristotile, estesa dalla
    cdliz al mondo. Di qui alla necessità, dell'Impero universale era breve passo.

    Non si può dubitare che Dante, per dar forma filosofica a questa teoria, costringesse a conciliarsi insieme Aristotile non solo, ma lo stesso san Tommaso con Averroè. Essa infatti non riesce ad una vigorosa dimostrazione, se non partendo dal principio del filosofo arabo, che l'intelletto umano possedendo la capacità di conoscere tutti i « sensibili », deve anche conoscerli «sempre» tutti; e poiché questo non è possibile all'uomo come individuo, deve essergli possibile come specie. Ma ne viene forse, come fu detto (Vossler) senza approfondire in che cosa consista l'averroismo dantesco, e pur prendendo un poco in giro Dante, che la sua teoria si riduce a far degli uomini altrettanti filosofi averroisti? Lasciamo stare l'Impero e quell'unità teorica e astratta da cui erano ossessionate le menti speculative del medioevo; ma Dante non parla di filosofia, bensì di speculazione insieme e di pratica, e non si può negare che, se anche non è una vera idea politica né una dimostrazione della sua tesi, non sia una bella interpretazione di Aristotile, e una bella novità dantesca, con tutto il suo finalismo e intellettualismo, il principio che lo Stato, quanto è più vero Stato, tanto più ha per suo carattere di agevolare il perfezionamento intellettuale dell'uomo, dal quale del resto dipende, secondo Dante, il perfezionamento morale. Né certo è alieno da concetti moderni il nucleo di questa teoria, che quanto più l'umanità sia strettamente coordinata insieme, in un tutto concorde, tanto più sarà vivo e proficuo il suo lavoro intellettuale. E se altri osservi che ogni nazione è un necessario individuo, da cui viene conferito a cotesto lavoro un particolare carattere, il quale ne accresce e ne moltiplica il valore, nulla s'induce da ciò contro l'Impero stesso dantesco, autorità centrale, fascio di autonomie, che soltanto mira a conciliarle e impedire gli urti fra loro.
    Finalmente, è una bella e meritoria e coraggiosa novità, se si tenga conto dei tempi, quell'altro scopo che il cattolicissimo Dante con piena coscienza si propose, quella gran pena che si dette per metter tanto in alto il fine della società da farlo apparire, più che subordinato, coordinato al fine sopraumano, o subordinato solo « in una certa maniera »: « quum mortalis ista felicitas quodammodo ad immortalem felicitatem ordinetur » (III, 16). Il che san Tommaso avrebbe dovuto considerare come pericolosamente vicino agli estremi limiti dell'ortodossia. Non tanto dunque nel propugnare l'indipendenza del potere civile, quanto nel fondarla sopra un indipendente valore della felicità umana, dell'umile terra medesima, era la novità di quella Monarchia, dove, in così aperto contrasto col tomistico Governo dei Principi, non si fa cenno di doveri del Monarca se non politici e civili; e in questo consiste la sua importanza storica, intuita confusamente o da chi la condannò come libro eretico al fuoco o all'Indice, oppure da chi se ne servì come libro antipapista e scismatico; qui è il suo realismo e il suo contributo al progresso umano. La parola «libertà» di cui tutta risuona, non è 'in essa soltanto un'aspirazione politica e morale, ma un vasto impulso che, a costo di urtare contro san Tommaso e di giovarsi di Averroè, sforza e allarga le ferree barriere dell'epoca in cui sorse. Il resto è in essa passato e sogno, poesia scolasticamente sillogizzata del passato e del sogno.
     

     
         
    HOME PAGE
         
    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis