Solo la filosofia poteva
porgere a quella varietà e vastità di materia irrompente da tutte le parti
il concetto sotto il quale raccogliersi e organarsi. Era un concetto che
Dante aveva intraveduto fin dai primi anni dell'esilio tra l'infuriar
della tempesta che lo aveva travolto. Gli uomini volgari rimangono sotto
l'impressione del fatto solitario e maledicono e disperano: il sapiente si
eleva dal fatto contingente all'universalità da cui i fatti dipendono e
nella quale si ordinano. E in cotesto elevarsi ritrova la forza e la
tranquillità dello spirito. Allora, meditando sui grandi fatti della
storia, egli aveva compreso come la sua sventura non fosse se non una
forma del generale disordine; e nel desiderio angoscioso della
liberazione, nell'anelito struggente di un bene che fosse a tutti conforto
dalle miserie in che tutti erano immersi, aveva sollevato il suo spirito
alla contemplazione dei vasti problemi della creazione e della
conservazione del mondo. Dionigi e Agostino lo avevano avvalorato a
intendere Tommaso, e la scienza del filosofo si era organata nel suo
cervello in una sintesi potente di poesia. La fantasia animava
l'intelletto, e in quella poetica teologia egli aveva visto, dalla forma
più eccelsa e più vicina a Dio fino alla potenza più umile e più prossima
al nulla, dal serafino alla materia, aveva visto un irradiarsi di tutto il
creato dall'infinito verso il finito, per ritornare da questo
all'infinito. Quell'esodo, quel ritorno, la natura e la storia erano
divenute una teofania, anzi la manifestazione più eccelsa e più mirabile
della divinità. E l'ordine gli si era rivelato come la legge suprema, anzi
la forma essenziale del creato.
Nell'universalità di quel concetto, così astratto per un filosofo, così
concreto e così plastico per lui, la sua fantasia si era accesa alle
visioni che lo avevano sollevato alla creazione della Commedia.
Rappresentare quell'ordine nella perfezione della sua attuazione era ora
la necessità imprescindibile della sua arte; sorprendere quella forma in
atto nella mente stessa di Dio era il sospiro della sua anima e la forza
avvaloratrice del suo volo. La forma che si alzava a cercare in Dio non
era soltanto la forma dell'universo, ove trovava unità la moltiplicità
infinita dei creato, era il concetto stesso nel quale tendevano a
organarsi gli elementi più svariati della materia costituitrice del suo
poema. Ed egli sentiva quegli elementi fluire ora e raccogliersi di per se
stessi in quel concetto come rivoli in un lago.
Le prime parole del poema dicevano appunto la tendenza ormai irresistibile
di quegli elementi a convergere verso quel concetto:
La
gloria di colui che tutto muove
per l'universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove (I, 1-3) |
Pure risplende in tutte, perché ogni cosa, in quanto ha forma ed essere,
partecipa in qualche modo di Dio, causa fontale di tutte le forme e di
tutto l'essere. Rifulge nei cieli, che nella pienezza del loro atto, e pur
nella sete inesausta di Dio, rotano eterni intorno a lui, mentre
irraggiano sugli uomini le influenze che la Provvidenza divina ha
determinato agli eterni suoi fini. Ed essi appunto i cieli il poeta faceva
ora teatro della propria azione; e l'incontro che egli farebbe in essi con
le anime scendenti a lui dall'empireo sarebbe la manifestazione visibile
di quella legge universale. La gerarchia di merito e di felicità in che le
anime si ordinano nell'empireo è in rapporto armonico con la serie
gerarchica in cui esse si disposero amarono operarono lungo la via
terrena. Secondo il vario grado di carità che le accese in questa, e per
quella forza e con quella forza che le fece salire, le anime scenderanno
dunque per la scala celeste a incontrare il pellegrino nel cielo che più
le improntò della sua influenza. Filosofo, egli sapeva l'indefinibile
varietà di atti che. nel mutar delle contingenze storiche, dei
temperamenti umani e degli influssi celesti, possono essere accesi dalla
medesima fiamma di carità; poeta profittava di codesta varietà per
immaginar d'incontrare soltanto quei gruppi di beati, rappresentare quei
modi di vivere, creare quei personaggi che meglio convenivano alla sua
arte. Teologia e astrologia si fondevano nel crogiolo di quella fantasia a
costruire l'ordinamento che doveva regolare la vita dell'empireo; Tommaso
e Albumasar porgevano gli elementi di una costruzione che non era in alcun
libro. Creazione originale di un poeta, che, pressato da una somma di
necessità scientifiche morali artistiche, con la prepotenza del genio
tutto fondeva nella pienezza della propria rappresentazione.
Forte della sua teologia il pensatore credeva di riprodurre con la sua
costruzione una realtà obiettiva; negli effetti mai come in quel momento
l'uomo era la misura e la norma dell'universo. Ma appunto perciò quella
costruzione portava in sé una forza lirica inesausta. Il pensiero di Dio
che si manifesta nell'opera degli uomini intesa all'attuazione dei fini ab
aeterno da lui formulati; il pensiero degli uomini che si alza dal
contingente all'assoluto, e trova come prima verità e come ultimo fine
Dio, storia e filosofia, si fondevano in quel concetto di ordine. Tutte le
forme e tutto l'essere rientravano in esso; e la rappresentazione, per
pallida gli riuscisse, accenderebbe nel cuore degli uomini il desiderio di
attuare in sé le meraviglie di quell'ordine e il proposito di ridare alla
storia la divinità del suo ritmo.
Ma il poeta aveva troppa sicura coscienza dell'incrollabile fermezza di
quel concetto a sorreggere il suo mondo, troppo sentiva l'ardore che da
codesta certezza gli veniva a fondere i metalli più duri e più diversi in
un'unica colata, perché potesse anche solo un momento pensare a inaridire
l'inesauribilità di esso nelle secche di un trattato. Nessuna discussione
sistematica adunque, ma a volta a volta presentarsi quel particolare
aspetto del problema che serve a illuminare la situazione del momento; e
più propriamente: servirsi degli elementi filosofici a dar la ragione
dell'ordine, degli storici a mostrare ciò che nel passato aveva favorito o
nel presente turbava l'attuazione di esso. Ma quale sia la discussione,
risalire sempre dall'aspetto particolare alla suprema causa generatrice. E
così avere sempre dinanzi Dio, meta ultima del viaggio, trascendenza
infinita, ma attivo sempre nello spirito a esaltare l'uomo, sublimarlo
sempre più. Ascesi di sapiente verso la fonte di ogni sapienza e di ogni
verità, ma nel tempo stesso rappresentazione di poeta, dinanzi al quale le
specie intelligibili rifulgono e si colorano come fantasmi, gli fanno
vibrare tutte le corde dello spirito, lo trascinano alla celebrazione di
ciò che ha scoperto e ora contempla rapito.
Uno stato lirico per eccellenza, il quale non si poteva effondere che nel
canto. E la parola si farà essa stessa canto, musica, a raccogliere come
in un'immensa sinfonia, lì appunto sulla soglia del poema, tutti gli
spunti di tutte le melodie che dovranno orchestrare, per dir così,
l'infinito dell'opera; e lo spirito del poeta acquisterà nel progredire di
quella prima celebrazione una vibrazione sempre più intensa per la
coscienza sempre più piena del dominio suo assoluto su tutta quanta la
propria materia...
Attuare in se stesso la propria somiglianza con Dio non era per Dante
soltanto il fine supremo dell'anima come cristiano, era l'imperiosa
necessità per sollevare la propria espressione sino alla sublimità di quel
mondo. Il suo spiritualizzarsi, il suo trascendere poteva parere al volgo
una violazione della natura; in effetto non era se non un osservare nella
sua pienezza la legge universa:
Non dei più ammirar, se bene estimo,
lo tuo salir, se non come d'un rivo
se d'alto monte scende giuso ad imo.
Maraviglia sarebbe in te, se privo
d'impedimento, giù ti fossi assiso,
come a terra quieto foco vivo (I, 136-42). |
Saliva egli insieme con la sua donna, attraverso gli spazi infiniti in una
luce di sole sopraffiammante,
.
. . come quei che puote
avesse il ciel d'un altro sole adorno (v. 63-64) |
La luce si dilatava dinanzi al suo occhio come acqua di lago, e attraverso
alle correnti di luce egli volare, e volando parlare e ascoltar dalla sua
guida risolti i problemi più ardui dello spirito. E intanto la ruota dei
cieli risonare intorno con l'armonia che Dio stesso tempera e discerne; e
« la novità del suono e il grande lume » (v. 82) accendere in lui il
desiderio acutissimo del rendersi ragione del fatto, e Beatrice da ciò
appunto pigliar le mosse al suo discorso, anzi al suo canto.
Nessun poeta aveva per (innanzi preparato alla celebrazione della gloria
di Dio tale ampiezza di sfondo, nessuno osato di piegare fino a tal punto
il linguaggio della scienza a diventare canto. Ma solo in quel linguaggio
la donna del suo intelletto poteva parlare di tali cose, perché filosofia,
religione, poesia si fondevano nella potenza di quell'espressione.
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