DANTE ALIGHIERI

  • LE RIME DANTESCHE E LA POESIA DEL DUECENTO
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    Autore: Gianfranco Contini Tratto da: Introduzione a Dante Alighieri, Rime

     
         

    I maestri e gli amici di Dante mostravano già tutti una notevole latitudine di possibilità tecniche e di gusto. Non parliamo dei Siciliani, per i quali il problema della coerenza stilistica difficilmente potrebbe addirittura esser posto. Il primo Guido era stato un curiale guittoniano tanto docile da meritarsi, quando poi ebbe mutata la maniera, da parte d'un altro rimatore di stretta osservanza quale Bonagiunta, non soltanto rimproveri ad personam, ma la precisa obiezione critica che poesia non è scienza; senonché, la sua novità non era solo quella dottrinale (apparentemente) di Al cor gentil, e neppure si fermava al mito della donna salutifera, ma giungeva a includere l'annedottica borghese di Chi vedesse a Lucia un var cappuzzo e il primitivo « realismo » di Diavol te fera. Anche più disinvolto, il Cavalcanti sapeva rifare con un virtuosismo del resto freschissimo un po' tutti i « generi > della lirica, il tema della pastorella transalpina (In un boschetto), la canzonetta siciliana (Fresca rosa novella), certo panismo naturalistico inventato dal Guinizelli (Beltà di donna); in fatto di rigore ed esoterismo dottrinale riusciva a battere i più sapienti (Donna mi prega), l'analisi psicologica era capace di portarla fino alla parodia; né, beninteso - tutti questi erano modi da gran signore -, comprometteva mai la sua malinconia splenetica di gentiluomo un po' snob. Quanto a Cino, se si guarda bene, l'unità tonale di questo, secondo il luogo comune, precursore di Petrarca è un tantino involontaria, o diciamo psicologistica (il limite del suo petrarchismo avanti la lettera sta appunto qui); e fra tanti guai e lacrime e paura e senso della morte può aver luogo perfettamente, sulla stessa linea ma in fondo, un sonetto su motivo obbligato (Tutto ciò ch'altrui aggrada), che oggi nessuno si sogna più d'intendere come un temibile documento romantico, masi riconduce ai modi caricaturali d'un Cecco Angiolieri e del trecento giullaresco. La varietà di Dante, che materialmente non è minore, fra la ballata della ghirlandetta o quella per Violetta e le rime petrose, fra il sonetto per la Garisenda e la canzone Tre donne o la montanina, ha tutt'altro significato. Mai in lui un sospetto di scetticismo. Ci sono scherzi anche nella sua opera, ma remotissimi dai centri dell'ispirazione. In fondo, una serietà terribile: tutte le « imitazioni » sono lasciate depositare fino all'ultimo, giungono alle estreme conseguenze (alcuni frutti della lettura dei Siciliani dureranno indelebili nelle Rime), ma non deviano mai verso l'amplificazione un po' cinica da cui può uscire la parodia. In realtà, la tecnica è in lui una cosa dell'ordine sacrale, è la via del suo esercizio ascetico, indistinguibile dell'ansia di perfezione. Vi è da una parte, in universale e nella ricchezza dei tentativi danteschi, una tecnica dolce, che vuol cancellare il suo sforzo, si risolve in un piano tessuto scrittorio modulato senza dislivelli - ma è poi lo stesso mondo della Vita Nuova, la rinunzia alla terra e l'ascrizione a una donna tanto più reale quanto meno si concede al poeta, quanto più si sottrae fino al suo saluto e al suo sguardo, e diventa realissima quando è fisicamente morta; lo stesso china dove la vittoria sul peccato, ripetiamo: lo sforzo della vittoria sul peccato, tende a perdere d'eccezionalità e a normalizzarsi nell'accettazione quotidiana d'un ideale. E così (distinguiamo assai sommariamente questi due poli estremi d'ispirazione) v'è una tecnica aspra, che sottolinea lo sforzo, esplicitamente ne accentua il rilievo nei punti salienti del ritmo, e in modo particolarissimo in rima - ma essa è una cosa sola col sentimento dell'amore e della vita difficile, dell'ostacolo, del superamento. Un esempio varrà in modo perentorio, per questa seconda accezione: e proprio uno nel quale Dante si trovi in contatto con uno dei suoi amici intrinseci. Un sonetto di Cino al marchese Malaspina è un lamento per le sofferenze recate da un nuovo amore, fatto su rime piuttosto facili, con un calembour sul nome del signore e qualche avanzo d'esoterismo guittoniano nell'inizio e nell'explicit. La risposta per le rime in persona di Moroello la scrisse Dante, insistendo sul motivo, che anche altrove ricorre, della volubilità di Cino, contrapposta da un lato all'incanto della sua poesia, dall'altro alla passione autentica del risponditore. Uno sguardo comparativo gettato sulle rime delle quartine basta a convincere dell'abisso di sapienza che separa i .due artefici: Cino oro, inchina, spiná, moro, ploro, fina, destina, dimoro; Dante, tesoro, latina, « chiara », disvicina, foro, po, medicina (verbo), affina, discoloro. Qui è già la magnanimità lessicale del a Commedia, e già piuttosto quella delle due ultime cantiche: fori co e « ferite » rompono la persona di Jacopo del Cassero, il sole discolora l'erba metaforica della nominanza mondana nella comparizione di Oderisi, e sarà latino raffigurare Piccarda Donati; se medicinare è un fortunato provenzalismo, la bella litote ch'è in disvicinare ha lo stesso marchio inventivo delle creazioni verbali quali dismentare, immillare o indovare. Ed è istruttivo vedere questa robustezza di vocabolario risalire il corso del verso, propagginarsi a ritroso rispetto alla rima ch'è il « centro di difficoltà »: Ma volgibile cor ven disvicina: oppure Ove stecco d'Amor mai non fé foro: o anche Del prun che con sospir si medicina. Se l'irradiazione muove dalla rima, val quanto dire che il punto di partenza dell'ispirazione è l'ostacolo (quella che fu chiamata, più o meno propriamente, la « resistenza del mezzo »); e l'ostacolo è il nemico da vincere tutti giorni, lo stato permanente di guerra, la coscienza dell'eros pericoloso a cui cede, e in cui trova perfezione e gloria, il poeta. Analoghe osservazioni dovrebbero farsi circa le terzine (Cino conte « note », gioia, noia, moia, monte, fonte: Dante fronte, poia, croia, ploia, conte « abili », ponte in locuzione fortemente idiomatica); segnando la differenza che ivi Dante insiste, polemicamente, sulla controparte negativa opposta alla moralità del tormento accettato ogni volta, la disonestà dell'incostanza. Essenzialmente, il « mezzo » tecnico non è che « strumento » dell'indagine di se stesso, e più esattamente è la stessa religiosa sete in atto; con che non si vuole escludere, in pratica, la caduta magari frequente nei pericoli dell'astratto tecnicismo. E se la corrispondenza di singole tecniche a singoli momenti dell'anima di Dante poteva da principio solo distruggere l'ipotesi di un'eventuale equidistanza dalle singole esperienze e fondamentale disinteresse per loro (che non si può respingere per alcuni colleghi di lui), e con ciò sembrare appartenere alla storia del costume e al cerchio della vita morale, quella varietà apparisce poi invece evoluzione spirituale nella sua circolazione, e dunque fatto formale.

    Se nel parlare della lirica di Dante viene continuo il ricorso ai poeti della sua età, questa circostanza, come non dalla superstizione della storia letteraria, così neppure muova dal consueto artificio didattico della definizione per differenziazione e antitesi, risponde bensì alla natura del fatto trattato, è una riproduzione di essa nel critico. Il dolce stile è la scuola che contiene con maggior consapevolezza e buona grazia il senso della collaborazione a un'opera di poesia oggettiva, e insomma la scuola che più ha il senso della scuola. È poco, e inesatto, pensare a un ideale stilistico comune, indipendentemente accettato da ogni adepto; ma ci sono in più, nel dolce stile, tutte le premesse sentimentali d'una congruenza di lavoro, e in primo luogo l'idea d'un'amicizia che ricorda, in questi signori decaduti e borghesi dell'alta cultura, la parità e la solidarietà dei cavalieri oitanici. Il sonetto Guido, i' vorrei giustamente s'interpreta per solito come prodotto tipico del gusto stilnovistico, non però in quanto si estragga da questa lirica il motivo dell'evasione fatata verso esotiche lontananze, nel quale si può riconoscere senza soverchio sforzo la tradizione del plazer provenzale e giullaresco, ma in quanto quella fuga verso un mondo irreale si dovrebbe compiere affettuosamente fra amici stretti, con le loro belle, e in questa vicinanza, fatta più calda dalla sua natura immaginativa, i desideri sarebbero gli stessi e la voglia di stare insieme crescerebbe. Assoluta separazione dal reale che si converte in amicizia, questo è il contenuto autentico della lirica; e l'amicizia è l'elemento patetico definitorio di stil novo.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis