Dante crede nella sua teologia, che per lui non è verità da conquistare,
ma certezza raggiunta: e qui si piace soprattutto di rappresentarla nel
suo ritmo; né si sforza di sillogizzare o polemizzare per convincere sé
stesso o gli altri di una così tranquilla fede, ma vuol appunto collocare
in questo paesaggio immenso della sua fantasia la bellezza del pensiero
che si chiude in forma, la bellezza degli atti di fede e di carità che la
religione ispira; vuol cantare la sublime rappresentazione del pensare e
del pregare. E se egli dica i versi già citati: « Ciò che non muore e ciò
che può morire Non è se non splendor di quell'idea Che partorisce, amando,
il nostro Sire », come non accorgersi che la bellezza espressiva di un
concetto ha dominato Dante, assai più che non il concetto medesimo? Ecco
un esempio che può servire come fondamento nella interpretazione dei canti
dottrinali. E s'è detto a suo luogo, come perfino le definizioni, della
Fede o della Speranza, mostrano che il senso della rappresentazione
sormonta su quello del concetto.
E anche le considerazioni morali e le sentenze han sempre una loro
necessità poetica. Così quando nell'XI del Purgatorio esce a cantare per
bocca di Oderisi d'Agobbio: « O vana gloria dell'umane posse! Coni' poco
verde in su la cima dura », subito la sentenza s'è fatta una pianta dalla
tenera cima: e tra poco, ricordato Giotto che oscura la fama di Cimabue, e
Cavalcanti che oscura quella di Guinizelli, l'immagine arborea si allea
con quella del vento e poi dell'erba; e il senso del tempo a un battito di
ciglia. Ricordate?
Non è il mondan rumore altro ch'un fiato
Di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi,
E muta nome perché muta lato.
. mill'anni? ch'è più corto
Spazio all'eterno, ch'un mover di ciglia
Al cerchio che più tardi in cielo è torto
................
La vostra .nominanza è color d'erba
Che viene e va; e quei la discolora
Per cui ell'esce della terra acerba. |
Nel Convivio Dante lasciò alcuni precetti che sembrano nuocere alla
interpretazione tutta poetica della Commedia, là dove disse che « le
scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro
sensi »; e prima il litterale, poi l'allegorico « che si nasconde sotto 'l
manto di queste favole (dei poeti), ed è una veritade ascosa sotto bella
menzogna », poi il morale « e questo è quello che li lettori deono
intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di
loro discenti »: infine l'anagogico « cioè sovrasenso; e questo è quando
spiritualmente dispone una scrittura, la quale ancora sia vera eziandio
nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose
de l'etternal gloria ».
Ma i vari sensi che Dante cerca non sono altro che velocissime
comparazioni : di sotto ogni allegoria potreste far apparire il nascosto «
come » della similitudine. E in quest'operazione non c'è l'intervento del
freddo intelletto che vuol conferire alle parole un significato
arbitrario; ma la spontanea associazione delle analogie.
E ciò che talvolta chiamiamo a torto allegoria, è una lingua metaforica,
o, per usare un'espressione della scuola, è un paragone continuato, in un
linguaggio interamente noto, e formato per via poetica non già arbitraria:
un paragone prolungato ove il « come » delle analogie è soppresso. E chi
diceva la « selva del peccato » non pronunziava che una immagine, in cui
l'anima in tante colpe e si intricate- era paragonata alla selva. E chi
diceva « aquila » (e avviene anche oggi) diceva spontaneamente impero:
così i segni araldici, metafore primigenie, riprendono il loro primo
motivo di favolette poetiche. Allo stesso modo si odono oggi anche più
ardite espressioni che son diventate comuni, quali il « fior degli anni »,
la « primavera della vita ». I sensi figurati prevalevano sui primi
significati proprii.
Se Dante scrive che per cielo intende la scienza (così nel Convivio) c'è
caso che ciò sia, prima che per una deformazione pratica, per una iniziale
immagine lirica, simile a quella per la quale chi dica il cielo di una
camera obbedisce ormai ad una parola diventata termine pratico e
sprovveduto di poesia, ma che ebbe inizialmente un valor poetico. E se nel
Convivio dice occhi per dimostrazioni, dapprima egli ha visto un'immagine.
È difficile cogliere in certe allegorie dantesche quel primo nucleo
poetico di cui qui si parla; ma bisogna saper vigilare per distruggere
appunto il moto arbitrario e abituale dell'allegoria e scoprire il moto
lirico dell'origine.
Col che non negherò che nella Commedia siano stati immessi da Dante alcuni
passi dottrinali e allegorici e non poetici: come ho additato punti
passionali che non sono interamente risolti in poesia; ma il nodo della
questione è un'altro: se cioè il carattere dottrinale e allegorico
soffochi la poesia o la disperda ed anzi annulli. Qui si affermala
superiorità della poesia su ogni altro stato del cuore e della mente di
Dante. E ciò non vieta di avvertire come talvolta il carattere della prima
visione (il gran paesaggio e l'armonia universale della Divina Commedia)
si appesantisca dando origine a parti schematiche, tratti esterni,
congegnati (non sentiti per legge spontanea) simili a quelli che nella
tragedie fecero introdurre nutrici e confidenti a narrar l'antefatto. Sono
i passi stanchi di ogni ispirazione o meglio di ogni elaborazione poetica,
e si trovano in Dante come in Omero che talora dormitat o in Virgilio o in
Ariosto, e nello Shakespeare.
Non v'è lirica, la più breve e fulminea che si possa concepire, nella
quale un qualche tratto, parola o periodo, non sia sordo alla forma.
E che Dante abbia in alcuni punti soggiaciuto alla sua teoria che imponeva
allegorie e velami, e per poco da poeta si sia fatto allegorista, nessuno
negherà.
L'allegoria è per definizione un fatto arbitrario; ma stavolta diciamo
erroneamente allegoria una lunga metafora che ha valor di poesia, proprio
perché non è più un atto pratico, ma quell'alone che sta tra la parola e
il suo velo allegorico, come il carattere della metafora non è nell'essere
una parola impropria invece di una propria, ma nel rapporto fra le due, in
quello spessore vago della musica e del segno vocale.
Poniamo il caso della cosiddetta allegoria di Matelda. Ella è, sì, la
donna che % sì già cantando e scegliendo fior da fiore », ma la parola
dantesca poeticamente allegorica (e cioè analogica, non gìa un volitivo
gergo verbale) la dipinge come in una seconda vista, ove i gesti scrivono
una segreta indefinita melodia. E la commozione del poeta non è nella
semplice grazia di quella visione mattutina, ma nella trepida presenza di
ciò che ella rappresenta: in rapporto al Paradiso terrestre e al Paradiso
celeste: come una musica trascrive un fatto di natura e lo tramuta in una
nuova forma. In una figura di donna che l'artista chiamò la Primavera e
compose in un paesaggio di favola, vedrò non solo i lineamenti di una
donna ma tutte le poetiche allusioni.
Paragonerete Matelda soltanto a una coglitrice di fiori e sia pure più
diafana di quelle che appariranno nelle ballate di Sacchetti? Ella coglie
i fiori in quel cielo, e per quei celesti fini: in uno spazio e in un
giardino mitico; e senza quell'aura e quel giardino nati nell'invenzione
di Dante, la figura della donna che canta e sceglie fiori non avrebbe
quell'incanto.
La figura e il figurato non son due cose, come ha creduto anche il De
Sanctis: son tutt'uno: nella figura è presente, e lo intona di sé, anche
il figurato, anche l'allegoria. E l'allegoria nella Commedia o è risolta
interamente nell'immagine poetica, e insomma non è più allegoria, o è
rappresentata, appunto, come allegoria, come un mistero che assume una
nota forma, e poniamo quella delle processioni apocalittiche del
Purgatorio; ed è dunque il sentimento di vaghe e incomprensibili immagini
rivelate.
Il grifone del Purgatorio è la rappresentazione di una allegoria: e questa
è tessuta coi procedimenti stessi delle più note allegorie cristiane,
cosicché il suo linguaggio non è astratto, ma iscritto nella tradizione
della comune lingua e conoscenza.
L'allegoria dantesca non è né idea filosofica, né costruzione volitiva: è
un linguaggio poetico. E come tale è chiarissimo, perché oltre di esso non
c'è nulla da cercare; perché in esso è detto tutto quel che il poeta
voleva comunicare.
Qual è l'allegoria della Commedia? Il viaggio dell'anima pei regni del
peccato e della gloria celeste, Il suo fondamento è dunque la fede
cattolica del catechismo; i suoi punti bui son quei medesimi temi che la
fede dichiara inafferrabili dalla mente umana, e che la poesia sente
dunque soltanto come l'immagine della Rivelazione divina.
E quando Dante invita a guardar la dottrina che si nasconde sotto i suoi
versi, non intende già una dottrina ignota, che come tale sarebbe sempre
celata s'egli non la svelerà, ma la comune dottrina delle scuole e della
Chiesa. Invita cioè a sentire più profondo il respiro della figura ch'egli
rappresenta; anzi è da dire che egli rappresenta una figura col
presupposto che il suo lettore conosca anche il figurato, ed egli avvisa
di non fermarsi all'esterno: quella di Dante è una fictio rethorica,
simile alle preterizioni che affermano di tacere proprio quello che stan
dichiarando (Cesare taccio).
Dante credeva al mistero, credeva alla Rivelazione, cioè al gran racconto
della vita, della morte e dell'eterno, foggiato dal Cristianesirno come
parola di Dio.
Dante ha voluto rappresentare come oscura e incomprensibile per la mente
stessa dell'uomo tanta parte del mondo che egli esprime: non perché egli
la comprenda e la voglia nascondere a chi legge, ma perché è materia della
fede comune, e la sua arcana oscurità è da lui formata secondo l'intima
forma delle comuni credenze religiose.
E non é già che la lettera ci sia per i profani - come diceva il De
Sanctis - e che invece gli iniziati debbano leggere di là dalla lettera é
-la lettera stessa che si approfondisce fino a svelare ogni segreto. Il
mondo apparente e l'occulto sono una sola parola.
Ed ecco che, per questa via, anche gli studi come quelli ai quali così
strenuamente attese il Pascoli in Minerva oscura, La mirabile visione,
Sotto il velame, ricercando i simboli della Divina Commedia, si mostran
legittimi e utili, sol che la ricerca aiuti a illuminare il linguaggio
della rappresentazione, e non converta, invece, la rappresentazione e la
poesia in espedienti per l'allegoria. La ricerca a cui noi miriamo è
sempre una ricerca di elementi poetici; e la conoscenza di tante
dottrinali allegorie vale a farci approfondire il senso e il tono della
parola poetica. Le figurazioni artistiche e religiose in cui la fede
cristiana in dodici secoli espresse plasticamente la visione della vita
oltremondana, avevano fatto della cosiddetta allegoria un linguaggio
proprio e diretto: i racconti e i viaggi nel regno dei morti, da tutte le
fonti cristiane e pagane affluivano allo spirito di Dante per assumer un
nuovo significato poetico.
Le visioni dell'Apocalisse di San Giovanni; la lettera di San Paolo ai
Corinzi in cui raccontò d'essere stato ratto insino al terzo cielo, ove
udì arcane parole che all'uomo non è dato favellare; tutti i racconti che
di. quella Visio Pauli s'ebbero più tardi, e per esempio nel secolo XI,
con ogni particolare sul viaggio oltremondano tra i reprobi dell'inferno
(ove Belzebù ha in bocca i dannati), e tra i beati del cielo; le
fantasiose orride visioni d'Irlanda, come la Navigatio Sancti Brandani
all'Isola Perduta che le mappe medievali segnano con precisione geografica
nell'Atlantico, non lungi dalle Canarie; il pozzo rivelato dal Signore a
San Patrizio (il Purgatorio di San Patrizio), ove poi Owen discese e
conobbe la bocca dell'Inferno, per passar poi su per un ponte al Paradiso
deliciano o terrestre; la Visio Tungdali con l'Inferno, e il muro e il
prato del Purgatorio, e poi il Paradiso: le più varie visioni con le quali
i cristiani elaborano l'immagine corporea dell'oltretomba, lino a quella
di Frate Alberico che popolò l'Inferno di spaventosissime pene,
confluiscono, per vie segrete o consapevoli, nella Commedia e vi si
affinano sino alla classica pienezza dell'arte. Dico secondo quell'arte
latina che gli aveva fatto conoscere l'omerico approdo di Ulisse
all'Erebo, la Via Lattea del ciceroniano Sogno di Scipione ove son beati
gli uomini che giovarono all'umana civiltà; sopra tutto il viaggio di Enea
nell'Averno qual è narrato da Virgilio nell'Eneide, e quale Dante medesimo
ricorda insieme al rapimento di San Paolo al cielo (« Io non Enea, io non
Paolo sono »).
Anche le arti figurative avevano, per così dire, sciolte le allegorie,
popolando le chiese di affreschi in cui la rivelazione del mondo delle
anime dopo la morte dei corpi era narrata e fatta concreta nei modi del
colore: con ingenua terribilità era rappresentato il giudizio universale
con Cristo giudice; e a fianco del Signore la Vergine Maria, l'eterno
femminino religioso, cinta dalla rosa dei beati. Le arti avevan già
solidificati i simboli cristiani, avevan dato figura ad angeli e demoni, e
alle anime umane separate dal corpo una figura come di luce e d'eco. Anzi,
tra l'arte di Dante che soprattutto nel Paradiso lavorò figure il cui
corpo era solo un rilievo di luce, e l'arte dei pittori trecenteschi, si
istituisce una spontanea affinità. Un medesimo estro sembra ispirare le
preganti figure di Giotto, espresse nel disegno e nel colore, e le figure
che Dante disegnò in una parola che tende per vie musicali alla luce. E
affreschi veri e propri, figurati mediante suoni vocali, ma il cui senso
emotivo non può esser per noi che un accordo di colori, splendono nel
Paradiso dantesco; ed hanno non soltanto il medesimo gesto delle figure di
Giotto ch'è nel rito cattolico, ma una medesima tenerezza d'arte.
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