Nel Paradiso i
fondamentali temi poetici di Dante raggiungono la foro espressione più
alta e profonda, la loro forma superiore ed epica, così come la sua arte,
la sua parola poetica, le sue capacità costruttive e sinfoniche vi toccano
il vertice delle loro possibilità. In questo regno di una tensione
superiore che pur raggiunge la sua espressione compiuta e conclusa (la sua
misura, non la smisuranza di Jacopone e il silenzio dei mistici), come i
personaggi divengono piuttosto nuclei lirici, voci in cui la forza
drammatica-plastica dell'Inferno si tramuta in caratterizzazioni più
intime, non bisognose quasi di segni fisici, di rappresentazioni esterne e
vivono intensamente nella evocazione delle loro storie esemplari e
assolute, così i motivi più validi dell'animo e degli ideali danteschi
raggiungono la loro espressione più sintetica, definitiva, purificata dai
loro aspetti più contingenti e passionali in una forza di rappresentazione
più intima e più serena, di fondamentale tono epico: evocazione e
rappresentazione, non vaghe larve in un cielo di evasione mistica e
ascetica che abolisca ogni aspetto e ricordo della terra o li riporti solo
nelle immagini di paragone secondo la dubbia affermazione desanctisiana e
crociana), le quali poi viceversa son sempre intonate a questa dimensione
speciale di una realtà superiore in cui quella mondana ritorna sublimata e
più pura con i suoi affetti, le sue aspirazioni fondamentali e con la fede
spirituale e poetica di chi, come Dante, vuole una renovatio, una riforma
del « mondo » e non un suo abbandono sdegnoso o elegiaco.
Così avviene particolarmente per il tema civile e cittadino, per il tema
della concreta patria terrena, Firenze, che, dopo le frequenti e
frammentarie apparizioni nelle altre cantiche e specie nell'Inferno, in
toni di invettiva, di nostalgia appassionata, in forma a volte di ira
partigiana e più strettamente municipale, ritorna nel Paradiso e vi
chiarisce definitivamente il suo rapporto con Dante, con la sua missione
di poeta-profeta, con il significato del suo esilio, con il suo dolore di
esule (su cui tanto giustamente insistè il Momigliano), con la sua fede
nella stessa soluzione positiva e trionfale della sua vicenda terrena che
egli vede poi nel canto XXV glorificata dalla corona poetica proprio nel «
bello ovile » dove egli « dormì agnello » , sul « fonte » del suo «
battesimo ». Nel Paradiso questa sua fede si precisa integralmente, il
significato della sua vita e della sua opera si completa e si illumina e
mentre le parziali, oscure profezie sul suo esilio si spiegano nella
parola di Cacciaguida, perdono il loro carattere minaccioso e acquistano
una luce di suprema certezza personale storica e divina, pur nel tormento
di una vocazione di martirio intenso, ma ormai chiarito anch'esso nella
sua superiore necessità, interamente rappresentato e non più solo
ansiosamente sofferto come opprimente incubo, così coerentemente le
allusioni inquietanti alla sua missione e al valore del suo viaggio
ultraterreno, paragonato dal poeta all'inizio dell'Inferno con il viaggio
di Enea e Paolo solo per mostrare la propria inadeguatezza alla funzione
alta di quelle gloriose e sacre personalità, si cambiano nella
nobilitazione e santificazione dei paragoni, espliciti o impliciti
(autorizzati dalla voce del beato che vede nella mente di Dio) del poeta
con Enea, con Cesare, e persino con Gesù. E ugualmente l'immagine di
Firenze, prima tormentosa e passionale, si sdoppia nel contrasto di quella
di un presente corrotto, e giudicato più con superiore e severo distacco
che con iroso accanimento, e di quella di un passato e di uno sperato
futuro di pace, nella cui rappresentazione epica e mitica (e assicurata in
una storica realtà dalla testimonianza di uno dei suoi cittadini) le note
più segrete dell'animo di Dante, la sua ricca, delicata e virile vita di
sentimenti familiari e cittadini, la malinconia dell'esule privo di città
e di casa, incerto della sua tomba, vibrano più intimamente e invece di
espandersi in forme di struggente elegia o di idillio vagheggiato senza
speranza, si traducono in un quadro poetico di straordinaria perfezione
classica. E autobiografia si supera in assoluta poesia mercé l'essenziale
mediazione della voce di Cacciaguida, voce-personaggio, vero e intero
personaggio di Paradiso, tutto costruito su note intime, su coerenti
componenti di qualità e di accenti: beato, cittadino della Firenze antica,
morto combattendo per la fede, paterno vegliardo, ricco di una tensione di
affetto e dotato di una superiore misura, che quella contiene e potenzia
fino alla mitizzazione solenne, semplice e commossa della Firenze « sobria
e pudica » in cui quella voce fonde più interamente gli elementi epici e
sacri, la fermezza testimoniale e la vibrazione appassionata, che si erano
venuti sviluppando nella elaborazione lenta e progressiva del personaggio
e nella compatta integrale precisazione della scena e del colloquio con
Dante.
Quella rappresentazione della Firenze antica è certo il momento più alto,
la meta suprema del canto XV, ma errerebbe chi volesse isolarlo
antologicamente come lirica a sé, perché esso vive e si giustifica nella
complessa unità dei canti di Cacciaguida e più immediatamente nel suo
accordo con tutta la prima parte del canto XV, con il finale epico-storico
della vicenda di Cacciaguida e della sua morte in battaglia, e presuppone
insieme le particolari condizioni poetiche del Paradiso in cui solamente
una simile rappresentazione poteva raggiungere la sua limpida potenza, la
sua essenzialità e semplicità. Come d'altra parte tutti e tre i canti,
posti non a caso nel centro della terza cantica, in una lunga sosta
dell'ascesa paradisiaca (ma quell'ascesa continua nell'intimo, nel
perfezionamento di quel grande tema e degli elementi danteschi che esso
implica), non costituiscono, come spesso è stato detto, un semplice
inserimento parentetico di temi mondani privati nella diversa poesia del
Paradiso,. ma una sublimazione e una sintetica chiarificazione di questi
nelle condizioni di quel regno e di quella poesia, la quale poi, dopo
questo momento, in cui lo stesso significato dell'opera e della vita di
Dante è definitivamente chiarito in termini assoluti, potrà riespandersi
con nuovo slancio nella rappresentazione più diretta dell'ineffabile, dei
misteri della fede, delle visioni paradisiache, senza con ciò perdere il
centrale riferimento alla missione di Dante e a questo sviluppo di un tema
fondamentale della Commedia, che qui, rivisto nel suo aspetto più alto ed
intero, si ricollega chiaramente anche alla sua vita nelle altre cantiche.
Valore centrale dei tre canti nel Paradiso, valore di potente equilibrio
nel suo svolgimento, nell'accordo di uno sviluppo superiore del motivo
civile-municipale e di quello della missione di Dante (i canti centrali
del Paradiso rispondono ai canti centrali dell'Inferno dedicati a Firenze,
il dialogo di Dante con Brunetto e con i fiorentini che « a ben far poser
gl'ingegni », nonché ai canti purgatoriali di Guido del Duca e di Marco
Lombardo, dell'esaltazione di un passato di valore e cortesia) proprio nel
cielo di Marte e nel segno della croce dei combattenti per la fede: quel
cielo di Marte di cui Dante nel Convivio (II, XIV) sottolineò il
significato simbolico di centralità armonica, perché « annumerando i cieli
mobili esso cielo di Marte è lo quinto, esso è lo mezzo di tutti », mentre
accennando al suo significato di annunciatore di rivolgimenti politici e
all'apparizione, in figura di una croce, « di una grande quantità di
vapori dello cielo di Marte in Fiorenza nel principio della sua
distruzione », Dante sembra in quel passo alludere ad una relazione
presente anche nella genesi sentimentale e fantastica di questi canti, fra
la centralità del cielo di Marte, la figura della croce dei
combattenti-per la fede, il contrasto tra la Firenze decaduta e la Firenze
ideale del passato e della sua speranza. Il canto XV vive così in questo
complesso nodo di rapporti tematici, vive come introduzione agli altri due
canti, a cui fornisce la base necessaria di slancio, il completamento
della scena, la elaborazione della voce di Cacciaguida e dell'immagine
della Firenze antica, ma vive anzitutto in se stesso, nella sua forte
unità particolare (anche se intensificata proprio da un tensione che
attende ancora ulteriore sviluppo, folta di temi nascenti) e nel rapporto
necessario fra la prima parte e il mito poetico altissimo che rie
scaturisce al sommo e ne assorbe e trasvalora l'intensa accensione
paradisiaca e affettiva, essenziale ad alimentare la superiore purezza in
un passaggio di gradi di approfondimento lirico, in uno svolgersi della
poesia più alta da un impeto spesso più lirico-eloquente, ma mai privo di
congeniali componenti schiettamente poetiche, mai riducibile a puro
momento di struttura esternamente narrativa.
Tutto il canto XV vive in una sua unità dinamica e all'interesse narrativo
sempre crescente nel continuo segno di una attesa e di uno svolgimento più
alto, allo sviluppo della scena celeste in cui si giustifica il tono
altissimo del dialogo, corrisponde integralmente un continuo arricchimento
di motivi e di toni sentimentali e poetici sempre più interni e lirici, in
una progressione e articolazione di parti tutte ascendenti che conducono
sempre più all'interno, ad una visione-evocazione più assoluta, più nitida
e mitica: prima fulgore luminoso e immaginoso, poi ardore di affetti, poi
intima evocazione, prima grandiosità di spazi infiniti, poi
rappresentazione di domestica pace sin nel chiuso delle case fiorentine. E
così il linguaggio si approfondisce e si svolge coerentemente dai temi più
aperti di solennità sacra dell'inizio a quelli più affettuosi dell'ardore
paterno di Cacciaguida, a quelli mitico-storici della evocazione della
Firenze « sobria e pudica » e del grande finale, senza mai perdere l'eco
sollecitante e la preparazione dei toni e dei motivi prima acquisiti.
Un'ascesa verso la grande poesia dell'ultima parte, ma in un rapporto di
parti inseparabili, nello svolgersi e purificarsi di una generale tensione
ispirativa, in cui i più aperti motivi paradisiaci (luce e musica,
progresso del sentimento paradisiaco di Dante, intensificarsi del sorriso
di Beatrice, comunicazione dei beati nella mente di Dio) concorrono a
costituire la base altissima ed intensa su cui si attua la poesia
dell'ultima parte, a elaborare gli elementi di nobilitazione e
santificazione della voce di Cacciaguida, il tono epico-religioso e
storicamente testimoniale in cui la rappresentazione della Firenze antica
può superare le condizioni di un semplice e isolato idillio nostalgico da
parte di un «laudator temporis acti». Come, ripeto, negli ultimi versi la
narrazione della vita di Cacciaguida e della sua morte in battaglia al
servizio della fede e dell'Imperatore, e la stessa intonazione sacra e
cavalleresca, marziale e civile, in cui essa è scandita, approfondiscono
l'incanto di pace della Firenze sobria e pudica, viva di affetti
dolcissimi e ricca di intimità fin nei rapporti più semplici e naturali,
nella poesia della casa, della culla, delle cose semplici e schiette, ma
insieme eroica e santa, capace di combattere fino al sacrificio per i
propri sublimi ideali, ben lontana così da un mediocre quieto vivere,
impegnata in un esercizio alto di virtù supreme, nella scelta fra valore e
disvalore, fra carità e avidità egoistica e corrotta, fra l'« amor che
drittamente spira », e la « cupidità »...
Né si trascuri di osservare come proprio questo fondamentale tema di
contrasto che innerva tutto il canto fino alla contrapposizione finale fra
il « mondo fallace lo cui amor molte anime deturpa » e la «pace» celeste,
venga assicurato ed evidenziato robustamente all'inizio della prima parte,
costituendo una linea tematica che raccoglie e sorregge in una direzione
unitaria la caritatevole benevolenza dei beati, la intima disposizione
affettuosa di Cacciaguida, di Beatrice, di Dante nel loro colloquio, e dà
allo stesso contrasto tra la Firenze « sobria e pudica », concorde, e la
Firenze moderna corrotta e divisa, il suo valore di esemplificazione
concreta di una verità universale e centrale nella poesia del Paradiso, e
di tutto il poema, conferisce un ulteriore rilievo al mito della Firenze
antica, la cui pace nasceva per Dante non solo e non tanto da una
situazione sociale, economica, politica (il Comune aristocratico
dell'epoca prefedericiana non turbato dall'inurbamento dei villici) quanto
e più dall'adesione dei suoi cittadini all'amore dei beni sostanziali,
alla cristiana e civile carità.
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