CRITICA: DECADENTISMO

 IL DECADENTISMO ITALIANO

 AUTORE: Walter Binni         TRATTO DA: La poetica del Decadentismo

 

Abbiamo rapidamente visto che senso si debba dare in uno studio di questo genere alla parola poetica (intenzioni, modi cari al cuore del poeta, precetti che egli potrebbe staccare da sé in veste di maestro, contributo della sua intellettualità alla immediatezza della sua sensibilità) e come sia utile parlare, in uno studio sul decadentismo più di poetica che di poesia. Infatti l'esame della nuova poetica isola il decadentismo più profondamente che una pura valutazione estetica delle singole personalità, e lo vede più che nelle «nature», nella mentalità generale, in ciò che forma il suo clima. Abbiamo determinato così i limiti dell'espressione «decadentismo», svalutando ogni posizione di condanna ed ogni confusione con «decadenza» in genere, e con «decadenza di romanticismo» in particolare, e affermando come. essenziale per questo studio una posizione storica che accolga il decadentismo nella stessa maniera con cui viene accolta l'espressione «romanticismo»: cioè come periodo storico individuato da certi speciali caratteri. I quali, in sostanza, si riducono ad un contemporaneo approfondimento del mondo e dell'io fino alla scoperta di un regno metempirico e metaspirituale, da cui le cose e le personalità germogliano con un senso nuovo, con un'anima nuova. Da questa rivelazione di un nuovo senso della vita nasce una poetica che abbiamo articolato nei vari caratteri comuni ai singoli artisti, e che consiste soprattutto nella ricerca della musica come mezzo di conoscenza sopralogica, mistica. Misticismo, rivelazione, suggestione, evocazione sono infatti le parole che il critico è necessitato ad adoperare nel riprodurre le linee, i connotati di questa poetica.
La nuova mentalità si è formata lentamente dal preromanticismo in poi, attraverso certi lati mistici, e il contributo di alcuni particolari romanticismi (quello di Novalis, o Keats, o Poe), fino a manifestarsi chiaramente, nella metà dell'ottocento, con quelli che possiamo chiamare i padri del decadentismo (Wagner, Schopenhauer, Nietzsche, Poe, Baudelaire), e a prendere completa coscienza nella Francia post-baudelairiana di Rimbaud, Verlaine, Mallarmé.
Dalla Francia il decadentismo si riespande maggiormente nelle nazioni che, come l'Inghilterra, erano già preparate per conto loro, e in quelle che, come l'Italia, erano scarsamente europee e fortemente tradizionali.

L'Italia si trova in una posizione specialissima rispetto alla Francia, all'Inghilterra, alla Germania, in quanto che manca di un diffuso e sfrenato romanticismo, di tentativi romantici che possano paragonarsi a quelli di un Novalis o di un Coleridge. Manca di uno sfogo romantico, di una tradizione d'avventura e di rivolta, di cui i nuovi poeti potessero valersi. D'altra parte nella letteratura italiana era tenacissima una tradizione secolare, riportabile a quel letterato superiore che fu il Petrarca, che il romanticismo non riuscì ancora a spezzare se la ritroviamo nella sua ultima e più intensa applicazione nella poesia del Leopardi. Questa tradizione aulica, decorosa non era più sentita dal di dentro, e pesava oppressiva, non amata e pur patita sui poeti del secondo ottocento. In tutti, più o meno, c'è la volontà di novità e l'insofferenza della tradizione, ma si tratta più che altro, appunto, di velleità, non di consapevoli superamenti. Spiccano, fra tutti gli incerti ribelli, gli « scapigliati », i quali, per primi, si accostano anche alle nuove correnti straniere, a Baudelaire soprattutto, ed assumono, per primi, atteggiamenti pratici di impronta goffamente decadente. Perché, per mancanza di maturità, tutti i predannunziani si limitano a volere il nuovo, a fiutare, senza capirli, gli stranieri, e, in sostanza, a ribellarsi alla tradizione, equivocando contenutisticamente sul decoroso classico e sulla libertà moderna. E non hanno quindi che negativamente un senso rivoluzionario, sì che ricadono di continuo nei più ingenui romanticismi e negli schemi tradizionali malamente stravolti. Tanto che questo periodo di transizione può chiamarsi il periodo del brutto.
In tutti è chiaro il dissidio irrisolto fra i residui del passato e l'aspiraziorie al nuovo, e in tutti si sente, man mano che ci si avvicina a D'Annunzio, un progressivo accentuarsi di tono decadente, un concretarsi teorico e pratico del bisogno musicale come degli atteggiamenti, delle situazioni più propriamente decadenti.

Che posto occupa il Carducci in questa evoluzione della nostra letteratura? Si sarebbe tentati di dargli un valore tra di Hugo e del «Parnasse», facendone così un anello della nostra storia (come tentò il Petrini), ma, a ragion veduta, sentiamo la necessità di isolarlo e di riattaccarlo sempre più al romanticismo che non al nuovo, al decadentismo.
Perché nel suo solido mondo poetico mancano, se non si vogliono cercare a bella posta dei frammenti falsando lo spirito dell'insieme, spunti di una nuova sensibilità, di una sensibilità che superi quella del romanticismo italiano.
Il decadentismo italiano invece comincia con Gabriele D'Annunzio e con Giovanni Pascoli. Ma bisogna subito dire che, anche con questi due poeti, il decadentismo italiano è ancora limitato, stretto in un'atmosfera provinciale che si spezzerà davvero solo nel novecento. Ad ogni modo, mentre prima non si poteva parlare di vere, organiche poetiche decadenti, D'Annunzio e Pascoli ci offrono due poetiche, che se mancano di quel complesso intellettualismo che abbiamo osservato fra i francesi, debbono pur dirsi sostanzialmente animate dal nuovo spirito postromantico.

D'Annunzio importa più strettamente un contatto con la letteratura straniera ampiamente sfruttata, mentre Pascoli indica un decadentismo indigeno che prova la diffusione lenta, ma sicura d'uno stesso spirito poetico nelle varie letterature. La poetica di D'Annunzio, chiara in tutte le sue opere, prende vari coloriti a seconda delle sue vicinanze spirituali e dei tentativi di evasione da se stesso, ed è poetica dell'orafo (Isotteo, la Chimera), poetica del convalescente (Poema paradisiaco), poetica del superuomo (i romanzi, le tragedie), poetica dell'eroe e del martire (le opere della guerra e del dopoguerra). Ma sostanzialmente sotto queste varie poetiche, quella vera è una sola, nativa, personale: la ricerca di una gioia nelle parole trascinate in un canto che non è mai puro disinteresse musicale, perché si incentra ed indugia continuamente nelle parole rendendole significative come persone viventi, carnali, e non come simboli di suggestione. Poetica che trova la sua realizzazione perfetta solo una volta: nella naturalità dell'Alcione.

Anche Pascoli, pur nella costante ricerca musicale, accresciuta sempre più verso la fine in musica esteriore, ha come centro della sua poetica l'espressione delle cose nella loro immediatezza, l'espressione delle cose come le vede un fanciullino, con una magia naturale di impiccolimento delle grandi e di ingrandimento delle piccole, e con un senso del meraviglioso, del fiabesco che il filosofo farà coincidere col gusto del primitivismo omerico. Intrusioni moralistiche, umanitarie, intenzioni non realizzate di rendere il mistero, l'ignoto, aggravano la sua poetica fino a condurla alle peggiori cose della maturità. Qui, come D'Annunzio, è proprio la mancanza d'una vera intelligenza che fa viceversa accettare elementi extrartistici ed intellettuali.
Il Pascoli dei Poemi Conviviali rientra nell'ambito del Convito debosisiano e dell'estetismo, le cui caratteristiche di ambigua ipervalutazione dell'arte si ritrovano sia nel peggiore D'Annunzio, sia nel suo teorico e fedele Angelo Conti.

La poetica degli estetizzanti, dopo un predominio alla fine del secolo, capitò fra le mani di giovani smagati e sottili che la spaccarono come una pura e semplice retorica. Reagivano questi giovani poeti a D'Annnuzio e a Pascoli, mentre riprendevano in realtà l'uno e l'altro, specialmente il Pascoli delle piccole cose, il poeta del particolare umile, della realtà quotidiana. Sentivano anche la vicinanza dei decadenti verlainiani (Jammes soprattutto) e ne confortavano una poetica del quotidiano spassionato, che diventerà poi la retorica di un'uggia estremamente psicologica.
Come i crepuscolari, così da eredità dannunziane e pascoliane (energica riproduzione della realtà nella sua immediatezza più fugace) e da conoscenze francesi, nacquero i futuristi, che presentano, se originali, varietà tali da escludere una poetica comune, o restano puri e semplici imitatori del solo loro poeta: Marinetti, la cui poesia è realizzata proprio nei «Manifesti» del futurismo, cioè nella esposizione della sua poetica. La quale consiste nel gareggiare con la velocità della vita moderna, e nell'impazzire spasmodicamente in un uso secentista delle analogie. Con i futuristi si chiude il primo decadentismo italiano, si esaurisce il periodo delle imitazioni e dell'europeizzamento.

La Voce, il sorgere dei nuovi poeti che hanno assimilato e quindi superato i fondamenti teorici delle poetiche decadenti francesi, segnano un periodo poetico distinto, di creazione più conscia ed europea.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis