La teoria estetica del De Sanctis sorge tutta da questa
critica della più alta manifestazione a lui nota dell'Estetica
europea. E quale essa sia, appare già nel contrasto. «Se nel
vestibolo dell'arte (dice) volete una statua, metteteci la
Forma, e in quella mirate e studiate, da quella sia il
principio. Innanzi alla forma ci sta quello ch'era innanzi
alla creazione, il caos. Certo, il caos è qualche cosa di
rispettabile, e la sua storia è molto interessante: la scienza
non ha detto l'ultima parola su questo mondo anteriore di
elementi in fermentazione. Anche l'arte ha il suo mondo
anteriore: anche l'arte ha la sua geologia, nata pur ieri e
appena abbozzata, scienza sui generis che non è Critica né
Estetica. Apparisce l'Estetica quando apparisce la forma,
nella quale quel mondo è calato, fuso, dimenticato e perduto.
La forma è sé medesima, come l'individuo è se stesso; e non ci
è teoria tanto distruttiva dell'arte quanto quel continuo
riempirci gli orecchi del bello, manifestazione, veste, luce,
velo del vero o dell'idea. Il mondo estetico non è parvenza,
ma è sostanza, anzi è esso la sostanza, il vivente: i suoi
criteri, la sua ragion d'essere non è in altro che in questo
solo motto: io vivo».
Ma la forma del De Sanctis non era né la forma «nel senso
pedantesco in cui fu intesa sino alla fine del secolo
decimottavo», cioè quello che prima colpisce l'osservatore
superficiale, le parole, il periodo, il verso, la singola
imagine; né la forma nel senso herbartiano, ipostasi
metafisica di quella. «La forma non è a priori, non è qualcosa
che sta da sé e diversa dal contenuto, quasi ornamento o veste
o apparenza o aggiunto di esso; anzi essa è generata dal
contenuto, attivo nella mente dell'artista: tal contenuto, tal
forma». Tra forma e contenuto vi è, insieme, medesimezza e
diversità. Nell'opera d'arte si ritrova il contenuto, già
caotico, ch'era nell'animo dell'artista, «non più qual era, ma
quale è divenuto, e sempre tutto esso, col suo valore, con la
sua importanza, col suo bello naturale, arricchito e non
spogliato in quel divenire». Perciò il contenuto è necessario
a produrre la forma concreta; ma la qualità astratta del
contenuto non determina quella della forma artistica. «Se il
contenuto, bello, importante, è rimasto inoperoso o fiacco o
guasto nella mente dell'artista, se non ha avuto sufficiente
virtù generativa, e si rivela debole o falso o viziato nella
forma, a che vale cantarmi le sue lodi? In questo caso, il
contenuto può essere importante in sé stesso; ma, come
letteratura o come arte, non ha valore. E, per contrario, il
contenuto può essere immorale, o assurdo, o falso, o frivolo;
ma, se in certi tempi e in certe circostanze ha operato
potentemente nel cervello dell'artista ed è diventato una
forma, quel contenuto è immortale. Gli dèi d'Omero sono morti:
l'Iliade è rimasta. Può morire l'Italia ed ogni memoria di
guelfi e ghibellini: rimarrà la Divina Commedia. Il contenuto
è sottoposto a tutte le vicende della storia: nasce e muore:
la forma è immortale ». Egli teneva fermamente
all'indipendenza dell'arte, senza la quale nessun'Estetica è
possibile; ma gli pareva esagerata la formula dell'arte per
l'arte in quanto potesse importare separazione dell'artista
dalla vita, mutilazione del contenuto, arte ridotta a prova di
mera abilità.
Per il De Sanctis, il concetto della forma era identico con
quello della fantasia, della potenza espressiva o
rappresentativa, della visione artistica. Ciò deve dire chi
voglia determinare esattamente la tendenza del pensiero di
lui. Ma il De Sanctis stesso non riuscì mai a svolgere con
finitezza scientifica la propria teoria; e in lui le idee
estetiche rimasero quasi abbozzo di un sistema non mai ben
connesso e dedotto. Insieme con quello speculativo, erano
vivissimi nell'animo suo altri bisogni: intendere il concreto,
gustare l'arte e rifarne la storia effettiva, tuffarsi nella
vita pratica e politica, onde fu a volta a volta educatore,
cospiratore, giornalista, uomo di Stato. «La mia mente tira al
concreto», soleva ripetere. Filosofava tanto quanto gli era
necessario per orientarsi nei problemi dell'arte, della storia
e della vita; e, procurata luce all'intelletto, trovato il
punto d'orientazione, riconfortatosi nella coscienza del suo
operare, si rituffava prontamente nel particolare e nel
determinato. Con una potenza fortissima a cogliere la verità
nei principi più alti e generali, congiungeva non men forte
l'aborrimento nel pallido regno delle idee, nel quale quasi
asceta si aggira il filosofo. E, come critico e storico della
letteratura, egli non ha pari. Chi lo ha paragonato al Lessing,
al Macaulay, al Sainte-Beuve o al Taine, ha voluto fare un
parallelo rettorico. «Voi mi parlate (scriveva Gustavo
Flaubert a Giorgio Sand) della critica, nella vostra ultima
lettera, dicendomi ch'essa sparirà tra breve. Io credo,
invece, che la critica spunti appena sull'orizzonte. Si fa ora
il contrario della critica di prima, ma niente altro. Al tempo
del Laharpe, il critico era grammatico: al tempo del
Sainte-Beuve e del Taine è storico. Quando sarà artista,
niente altro che artista, ma veramente artista? Conoscete voi
una critica che s'interessi all'opera in sé in modo intenso?
Si analizzano con molta finezza l'ambiente storico, in cui
l'opera è sorta, e le cause che l'hanno prodotta; ma, e la
poetica inconscia? donde risulta? e la composizione? e lo
stile? e il punto di vista dell'autore? Tutto ciò, non mai.
Per una critica di tal sorta, ci vorrebbero grande
immaginazione e grande bontà, voglio dire una facoltà
d'entusiasmo sempre pronta; e poi gusto, qualità rara anche
nei migliori, tanto che non se ne parla più». A questo ideale,
sospirato dal Flaubert, il solo critico che risponda
degnamente (tra quelli, diciamo, che hanno tentato
l'interpretazione di grandi scrittorie d'interi periodi
letterari) è il De Sanctis. Nessun'altra letteratura ha, per
le sue opere, uno specchio dal riverbero così perfetto, come
quello che per il suo svolgimento letterario l'Italia possiede
nella Storia e negli altri lavori critici di Francesco De
Sanctis. |