Non è qui il luogo di vedere come il sistema teorico del De
Sanctis si fosse di lunga mano maturato e precisato in un
duplice ordine di riflessioni e di esercitazioni concrete, e
in un assiduo confronto e reciproco conforto delle une con le
altre, prima di giungere alla chiarezza e consapevolezza che
in queste pagine sul Cantù si manifesta in formule di
esposizione riassuntiva e apodittica e con un accento di così
ferma convinzione. Ad altri spetterà il compito di ricostruire
la storia della metodologia desanctisiana, dalle incerte
formulazioni giovanili fino al suo definirsi in una serie di
proposizioni abbastanza salde, nonostante le persistenti
incertezze della terminologia, per fornire un fondamento
all'esercizio in atto della critica, e così nuove ed ardite da
far di quella critica il momento culminante, il riflesso più
maturo e consapevole di tutta la cultura italiana
dell'Ottocento. Basterà qui ricordare come tale processo di
maturazione si esplichi da un lato in una polemica contro il
formalismo esteriore, e cioè contro la forma intesa «nel senso
pedantesco» dei retori e dei grammatici, e dall'altro in una
critica serrata del concetto hegeliano dell'arte come
rappresentazione dell'idea; per cui il De Sanctis giunge già
nel '58 al suo concetto di forma come unità organica, della
forma che «non è un'idea, ma una cosa» , e cioè la realtà
stessa, il vivente, in quanto si configura nella mente
dell'artista, realizzandosi in un nuovo organismo, che è esso
medesimo momento in sé perfetto ed insopprimibile del processo
vitale:
ogni contenuto è una totalità, che come idea appartiene alla
scienza, come esistere materiale appartiene alla realtà, come
forma appartiene all'arte... Il mistero della vita è che il
tutto non comparisce mai come tutto, ma come parte, la quale
non esclude, ma si assimila il rimanente.
Soprattutto importerà sottolineare che questo principio della
forma come organismo, come «cosa veduta», implica
l'accentuazione di un metodo storicistico, e della totalità
della visione storica, comunque essa si specifichi nel proprio
assunto particolare. Perché, se il poeta « coglie il contenuto
come forma », ciò « non vuol dire che... debba sopprimere il
resto, cioè a dire quello che ci è di religioso, di politico,
di morale, di reale», ma solo «che tutto questo debba
comparire come forma, bello, sublime, orribile, brutto, ecc.»;
e pertanto il critico, che ha il compito di definire quel
contenuto-forma, deve saperlo a sua volta ricostruire in tutta
la sua determinatezza (non come materia sentimentale astratta,
ma come sostanza di sentimenti specificata in una precisa
situazione storica) e inoltre in tutta la sua pienezza (non
come forma indifferente, ma come espressione organica di una
complessa realtà culturale e morale).
La duplice polemica che il De Sanctis è venuto svolgendo e la
raggiunta formula del rapporto unitario di contenuto-forma
debbono insomma, sul piano estetico, assicurare per un verso
il momento dell'indipendenza dell'arte, del suo valore
autonomo e fino ad un certo punto slegato dalla natura
contingente dei contenuti che essa di volta in volta assume; e
per un altro verso la sua storicità e cioè la sua genesi
determinata e la sua funzione determinante nel movimento
complessivo della vita sociale; sul piano critico, fra le due
tendenze entrambe erronee di un astratto contenutismo, che
valuta o svaluta l'opera poetica sul fondamento dell'analisi
della sua sostanza ideologica, e di un altrettanto astratto
formalismo, che pretende di giudicarla in sé fuori delle sue
condizioni di spazio e di tempo, essi permettono di
raggiungere una posizione, non già equidistante, bensì
dialettica, in cui di volta in volta lo spostarsi
dell'attenzione e dell'interesse sull'aspetto prevalentemente
formale o su quello intenzionale e funzionale sia determinato
dalle necessità intrinseche di una critica, che essa stessa
adempie a una funzione polemica e si inserisce attivamente in
una situazione di contrasti culturali. Il che comporta
dovunque un processo assiduo di riferimento dialettico dei
fatti artistici con la realtà di cui essi sono al tempo stesso
specchio e ricreazione ed elemento operante; e un esame
dell'opera d'arte non statico, ma in movimento, inteso a
coglierla e scrutarla nel suo farsi, prima e più che nella sua
immobile e conclusa perfezione. Il valore autonomo della
poesia non è un presupposto, ma il momento terminale di un
processo; e il giudizio critico a sua volta è sempre il
risultato di uno studio sulla genesi dell'opera: «la questione
critica fondamentale è questa: posti tali tempi, tali dottrine
e tali passioni, in che modo questa materia è stata lavorata
dal poeta, in che modo quella realtà egli l'ha fatta poesia?».
Anche a questo concetto, che è essenziale per l'intendimento
della metodologia desanctisiana (sebbene finora non gli sia
stato assegnato dagli studiosi tutta l'importanza che gli
spetta), il critico è arrivato non tanto per la via di una
riflessione astratta, quanto piuttosto in margine e sotto lo
stimolo di una problematica concreta e particolare, più
specialmente attraverso gli sforzi da lui durati
nell'affrontare e tentar di risolvere il punto cruciale dello
studio di Dante, il rapporto fra il mondo intenzionale
dell'Alighieri e la poesia della Commedia: il problema che,
fin dal '55, polemizzando contro il Gervinus, assertore
dell'idea di un'arte pura e svincolata da ogni implicazione
politica, gli si proponeva in termini già abbastanza precisi
ed urgenti:
ne' grandi scrittori, che hanno l'istinto dell'arte, la
politica non assorbisce in sé la poesia, ma rimane semplice
stimolo, motore di grandi affetti e di alte fantasie. Nelle
vere poesie vi è sempre qualche cosa di superiore che
sopravvive, spento anche quello scopo politico che le si
propongono. Guelfi e Ghibellini, Bianchi e Neri sono ormai
dimenticati; le passioni, che rosero tanto il cuore di Dante,
sono spente, ma non sono spente già le sublimi creazioni della
Divina Commedia, alla quale quelle passioni diedero vita.
L'importanza, la moralità, l'attualità del contenuto, sono in
un certo senso, veramente «estranee alla letteratura», e
quindi indifferenti alla critica: l'opera d'arte non attinge
da esse la sua validità e il giudizio del critico non ne
dipende quanto al segno positivo o negativo in cui si
definisce la sua formulazione. Ma poiché, d'altro canto, senza
quello stimolo offerto dalla realtà non esisterebbero neppure
gli affetti e le fantasie del poeta, non l'opera artistica,
non quella forma organica in cui si attua l'implicita
poeticità di un contenuto; così il giudizio di valore, che,
come tale, è poco più di un presupposto senza possibilità di
svolgimenti e argomentazioni interne, acquista significato di
critica vera e propria solo in quanto si risolve in un'analisi
genetica, e s'appunta sul momento di trapasso dal contenuto
informe all'organismo formato e coglie in atto e concretamente
il processo di elaborazione poetica. La critica è veramente
critica solo se diventa storia, e la storia letteraria è
impossibile se, pur mantenendo la piena consapevolezza della
relativa autonomia del suo oggetto, non affonda di continuo le
radici nel terreno della storia civile e culturale della
società; se non è insomma, pur nel quadro di una sua
prospettiva specifica e senza ridursi mai ad uno schema di
astratta causalità sociologica, storia in senso totale. |