CRITICA: UGO FOSCOLO

 LA VITA DEI SENTIMENTI E LA RELIGIONE DELL'ARMONIA

 AUTORE: Eugenio Donadoni    TRATTO DA: Ugo Foscolo pensatore, critico e poeta

 

Ma il pensiero filosofico e politico del Foscolo - ch'io mi sono ingegnato di venire ricostruendo - non è ancora tutto il mondo interiore di lui. È la sua ragion pura - se così posso dire -, non ancora la sua ragion pratica. E la sua teoria, non il suo sentimento; che spesso è in aperta antitesi con quella. Si potrebbe anzi dire che non c'è alcuno dei principii che gli vedemmo affermare, il quale non sia contraddetto, o limitato, in questa o quella parte dei suoi scritti. Quando il Cattaneo scriveva che il Foscolo «precedeva col pensiero tutta la sua generazione», diceva una cosa alquanto indefinita, né forse esattissima riguardo alle idee politiche del Foscolo, delle quali principalmente si intrattiene lo scrittore lombardo; ma profondamente vera, ove si riferisca al mondo sentimentale del Foscolo. Il pensatore astratto è - dice bene il Cattaneo - «figlio del suo secolo»; e, direi anzi, è più antico della sua generazione; non si contenta di essere un sensista della scuola di Locke: anche vuol essere un politico della scuola di Hobbes e del Machiavelli. Ma l'uomo, nel suo complesso, sente l'insufficienza se non pure l'inanità di quel pensiero; e negli strati meno coscienti, ma non perciò meno profondi e meno sinceri dell'anima, intende voci più intime, più delicate e più eloquenti; voci non sai se di rimpianto o di presentimento: che costituiscono veramente la parte più sua del suo io...

Nel Foscolo è visibilissima quell'aria di irrequieto dolore, quel desiderio di pace e di oblio, che fu comune agli uomini e agli scrittori della generazione romantica, e che trovò forse la sua espressione artistica più intiera nel Renato dello Chateaubriand. Questo lettore di Plutarco, questo che più volte si professa stoico, quando si scopre senza posa a sé e agli amici è un ammalato dei mali profondi della età di transizione: non molto dissimile in ciò dal Petrarca, di cui perciò comprese così bene gli spiriti. Il desiderio ora georgico, ora idilliaco, fortissimo sempre, di fuggir da una vita troppo grave a vivere o a combattere non appare frequente soltanto nella sua opera poetica, non si tradisce soltanto nella sua predilezione per i poeti della campagna, della solitudine, della astensione; quali Tibullo, il Bertola, il Pindemonte. Con quanta compiacenza in quelle soavissime lettere familiari pubblicate dal Perosino - egli s'intrattiene con la madre, con le sorelle, col fratello a parlare del suo sogno di vivere una vita tranquilla coi suoi a Venezia: «Temprando il verno al proprio foco» ! E negli ultimi anni lo pigliò prepotente la nostalgia della Grecia della sua fanciullezza. Quanto spesso ed eloquente nelle lettere alla Donna gentile suona un rimpianto e una stanca brama di vita buona ed umile e in pace al fianco di lei!...
In realtà le più soavi parti del pensiero filosofico del Foscolo sono frutto di un'intima bontà quasi femminea, che troppo spesso si coprì del manto di un altezzoso stoicismo alfieriano. Quando l'anima del Foscolo si scopre sincera, si rivela ricca delle più umane, e, sia pure, più umili virtù. La tenerezza del suo animo filiale è nota, e solo è pareggiata da quella del Mazzini. Quando ebbe notizia della morte della madre, egli quasi morì di dolore. Per la sorella ha squisitezze materne. Rammento la lettera commoventissima, con la quale manda in dono a lei e alla madre un anello. Della famiglia, questo perpetuo errante sente tutta la poesia. Gli par troppo amaro passare il giorno di Natale lontano da essa. E negli ultimi anni, pensava a una pace domestica, che non avrebbe goduto mai, con un misto desolato di rimpianto e di desiderio. Se ha paura della miseria, sente pure di quante intime dolcezze può essere madre una non inonesta povertà. Ha sete di far del bene: è pronto a soccorrer poveri, a difendere oppressi o vittime d'ogni maniera: siano un padre di famiglia, sia un sergente, sia un miserabile critico come Salvatore De Coureil, contro cui troppo infierì la splendida bile del Monti. Piange amaramente al patir di un povero servo, che gli é stato fedele per molti anni. Desidera che le nobili e ricche donne da lui amate, la Fagnani, la Giovio, diventino misere, povere per poter offrire loro liberamente le sue lacrime più dolci anche dell'amore. Che fosse compassionevole verso i miseri, lo attesta il fratello Giulio. «Pietoso» è la prima virtù che l'Isabella Teotochi rileva nel Foscolo, nel ritratto che ci lasciò di lui. Ben egli poteva scrivere alla Fagnani: «lo non son fatto né per la crudeltà, né per la vendetta. Le mie opinioni sono figlie dell'esperienza, ma sono... assai diverse dal mio cuore, che è figlio della Natura. Oserei dirlo a Dio stesso. Nessuno ha mai pianto per me...» E quel suo cuore era tutt'uno con le voci più intime o più elevate della coscienza morale: «M'acquieto - scriveva alla Teotochi nel 1809 - su la sentenza di un tribunale che da gran tempo mi siede nel santuario dell'anima». E la coscienza lo rimorse alcuna volta di vestire una divisa, che non era quella del soldato d'Italia; gli rese abominevole il «sanguineo manto» di Marte. A lui che abbiamo veduto pensare che la giustizia sia la sanzione della forza, la coscienza insegnava che la giustizia è nulla senza l'equità. A lui che insegnava come la virtù è una forma di larvato egoismo, la coscienza imponeva di guardare alla virtù con altro occhio che di scettico: contraddizione magnanima, nella quale cadde anche il Leopardi. Onde il Foscolo conchiudeva una stupenda lettera alla contessina Giovio, in cui rinunziava alle nozze da lei desiderate: «Sacrificatevi alla virtù: unica consolazione della disavventura».

Il De Sanctis vede nelle Grazie «l'artista consumato; appena ci è più il poeta». Certo le allegorie, le intenzioni sono troppe; ma il poeta c'è ancora: l'espressione di un mondo interiore e troverei a dire su quella affermazione del De Sanctis, che le Grazie siano «l'ultimo fiore del classicismo italiano». Il classicismo del Foscolo è tutto suo, ed è perciò poesia. Che differenza pur fra l'omerico Prometeo e la virgiliana Feroniade del Monti ed il carme foscoliano! In quei poemi è un classicismo impersonale, canonico, convenzionale, perfetto; ma ci si arriva dopo una tradizione, dopo una ripetizione di secoli. Il classicismo del Foscolo non ha precedenti, non può trovare un pubblico preparato a valutarlo. Le Grazie hanno bisogno delle didascalie del poeta. Altrimenti non ci si può render ragione di una poesia così singolare, nei primi anni del secolo scorso, così audace: di quell'abuso di finzioni vecchie di secoli, e pur fresche, come se allora allora nascessero nella poesia: di quell'atteggiamento nel poeta di sacerdote, di guidatore di cori, di quella maniera così seria, così jeratica di rappresentare il mondo mitico, ed il mondo presente.
Il classicismo delle Grazie non è ornamento. È abito spirituale: è culto. La purificazione, l'elevazione intima all'aspetto della Bellezza è ciò che il poeta canta con accendimento religioso. Non i motivi esteriori, ma il profondo senso della poesia antica il Foscolo ha sentito e riprodotto nelle Grazie. Nessun poeta forse fu mai classico - nel significato filosofico e non soltanto rettorico della parola - come il Foscolo. Per questo rispetto le Grazie stanno presso la Ifigenia in Tauride del Goethe. Nel Foscolo c'è l'adorazione della bellezza antica; e non in un senso metaforico. Anche il De Sanctis paragona il Foscolo al Goethe: i Sepolcri e le Grazie, con la prima e la seconda parte del Faust; ma gli pare poco meno che stupida l'allegoria, che si nasconde sotto le Grazie, a comparazione di quella profondissima, che alletta i pensatori nella seconda parte del Faust: sia pure: non è ingiuriare il Foscolo il considerarlo di gran lunga inferiore al poeta tedesco. Ma il critico concepisce «Goethe che comincia col Werther e giunge al Torquato Tasso. È la calma superiore dell'artista, che... conquista nella realtà il suo equilibrio e la sua armonia...». Ma «nelle Grazie il concetto della vita è altro. È il vecchio concetto di Aristotile, la purgazione delle passioni, la tranquillità dell'anima risanata dalle passioni, ciò che il Foscolo chiama il sistema epicureo. E se questo concetto fosse nel suo cuore e nella sua vita, com'è nella sua mente avremmo il nuovo poeta. Ma esso è un concetto, non è un sentimento». Ora io non so se la purgazione che il Foscolo domanda alla bellezza sia davvero la serenità epicurea, né so se con questa sia tutt'uno la catharsis, che Aristotile pone a fine della tragedia; né credo che molto importi se questo concetto della purgazione sia vecchio o nuovo. Ma forse sfuggì al De Sanctis che per il Foscolo Bellezza e Virtù tornano al medesimo: la parte didattica del poema non viene perciò ad essere una sovrapposizione, ma sostanza di esso. E a me pare che la religione dell'armonia occupasse l'anima del cantore delle Grazie, e che fosse assai più che un concetto, e che per essa il Foscolo fosse veramente, benché in grado minor di prima, poeta: un poeta conciliato con sé e con le cose: intimamente mutato da quello che era stato nell'Ortis e nei Sepolcri.
Egli non è più il pellegrino sdegnoso, il reticente minacce, l'eroe disperato. Egli canta sereno, nel mondo suo, nel regno della bellezza, nella sua Firenze, vicino al Canova; canta

Fra l'arte coronato e fra le Muse.

Il presente - con le sue asprezze - non lo vede: o lo vede rivestito della rosea placida luce del mondo antico.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis