CRITICA: UGO FOSCOLO

 MOTIVI E UNITA' DEI "SEPOLCRI"

 AUTORE: Attilio Momigliano    TRATTO DA: La poesia dei Sepolcri

 

I Sepolcri sono qualche cosa di diverso da quello che noi intendiamo per poesia patriottica: l'onda di passione italiana che agitò l'anima del Foscolo, qui è dominata da una serenità superiore. Quella passione è rimasta, ma è germinata in una sfera universale. Qui Ugo è presente al poeta, ma distante; e qualche cosa di simile si può dire dell'Italia: è presente, ma lontana. Mentre nell'Ortis Ugo e l'Italia erano vicini e circoscritti, e per lo più non c'era che la patria tradita e l'italiano deluso e il romantico fosco e disperato. Qui Ugo e l'Italia sono lo sfondo storico e concreto da cui vien fuori una musica che va dal più remoto passato al più indefinito avvenire; e questo ingrandisce le vicende adombrate di Ugo e dà una solennità ideale alla storia contemporanea.
Perciò il tono dei versi dei Sepolcri è insieme di maestosa eloquenza e di meditazione solinga, di contemplazione e di ammonimento. Perciò, in mezzo al timbro virile, penetra la velatura morbida e malinconica di un pellegrinaggio tra i fantasmi del passato: e tutto il carme ondeggia fra l'impeto generoso e l'abbandono dei sentimenti che si levano dalle solitudini e le animano e le riempiono.

Ritorniamo all'idea iniziale: la scena del carme è il cimitero, il luogo in cui si spengono i rumori del mondo e si innalzano sole e potenti le voci profonde della vita. L'amore, la poesia, la fortezza cantano con fremiti d'arpa in mezzo al cimitero sterminato del Foscolo, dove ogni vanità tace, e solo ciò che della vita è grande sopravvive e parla.
I Sepolcri sono il canto più magnanimo dell'Italia: eppure non hanno veramente una fisionomia epica. Perché sono tutti avvolti nei vapori malinconici del presente, e l'ardore patriottico del Foscolo e l'ammirazione per la bellezza del mondo sono frenati e velati dal senso della caducità e da un anticipato rimpianto delle gioie della terra. Questa «bella d'erbe famiglia e d'animali», le lusinghe del futuro, i conforti della poesia e dell'amore sono rievocati come sulle soglie della morte: e questo fa quelle gioie più seducenti e più tristi. Chi ha avuto un sentimento della vita più affascinante e più malinconico del Foscolo? Ricordiamo l'apertura del carme, che è insieme un inno e un addio alle bellezze della terra; la descrizione dello sguardo di chi muore - «Perché gli occhi dell'uom cercan morendo - Il Sole» -; la lampada che illumina le tombe «Rapian gli amici una favilla al Sole - A illuminar la sotterranea notte»: sembra un sospiro di nostalgia verso il cielo aperto e luminoso -. Dovunque nel poema avvertite questo dolore del tramonto, la desolazione che prende l'uomo quando pensa che in un avvenire vicino o lontano «gli sarà muta l'armonia del giorno». Dovunque avvertite come un palpito, un tumulto che finisce, un ribollire appassionato che si arresta nella certezza della fine: ma poi si risolleva e trapassa in un'ebbrezza serena; su quell'inquietudine sublime discende una fiducia indeterminata, e la poesia assume la maestà d'una preghiera.
Vaste immagini di vita e di morte s'intrecciano con insistenza e generano il fascino del carme, quel misto di esaltazione e di mestizia che è il soffio del poema. La terra pare insieme «bella d'erbe famiglia e d'animali» e un campo sparso d'ossa infinite: e il lettore è in preda a questi sentimenti opposti, che nascono in ogni uomo - se non religioso - magnanimo, quando contempla dalle vette del pensiero il corso del nostro destino.

Quattro motivi corrono attraverso i Sepolcri. Quello della bellezza della vita e quello della fatalità della morte, confusi in un'onda triste e affascinante. Quello del flutto delle forme, che ci rapisce dall'umana mestizia alla serenatrice contemplazione delle vicende universali. Quello della magnanimità che vince questa «forza operosa» e incessante: e la sua voce è la poesia che varca i millenni, e perciò in quest'immenso cimitero del Foscolo si respira un'aria d'immortalità.
Questi motivi sono raffigurati e congiunti con una potenza straordinaria. Le immagini della terra, del cielo, delle tombe, dei grandi sono ora ampie ora raccolte: ma dovunque spira un'aura che trasfigura i luoghi e le persone e vi imprime una maestà meditabonda e fa dei Sepolcri lo sviluppo del motivo musicale da cui è nato il grande sonetto Alla sera. Questo sonetto è già poesia sepolcrale: nelle tenebre dell'universo lo spirito del poeta via via si placa e s'addormenta. Anche qui la passione del Foscolo freme, ma per comporsi in una quiete severa:


Vagar mi fai co' miei pensier su forme
Che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
Questo reo tempo, e van con lui le torme
Delle cure, onde meco egli si strugge;
E mentr'io guardo la tua pace, dorme
Quello spirto guerrier ch'entro mi rugge.



Che abbandono, che respiro possente di riposo in quel sonno che giunge dopo un così lungo errar di pensieri! E come tutto il sonetto è insieme molle e solenne, come tutto dice l'oblio d'una coscienza in travaglio, lo smorzarsi d'un tumulto grande ma umano nello sconfinato sapore dell'universo!
Questo sonetto, le Ultime Lettere di Jacopo Ortis e i Sepolcri segnano i tre momenti fondamentali dello sviluppo artistico del Foscolo. I frammenti delle Grazie sono una deviazione e un decadimento. Il sonetto si può commentare con una pagina del romanzo, e ne presuppone tutte le angosce: ma già esse affondano a poco a poco nel respiro pacato che lo invade e lo avvolge. Vi sentite dentro un'onda oscura e silenziosa che trascina con sé le cure degli uomini, e la tranquillità finale della morte.
Il tono è grave, ma ha insieme la dolcezza d'un sovrumano conforto:


Forse perché della fatal quiete
Tu sei l'imago, a me sì cara vieni,
O Sera!...



Come nei Sepolcri. Ma il sonetto non è che la voce d'una grande stanchezza, un sospiro di abbandono. Leggendolo, pensate alla Notte di Michelangelo: «Grato m'è il sonno». Sono due espressioni sovrane della stanchezza umana, dello spirito che riposa - finalmente! - dopo un lungo, febbrile, vano travaglio. Hanno intorno a sé il silenzio e le tenebre: non domandano altro che il sonno,


Il sonno che de' miseri mortali
È col suo dolce oblío posa e quiete.



I dolori e le passioni del Foscolo sembrano fluire e dileguare nel nulla. I Sepolcri, conservando questa vastità di spazi in cui il protagonista appassionato si trasfigura, animano però il silenzio del nulla e della morte con il canto d'una fede sconsolata e magnanima.
L'orizzonte del sonetto è largo, come quello dei Sepolcri, ma nei Sepolcri le tenebre sono rotte da una luce ferma: una favilla rapita al sole ne illumina la sotterranea notte. Il Foscolo ha vinto la crisi dell'Ortis e ha tratto dalle sue esperienze la fede della nobiltà del nostro tormentoso destino.
L'arte del carme, non è più grande che quella del sonetto: solo ha un ambito più vario e un tono più chiaro. È come il risveglio da quel sonno, da quel malinconico riposo. La disperazione suicida dell'Ortis è svanita, il dissolvimento dell'anima affaticata nelle tenebre dell'universo è superato: il poeta si ridesta, e si ritrova con quell'onda di tristezza di un tempo ma con la forza d'una pertinace speranza. Il nuovo s'innesta sull'antico: ne deriva al carme una verità più temperata, un'ebbrezza della vita che si ripercuote in un'eco di rimpianto, una passione istintiva dei doni della terra che svanisce nella coscienza del nulla e risorge in una fede ugualmente istintiva, quella complessità e quella mobilità di sentimenti che ritroviamo in tutti i capolavori dove si rispecchia il volto indefinibile della vita.
Le immagini che esprimono questi sentimenti hanno la compiutezza, la rapidità, i contorni sfumati delle visioni: si succedono l'una all'altra con il ritmo mutevole, facile, morbido dell'onda che tien dietro all'onda. Avete appena veduto un angolo muto di cimitero, che vi si allarga dinanzi lo spettacolo del sole sotto cui la terra vive e germoglia; e subito il verso trapassa alle ore fantastiche del poeta, e la visione colorita della terra formicolante d'erbe e d'animali si attenua nei veli del sogno («E quando vaghe di lusinghe innanzi - A me non danzeran l'ore future»). E di nuovo il pensiero rifluisce verso la fine, e quelle che prima erano tombe solinghe adombrate di cipressi, diventano la vista sconfinata dell'opera incessante della morte e dell'eterne trasformazioni dell'universo. Questo in ventidue endecasillabi, dove la luce e le tenebre, la desolazione della fine, e il fascino della vita si alternano con una potenza e una morbidezza di passaggi e di chiaroscuri che fanno della poesia del Foscolo un motivo inesauribile di meditazione critica.
Il resto del carme mantiene in misura diversa il ritmo grandioso e mutevole di questa breve ed immensa sinfonia della vita e della morte.

Il pensiero, che si stacca continuamente dall'immagine della morte, vi ritorna però senza posa: il viandante che percorre la via Appia guardando ora il cielo ora le tombe che si succedono alle tombe, ha un'impressione simile alla lettura della prima parte dei Sepolcri. Un respiro di riposo, un sentimento di tenerezza i campi aperti, il mormorio d'una pianta, la luce del sole, la maestà dell'universo, il ricordo dei grandi superstiti nella memoria dei nipoti, interrompono più o meno largamente la visione della prima parte del carme, dove il cimitero ritorna in forma di quadro ora romantico ora raccolto ora affettuoso ora sovraccarico di tinte fosche.
Ma nella seconda parte il pensiero si ferma definitivamente sulle tombe: e se anche in questa non cessa quel ricorso musicale di motivi che si nota nella prima, tuttavia qui la fantasia si concentra sul tema della morte a cui sorvolano il ricordo e il canto, e la fede indefinita che mormorava nella prima squilla come un inno grave.
Le imperfezioni del carme non consistono nel difetto d'unità, ma in qualche esagerazione di colorito. Non tutto nei Sepolcri ha una così perfetta fusione di tinte, un così tranquillo splendore, una così sovrana e morbida potenza di linee come l'esordio, il sublime ritratto tragico dell'Alfieri, la figurazione delle muse e di Omero e certi scorci di camposanti. Se al nostro cuore d'italiani l'inno alle tombe di santa Croce è il passo più caro dei Sepolcri, al nostro gusto di lettori di poesia non può sfuggire che v'è maggior sobrietà di disegno e forza di suggestione e concentrazione di umana tenerezza e di eroica fede nelle Muse che siedon custodi dei sepolcri; se l'immagine dei resti abbandonati del Parini rinnova il nostro affetto per il vecchio venerando e per il giovane che imparò da lui il culto dell'integrità coraggiosa, il nostro gusto di lettori di poesia non può non sentire nei particolari orrendi accumulati su quella «funerea campagna» una forzatura di toni foschi, che ancora dopo le Ultime lettere di Jacopo Ortis rimane il pericolo dell'arte foscoliana. Ancora un po' di questa debolezza si sente nel quadro delle sepolture medioevali; appena un'ombra ne rimane nel tumulto notturno di Maratona, pieno di fervore fantastico, ma, in confronto della serenità artistica del complesso del carme, un po' esteriore e un po' scarso di concentrazione e di significati. Quel contrasto di ombre cupe e di scintille e di ignei vapori, non è propriamente il modo della poesia del Foscolo giunta alla sua perfezione. Qui al fervore della sua fantasia manca ancora quell'estremo senso della misura, che aveva già trovato nel sonetto Alla sera e che è rimasto nelle linee fondamentali del carme.
Ma qui, proprio sul limite di questo famosissimo quadro, ritroviamo quell'armonia serenatrice che nella poesia immortale del Foscolo stende il suo velo sul tumulto dei sentimenti e delle immagini. La scena non è tanto bella per le ombre che la agitano, quanto per l'inno delle Parche che la chiude e le sovrasta e sembra spegnere in un silenzio immortale i gemiti dei moribondi e gli inni dei vincitori.
Avete il senso di una potenza superiore, in cui l'anima agitata si placa, quel senso che è poi lo spirito e la poesia di tutto il carme.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis