CRITICA: UGO FOSCOLO

 LA POETICA DEL MIRABILE E DEL PASSIONATO E LE "GRAZIE"

 AUTORE: Giuseppe De Robertis    TRATTO DA: Linea della poesia foscoliana

 

L'anno stesso che scriveva questi sonetti ultimi, nella Chioma di Berenice, e specialmente nel Discorso quarto, dove parla della «ragione poetica di Callimaco», risalendo alla natura della poesia discorreva del «mirabile» e del «passionato», come necessari alla poesia lirica. In diversa misura, in diversa tempra di quelle due doti divine, ne darà egli stesso esempio memorando, nei Sepolcri, con più di passionato, nelle Grazie, con più di mirabile, sempre guadagnando di purità e segretezza, con un annullamento di sé nella parola, un interiorizzamento, che commuoverà appena la lirica del verso. E questo sarà il volo in altezza dell'ultima poesia del Foscolo.
In un primo tempo si direbbe che quasi coesistessero questi due Foscolo. E avemmo insieme il Foscolo dei sonetti e il Foscolo delle odi, il passionato e il mirabile. Quello ricco d'ombre, questo forse un poco fastoso. Era difficile che un assorbimento del passionato nel mirabile avvenisse senza distanza né distacco né fatica: quella che corse tra i Sepolcri e le Grazie. Foscolo vide subito il progressivo moto della sua poesia, e non già in quel Discorso quarto della Chioma di Berenice, in quelle parole che noi poco fa abbiamo tirato a una interpretazione personale; ma in una lettera alla Fagnani, dei giovani anni anch'essa, e in modo scopertissimo. Scriveva dunque il novembre del 1801 all'Antonietta: «Conserva le mie lettere... e massime questa ultima ch'io stesso quasi direi di averti scritta col sangue del mio cuore. Conservale: tu me le ridarai quando l'età, e il mio cuore logorato non sentiranno più le passioni ch'ora sento, e che allora avrò forse bisogno di dipingere». Noi non ripeteremo «Il mio cuore logorato». Se mai diremo qualcosa che è più vicino al cuore del Foscolo, quando scrisse le Grazie; parleremo d'una macerazione, d'un affinamento, d'una interna lima; e aggiungeremo la malinconia dei fuggiti anni, il bisogno di fermarne in qualche modo il ricordo, con un accoramento, un addolcimento, una segretezza ignoti prima al Foscolo. E avremo così restituito, approssimativamente, l'aria e il senso delle Grazie. Per sentirne poi appieno il valore, il richiamo all'Ortis, dove proprio quei motivi nacquero, sarà la via più sicura, e darà più ricchezza di prove. Perché, guardare alla qualità, al particolare accento di certe espressioni che sono in quelle pagine giovanili, è come aiutarsi a misurare il distacco tra i sonetti e le Grazie, e perché propriamente le Grazie, nel modo più dissimulato e arcano, sono un ritorno commosso e melodioso di certi motivi che prima trovammo e nei sonetti e nell'Ortis.
Gli ultimi divini versi, per esempio, del secondo inno, dove dipinge la danzatrice e la piange fuggita, fuggita come fosse un miracolo, e gli ha lasciato negli occhi un che di bianco, da quanto tempo avevano riposato nel cuore e acquistato senso! Quella è Teresa, Teresa già nel primo Ortis, sparente anche lei come un miracolo, con un che di bianco. Ancora. Voi sapete quante parole furibonde gridò in Foscolo l'amor di patria o, come egli diceva con espressione alfieriana, furore di patria. E di quell'amore o furore c'è nell'Ortis e nei primi sonetti, e nelle lettere, tutta una estesa linea di toni varianti. Nel Velo delle Grazie, dove nel destro lembo raffigura l'ospitalità, ecco che versi gli detta orinai l'anima straziata, senza più strazio:


Mesci, o Flora gentile, oro alle fila;
E il destro lembo istoriato esulti
D'un festante convito: il Genio in volta
Prime coroni agli esali le tazze.



Agli esuli, ha detto. Per far dimenticare, per addormire quella puntura della rimembranza che è amore di patria, e di patria lontana.
E quante volte il Foscolo pianse e cantò l'età fuggita, là giovinezza che non torna! La piansero in vero tutti i poeti. Ma in nessun altro luogo mai, come in questi versi del Foscolo, ne è rimasto il ricordo intatto, anzi direi il fiato odoroso; e non è, quel che io dico, se non la trasposizione del Foscolo stesso.


Mesci, odorosa Dea, rosee le fila;
E nel mezzo del velo ardita balli,
Canti fra 'l coro delle sue speranze
Giovinezza: percote a spessi tocchi
Antico un plettro il Tempo; e la danzante
Discende un clivo onde nessun risale.
Le Grazie a' piedi suoi destano fiori
A fiorir sue ghirlande: e quando il biondo
Crin t'abbandoni e perderai 'l tuo nome,
Vivran que' fiori, o Giovinezza, e 'intorno
L'urna fimerea spireranno odore.



In quel «biondo crin» è la luce, l'oro dell'età bella; in quei fiori, il rammemoramento, quasi un fiato, un respiro, che consola l'urna funerea; che è poi tutta la nostra vita, custode gelosa di quei ricordi e di quegli anni e di quei giorni.
Queste sono corde, voi vedete, che vibrano appena toccate. E così sono le parole del Foscolo in questi versi. Se vogliamo trovar qualcosa di compagno a questo tono d'ombra delle Grazie, qualcosa che aiuti a capire quest'arcano linguaggio, e che infatti lo preparò, bisogna cercare la Notizia intorno a Didimo chierico, dove appunto sono pagine grandi per quella raggiunta potenza di dissimulare il proprio dolore, quasi scherzando con una sorta di parlare pianissimo, e tutto dissimulato e lontano. «Viaggiando perpetuamente, desinava a tavola rotonda con persone di varie nazioni; e se taluno (com'oggi s'usa professavasi cosmopolita, egli si rizzava senz'altro». Credo di trovar la ragione di quest'ultime ardenti e fermissime espressioni di amor patrio in certe parole con cui Didimo stesso dà lode alle donne per quello che avevano saputo insegnargli di più raro. E parole cosi non era accaduto di scriverne prima nemmeno all'amorosissimo Foscolo. Dice dunque Didimo ch'egli «usava per lo più ne' crocchi delle donne, perch'ei le reputava più liberalmente dotate dalla natura di compassione e di pudore; due forze pacifiche le quali temprano tutte le altre forze guerriere del genere umano». E avevano temperato anche le forze guerriere di Ugo Foscolo, di questo Ugo Foscolo del tempo delle Grazie. Sì che si potrebbe quasi dire, che se Ortis scrisse i Sonetti, e Foscolo i Sepolcri, Didimo scrisse le Grazie, quel Didimo che, per usare le parole sue stesse, «teneva ormai chiuse le sue passioni; e quel poco che ne traspariva, pareva calore di fiamma lontana» .
Ma qualcos'altro infine rimane a dire e sul più generale tono delle Grazie, e sulla tecnica delle Grazie. Fu il De Sanctis a osservare la composizione «per strati» dell'Ortis. Cosa verissima. E l'osservò ancora il Fubini. Solo che nel corso del suo libro questa riscoperta non ha il peso che dovrebbe. Si direbbe che non ha quasi conseguenze. Foscolo, veramente, compose sempre «per strati». Che in materia mitologica lo portò ai famosi trapassi, a volte arbitrari, a volte delicatamente segreti, secondo che l'arte sua crebbe e maturò. Ma che nei punti che più lo toccavano lo fece tutto muovere in profondo, e ricercare e trovare armonie d'una dolcezza ignota. Nell'un caso non era mai sazio di correggere e rifinire e aggiungere; nell'altro l'impazienza era tutta di scoprir parole che con un minimo d'impegno, e nei modi più piani, rinnovassero il miracolo dei poeti grandi classici nei momenti grandi. Così, certi frammenti, ch'egli compose per improvviso estro e coree per attrito quando lavorava alle Considerazioni della Chioma di Berenice, rimasero staccati e scissi, anche dove si studiò di proseguirli, dissimulando il più possibile le connessure. Ma gli altri, quelli intimi, quelli più suoi, quelli che portò nell'anima per anni, e arricchì di tutta la sua esperienza di dolore e d'arte, paiono sgorgati facili, pure con un'aura sì preziosa, e quasi senza fatica. E qui, proprio, la poesia ebbe, come ho detto, ufficio di catarsi, e toccò le altezze d'una musica che direi simbolica. Qui la composizione si fa quanto mai semplice, con un sapore nostalgico, teneramente commosso, anzi pudicamente commosso, quasi come un cantar dell'anima.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis