CRITICA: UGO FOSCOLO

 VITA E POESIA DEL FOSCOLO NEL PERIODO FIORENTINO 1812-13

 AUTORE: Walter Binni    TRATTO DA: Carducci e altri saggi

 

Nello stesso inverno 1812-13, in cui sostanzialmente si concludeva il lavoro sterniano e la Ricciarda, il Foscolo, mentre rafforzava, dopo lo sfogo della tragedia e il ritratto didimeo, la propria aspirazione ad un'armonia più sicura e luminosa, poteva aprire di nuovo e più chiaramente il suo animo all'eco delle passioni lontane e vive, alle notizie da Milano delle sventure, della scomparsa di giovani amici e di vecchi compagni d'arme nella campagna di Russia, dei pericoli dell'Italia minacciata dalla guerra. E quegli echi di una realtà dolorosa e a cui non poteva essere indifferente e che gli ricordavano i suoi amori, le sue amicizie, i suoi impegni e i suoi ideali politici, i suoi rapporti di uomo vivo nella storia del proprio tempo, vengono a rifluire in lui sollecitanti, ma non turbatori, proprio quando egli riprende con nuova forza l'elaborazione delle Grazie in quell'inizio di primavera del '13 in cui era salito a vivere a Bellosguardo in una pace serena ed armonica sottraendo il suo lavoro ad ogni pur minimo disturbo, regolando a suo piacere le essenziali occasioni socievoli, i rari affetti (la Quirina, il salotto del Lungarno) che lo riscaldavano in un presente privo di ansie e di crucci immediati.

Condizioni biografiche ed esigenze intime della poesia si aiutano in un momento di suprema energia creativa, passioni e serenità si equilibrano in un rapporto singolarmente propizio. In quell'aprile indimenticabile per lui («né il vago rito - oblieremo di Firenze ai poggi, quando ritorni April» dirà nel finale delle Grazie) e poi sino al luglio, in quella zona di serenità e di vitalità pura e profonda, in cui il respiro della poesia si confonde con il respiro della vita del poeta e del paesaggio («nelle convalli fra gli aerei poggi», fra le «quete ombre di mille giovìnetti cipressi»), in quella disposizione dell'armonia che vive in ogni ora della sua giornata, in quel cerchio purificatore sensibile e resistente come il velo stesso delle Grazie, tornano da lontano e lo tendono senza spezzarlo, le passioni e gli echi della dolorosa realtà. E le voci del «passionato» contemporaneo penetrano nella perfezione del «mirabile» mitico e tutto l'animo foscoliano esprime le sue note più profonde e universali. Più armonia e più tensione, più purezza e più complessità, più altezza di distacco poetico e più impegno nella interpretazione della vita umana.
Ché in quell'accordo supremo di tensione e di serenità, riaffiora, privo di ogni polemica eloquente, di ogni enfasi violenta, tutto il dramma degli uomini e della storia, e una potente elegia dolente e luminosa, senza la minima traccia di languore, forma un essenziale chiaroscuro così foscoliano con l'aspirazione all'armonia, con il sentimento di un'umanità superiore libera e fraterna, con il Iperuranio, in cui sono «senza brina i fiori e verdi i prati, ed aureo il giorno - sempre stellate e limpide le notti» ma che pure idealmente è un'esperienza dell'animo che poi con rinnovata forza torna ad immergersi nella vita minacciata dalle impure passioni, dagli atavici istinti ferini e fratricidi.

Al di là dell'Ajace, in cui la preghiera di Tecmessa di far crescere il figlio non «disumano», libero di eredità di odio e di colpe, l'eroe della tragedia rispondeva ancora con la soluzione suicida dell'Ortis («o uomini infelici, nati ad amarvi e a trucidarvi, addio!»), il Foscolo delle Grazie raggiunge un punto più alto e conclusivo per il suo animo, e così importante nella storia di quel tragico momento della civiltà (fra crollo napoleonico, ritorno della reazione e religione incipiente della libertà e della patria: egli poeta ora di tutte le patrie offese ed invase e non solo dell'Italia «afflitta di regali ire straniere»). Non con la morte sdegnosa ma con l'esercizio intimo di una vita più pura e superiore egli risponde all'orrore della «fraterna strage» e lo stesso compianto del «giovinetti per la patria estinti», dei «principi» quando sventura di alloro li «corona», dei condottieri in lotta per la difesa e non per l'offesa (in contrasto con la ferma, alta condanna per «l'avido re» che «ad innocenti popoli appresta ceppi e lutto ai suoi» o dei violenti che «alla divina libertà dànno impuri ostie di sangue», è come l'alba malinconica e lieta di un'umanità ingentilita dalle grazie, viva di affetti intensi e disacerbati come quelli dipinti nel velo tessuto nell'Iperuranio.
Ugualmente l'elegia degli uomini «dopo brevi dì sacri alla morte», mentre è componente essenziale di un inno all'armonia, tanto più alta perché consapevole del suo difficile possesso e della sua delicata fragilità, è a sua volta superiormente rasserenata non da orgogliose o ultraterrene speranze, ma proprio dall'esercizio attivo dei sentimenti della compassione, della ospitalità, del casto amore, della fruizione della poesia, delle arti, dell'armonia che vive nell'universo come la stessa coscienza dolorosa dei suoi possibili limiti e per la quale gli uomini son resi «men tremanti al grido che li promette a morte»; e «dalla fonte del duol sorge il conforto», dal seno stesso del dolore nasce la gioia. Una gioia profonda e malinconica, fiduciosa e consapevole, che il Foscolo nutrì nel suo animo in quei mesi supremi della sua vita poetica ed espresse in altissimi miti perfetti e vibranti, luminosi ed intensi, nitidi e mobili e segreti come l'armonia e la musica, alle cui condizioni l'aspirazione delle Grazie meglio corrisponde superando, nei suoi momenti più veri, ogni possibile paragone con colorismo sensuale, con una ferinezza di bassorilievo, e raggiungendo il segno di quella arcana armoniosa melodia pittrice, viva davvero nella musica della vergine romita o nel inisterioso alitare della fiamma di Vesta.

In quei mesi di eccezionale fervore creativo e di equilibrio fra tensione e serenità, mentre l'inno iniziale si articolava in un carme in tre inni e il disegno se ne allargava continuamente, il Foscolo operava un approfondimento del suo iniziale fantasma poetico. E se sarebbe assurdo precisare in termini assoluti un vero e proprio contrasto fra le Grazie iniziate nel 1812 e il lavoro del 1813 che sulla via delle prime si svolge e ne accetta le prime stesure e ne utilizza schemi e intenzioni, a me sembra fondamentale quella constatazione, che implica una correzione intima - anche se non sempre felicemente attuata e complicata rischiosamente dalla volontà di una completezza particolareggiata degli elementi più esternamente didascalici del carme neoclassico - dei pericoli insiti in una inclinazione più facile ed elegante, in un significato più immediato del rifugio e dell'evasione dal «mare furente» di cui parlava nella lettera citata all'Araldi, in un vagheggiamento più compiaciuto del vago, dell'amabile, del grazioso, di quell'armonia che nel successivo e più intenso lavoro della primavera venne meglio assicurata nei suoi valori arcani, nella sua luce profonda. Approfondimento e ricerca di toni sempre più musicali e intimi che (pur nella presenza di episodi e frammenti meno intensi e più letterari e didascalici, specie nel II inno) io penso si potranno sostanzialmente precisare nello svolgimento dei cicli elaborativi del carme, fissati, fra l'inizio della primavera e il luglio, dall'introduzione che Francesco Pagliai ha premesso al suo anticipo del testo critico delle Grazie, ormai vicino a completa attuazione e che, ad ogni modo, confermerà risolutamente la quasi totale fiorentinità delle Grazie e l'eccezionale fervore creativo di quella prìinavera di Bellosguardo.

Si potrà anche dire che all'arricchimento e approfondimento corrispose una maggiore difficoltà di concludere il poema, che le nuove occasioni poetiche, mentre sollecitavano il poeta ad ampliare il suo carme e a dargli un valore tanto più universale e superiore a quello dell'inno del rito delle tre sacerdotesse delle arti, e dell'omaggio a Canova, lo inducevano ad un lavoro tormentoso di accomodamenti e di spostamenti per adattare i nuovi nuclei lirici e le nuove elaborazioni di quelli precedenti ad uno schema sempre più complesso. Ma è chiaro comunque che la poesia foscoliana in quel periodo raggiunse le sue punte più intense e più profonde proprio perché i motivi più segreti, le voci più vere della sua anima trovano in quei mesi un felice accordo - e al culmine di un lavoro artistico che unifica tutto il periodo fiorentino - fra tensione e serenità, agevolato dalla singolare condizione del Foscolo, nella calma di un presente confortato di suggestioni e di affetti tranquilli e nella tensione eccitante, ma non agitante di passioni e di echi della realtà contemporanea mediati e illimpiditi in quel cerchio perfetto e catartico.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis