Galileo non fu un gran lettore e studioso di prosatori, ma di
poeti Aveva a mente, come ci racconta il Viviani, gran parte
di Virgilio Ovidio, Orazio, quasi tutto il Petrarca, tutte le
rime del Berni, e poco meno che tutto il poema di Lodovico
Ariosto. Dei prosatori ammirava e in parte sapeva anche a
memoria, soltanto Seneca, che è il più sciolto de latini. Non
fu uomo di estese, bensì di poche e concentrate letture. Da
giovinetto, e quasi da solo, aveva studiato gli autori latini
di prim'ordine, la lingua greca, la musica e il disegno. Era
tutto quello che poteva servire a quadrare un ingegno e ad
affinare uno spirito: ma non il preludio, e nemmeno - forse -
la preparazione, alla sua carriera di scrittore in volgare.
Questa cominciò, infatti come per vocazione quando egli era
ormai studioso fatto.
La professione a cui venne avviato, la medicina, e quella che
più tardi scelse per suo genio, le matematiche, usavano il
latino scolastico. Questo era pure il linguaggio della
filosofia peripatetica in voga, insegnata nello studio dove
egli fu scolaro. Era un latino di buona fattura e di corretta
tradizione, quello che l'umanesimo e il rinascimento avevano
ripulito e codificato, che aveva vizi dovuti alla scuola e
all'indirizzo generale degli studi, ma non difetti veri e
propri di lingua o di stile. La lingua era anzi purgata,
sebbene povera e un po' stereotipa; lo stile, non soggetto a
norme rigide, dignitoso ma senza pompa. L'una e l'altro
potevano risentire di una certa uniformità, dovuta
all'uniformità dominante nella cultura ufficiale del tempo:
ma, data quella cultura, era naturale anche quella lingua poco
varia e quello stile di un tono solo.
I vizi di scuola stavano nello schematismo, nell'esercizio a
vuoto del metodo deduttivo, campo aperto di tutte le petizioni
di principio e dei paralogismi. Il più preciso riflesso di
tutto ciò nella lingua e nello stile non poteva essere che la
genericità; la quale però, per chi si serviva ti di quel
latino, si risolveva in una più favorevole condizione di
facilità e di scioltezza. Dove le difficoltà mancano, dove non
vi sono cose veramente nuove da dire e si possiede un certo
esercizio nel dire le vecchie, l'eloquio viene facile,
spedito, naturale e uguale: ma senza arte...
Persino in questa lingua dunque, dove per tradizione sempre
più in quel secolo rinsaldata gli si imponeva un certo
rispetto dei modelli, Galileo lasciò da parte ogni modello e
si mosse con la massima libertà, facendo servire la parola al
pensiero, non questo a quella; altrettanto incurante dello
stile come modo preconcetto ed esemplare di esprimersi, quanto
era fertile e copioso il suo ingegno e pronto il suo
intelletto.
La cosa si ripete tale e quale quando Galileo scrive in
volgare. Una volta sola, e per l'appunto nel suo primo scritto
scientifico in lingua materna, ebbe forse una tentazione
retorica, quando, preludendo alla Bilancetta, si compiacque di
queste sonanti inversioni: « a chi di leggere gli antichi
scrittori cura si prende »; « il modo che sì grand'uomo usar
dovesse ». Ma fu una tentazione più che momentanea e
passeggiera. Presto, anche in quella introduzione, lo stile si
spiana, e sebbene il primo periodo occupi da solo un giro di
mezza pagina, la lunghezza non è più aggravata dalla
pesantezza di simili suoni, e tutto il seguito viene fluido,
discorsivo, naturale, parlato: come sarà poi sempre la prosa
di Galileo, lontana, in ciò le mille miglia dall'andamento
della grande prosa toscana del primo Cinquecento, che è
sempre, anche negli scrittori più immediati - come per
esempio, Machiavelli - una prosa di fattura elaborata.
Toscana, anzi fiorentina, è senza dubbio la lingua di Galileo:
voglio dire la sua proprietà e sicurezza di linguaggio, per la
quale il Del Lungo lo chiamava, insieme appunto col
Machiavelli, scrittore « idiomatico ». Ma, tolto questo senso
ingenito delle proprietà e della purezza, che da sé solo non
basta a formare la caratteristica di uno scrittore come non è
sufficiente a rendere animato uno stile, non vi è null'altro
di comune tra Galileo e la restante prosa del Rinascimento.
Non è possibile cioè non solo ritrovare nella prosa di Galileo
influssi diretti di alcuno degli scrittori di quell'epoca, ma
neppure additare un esempio solo di comunanza di gusto e di
educazione letteraria con essi. O dirò meglio, che mentre in
essi il tirocinio è evidente, ed evidente è pure il modello
ideale di prosa a cui tendono, e si avvertono sempre l'una e
l'altra cosa, in Galileo l'una e l'altra mancano e non si
avvertono neppure quando egli raggiunge, al pari di essi, una
forma decorosa e nobile. E la ragione c'è. Non basta leggere e
gustare i classici per tradirne dappertutto la scuola.
L'insegnamento loro, che non è mai mancato nella nostra
tradizione letteraria, ha tuttavia dato di volta in volta
frutti diversi. Fu ben detto che « la storia generale della
nostra prosa è anzitutto storia di classicismo e storia di
retorica » e che l'uno e l'altra si rivelano più e meno
secondo il gusto e l'aria dei tempi, la nativa tempra degli
scrittori e l'esercizio loro. Galileo, vissuto al limite fra
un periodo di trionfante classicismo e un periodo di
trionfante retorica, si tenne del tutto alieno dalla seconda e
fece del primo una espressione interamente personale.
La prosa di Galileo è il riflesso della sua anima: fervida, e
cionondimeno padrona di sé; entusiastica, come è stato detto,
e cionondimeno grave. Non vi è prosatore che come lui sappia
contenere, sotto il dominio della riflessione, la foga e il
fremito della passione, e che con altrettanta sicurezza
raffreni e temperi tutti gli scatti dell'ardore.
Di qui il tono prevalentemente calmo dei suoi scritti, di qui
il giro prevalentemente largo della sua forma: due cose che
restano impresse e che tuttavia non sono né il metro né il
senso unico della sua pagina. Voglio dire che Galileo è uno
scrittore che pagina per pagina si presenta vario, e quindi
anche vivace e rapido, e tuttavia nell'insieme torna quasi
solamente alto e solenne.
Persino i suoi scritti polemici si risolvono in un'ampia più
che agitata esaltazione della sua figura di scienziato, e
trasfigurano in ritratto il suo ideale di sapienza, più che
registrare e descrivere le battute e le mosse di un contrasto.
Così, in questa prosa i particolari contano dappertutto meno
che l'insieme, al contrario di quello che accade negli
scrittori più letterati, dove i particolari pesano e vengono
in luce punto per punto come un riflesso o uno spiccato
accento di motivi dominanti. In Galileo non la parola, né la
frase o la battuta, segnano ciò, ma il periodo, e più del
periodo la pagina, più della pagina l'intero sviluppo di
un'argomentazione.
E questo avviene non solo per la forza di concatenazione
logica di cui è dotata la sua mente, ma per un vero e proprio
magistero stilistico dovuto all'ampiezza di respiro di cui è
capace la sua anima. Qui si rivela l'originalità assoluta di
Galileo come scrittore, che, pur avendo un intelletto
potentemente costruttivo e logico, è tuttavia alienissimo dal
costruire i suoi periodi sui nudi suggerimenti di esso, cioè
con forti e rigide giunture sintattiche, e vi infonde un
andamento così sciolto che fa delle sue prose di argomento più
arduo un capolavoro di lucidezza e di duttilità. Egli ha una
sintassi altrettanto complessa del Guicciardini, ma nel
Guicciardini il lettore l'avverte, in lui non se ne accorge.
Galileo ha periodi che, nelle parti espositive, vanno quasi
sempre oltre le venti righe: alcuni si avvicinano alle trenta.
Si leggono come i più agevoli che mai fossero scritti. A volte
essi sono concatenati con altri ed altri ancora a saldare il
giro di una intera dimostrazione. Neppure questo pesa, neppure
qui si para innanzi al lettore nulla di architettonico. Un
periodo di simile ampiezza in Guicciardini riesce poderoso, in
Galileo è spazioso. L'uno e l'altro hanno un procedimento
convergente verso un punto solo, ma con quale diversa
struttura! Questo punto è il vero rettor di tutti i pesi ed
occupa il centro nel periodo guicciardiniano; sta invece nella
conclusione del periodo galileiano, e non regge, ma esso è
retto da tutto quel che gli è subordinato. Per questo abbiamo
lì un edificio sintattico e l'impressione della compattezza e
della massa, e qui, nonostante tutto - cioè nonostante la
stessa sintassi, nonostante le deduzioni matematiche,
nonostante la concatenazione logica - nessuna sensazione del
genere, ma, piuttosto, l'impressione della vastità e della
libera immensità. |