CRITICA: GALILEO GALILEI

 LA PROSA DI GALILEO

 AUTORE: Raffaele Spongaro    TRATTO DA: La prosa di Galileo

 

Galileo non fu un gran lettore e studioso di prosatori, ma di poeti Aveva a mente, come ci racconta il Viviani, gran parte di Virgilio Ovidio, Orazio, quasi tutto il Petrarca, tutte le rime del Berni, e poco meno che tutto il poema di Lodovico Ariosto. Dei prosatori ammirava e in parte sapeva anche a memoria, soltanto Seneca, che è il più sciolto de latini. Non fu uomo di estese, bensì di poche e concentrate letture. Da giovinetto, e quasi da solo, aveva studiato gli autori latini di prim'ordine, la lingua greca, la musica e il disegno. Era tutto quello che poteva servire a quadrare un ingegno e ad affinare uno spirito: ma non il preludio, e nemmeno - forse - la preparazione, alla sua carriera di scrittore in volgare. Questa cominciò, infatti come per vocazione quando egli era ormai studioso fatto.
La professione a cui venne avviato, la medicina, e quella che più tardi scelse per suo genio, le matematiche, usavano il latino scolastico. Questo era pure il linguaggio della filosofia peripatetica in voga, insegnata nello studio dove egli fu scolaro. Era un latino di buona fattura e di corretta tradizione, quello che l'umanesimo e il rinascimento avevano ripulito e codificato, che aveva vizi dovuti alla scuola e all'indirizzo generale degli studi, ma non difetti veri e propri di lingua o di stile. La lingua era anzi purgata, sebbene povera e un po' stereotipa; lo stile, non soggetto a norme rigide, dignitoso ma senza pompa. L'una e l'altro potevano risentire di una certa uniformità, dovuta all'uniformità dominante nella cultura ufficiale del tempo: ma, data quella cultura, era naturale anche quella lingua poco varia e quello stile di un tono solo.

I vizi di scuola stavano nello schematismo, nell'esercizio a vuoto del metodo deduttivo, campo aperto di tutte le petizioni di principio e dei paralogismi. Il più preciso riflesso di tutto ciò nella lingua e nello stile non poteva essere che la genericità; la quale però, per chi si serviva ti di quel latino, si risolveva in una più favorevole condizione di facilità e di scioltezza. Dove le difficoltà mancano, dove non vi sono cose veramente nuove da dire e si possiede un certo esercizio nel dire le vecchie, l'eloquio viene facile, spedito, naturale e uguale: ma senza arte...

Persino in questa lingua dunque, dove per tradizione sempre più in quel secolo rinsaldata gli si imponeva un certo rispetto dei modelli, Galileo lasciò da parte ogni modello e si mosse con la massima libertà, facendo servire la parola al pensiero, non questo a quella; altrettanto incurante dello stile come modo preconcetto ed esemplare di esprimersi, quanto era fertile e copioso il suo ingegno e pronto il suo intelletto.
La cosa si ripete tale e quale quando Galileo scrive in volgare. Una volta sola, e per l'appunto nel suo primo scritto scientifico in lingua materna, ebbe forse una tentazione retorica, quando, preludendo alla Bilancetta, si compiacque di queste sonanti inversioni: « a chi di leggere gli antichi scrittori cura si prende »; « il modo che sì grand'uomo usar dovesse ». Ma fu una tentazione più che momentanea e passeggiera. Presto, anche in quella introduzione, lo stile si spiana, e sebbene il primo periodo occupi da solo un giro di mezza pagina, la lunghezza non è più aggravata dalla pesantezza di simili suoni, e tutto il seguito viene fluido, discorsivo, naturale, parlato: come sarà poi sempre la prosa di Galileo, lontana, in ciò le mille miglia dall'andamento della grande prosa toscana del primo Cinquecento, che è sempre, anche negli scrittori più immediati - come per esempio, Machiavelli - una prosa di fattura elaborata.
Toscana, anzi fiorentina, è senza dubbio la lingua di Galileo: voglio dire la sua proprietà e sicurezza di linguaggio, per la quale il Del Lungo lo chiamava, insieme appunto col Machiavelli, scrittore « idiomatico ». Ma, tolto questo senso ingenito delle proprietà e della purezza, che da sé solo non basta a formare la caratteristica di uno scrittore come non è sufficiente a rendere animato uno stile, non vi è null'altro di comune tra Galileo e la restante prosa del Rinascimento. Non è possibile cioè non solo ritrovare nella prosa di Galileo influssi diretti di alcuno degli scrittori di quell'epoca, ma neppure additare un esempio solo di comunanza di gusto e di educazione letteraria con essi. O dirò meglio, che mentre in essi il tirocinio è evidente, ed evidente è pure il modello ideale di prosa a cui tendono, e si avvertono sempre l'una e l'altra cosa, in Galileo l'una e l'altra mancano e non si avvertono neppure quando egli raggiunge, al pari di essi, una forma decorosa e nobile. E la ragione c'è. Non basta leggere e gustare i classici per tradirne dappertutto la scuola. L'insegnamento loro, che non è mai mancato nella nostra tradizione letteraria, ha tuttavia dato di volta in volta frutti diversi. Fu ben detto che « la storia generale della nostra prosa è anzitutto storia di classicismo e storia di retorica » e che l'uno e l'altra si rivelano più e meno secondo il gusto e l'aria dei tempi, la nativa tempra degli scrittori e l'esercizio loro. Galileo, vissuto al limite fra un periodo di trionfante classicismo e un periodo di trionfante retorica, si tenne del tutto alieno dalla seconda e fece del primo una espressione interamente personale.

La prosa di Galileo è il riflesso della sua anima: fervida, e cionondimeno padrona di sé; entusiastica, come è stato detto, e cionondimeno grave. Non vi è prosatore che come lui sappia contenere, sotto il dominio della riflessione, la foga e il fremito della passione, e che con altrettanta sicurezza raffreni e temperi tutti gli scatti dell'ardore.
Di qui il tono prevalentemente calmo dei suoi scritti, di qui il giro prevalentemente largo della sua forma: due cose che restano impresse e che tuttavia non sono né il metro né il senso unico della sua pagina. Voglio dire che Galileo è uno scrittore che pagina per pagina si presenta vario, e quindi anche vivace e rapido, e tuttavia nell'insieme torna quasi solamente alto e solenne.
Persino i suoi scritti polemici si risolvono in un'ampia più che agitata esaltazione della sua figura di scienziato, e trasfigurano in ritratto il suo ideale di sapienza, più che registrare e descrivere le battute e le mosse di un contrasto. Così, in questa prosa i particolari contano dappertutto meno che l'insieme, al contrario di quello che accade negli scrittori più letterati, dove i particolari pesano e vengono in luce punto per punto come un riflesso o uno spiccato accento di motivi dominanti. In Galileo non la parola, né la frase o la battuta, segnano ciò, ma il periodo, e più del periodo la pagina, più della pagina l'intero sviluppo di un'argomentazione.
E questo avviene non solo per la forza di concatenazione logica di cui è dotata la sua mente, ma per un vero e proprio magistero stilistico dovuto all'ampiezza di respiro di cui è capace la sua anima. Qui si rivela l'originalità assoluta di Galileo come scrittore, che, pur avendo un intelletto potentemente costruttivo e logico, è tuttavia alienissimo dal costruire i suoi periodi sui nudi suggerimenti di esso, cioè con forti e rigide giunture sintattiche, e vi infonde un andamento così sciolto che fa delle sue prose di argomento più arduo un capolavoro di lucidezza e di duttilità. Egli ha una sintassi altrettanto complessa del Guicciardini, ma nel Guicciardini il lettore l'avverte, in lui non se ne accorge. Galileo ha periodi che, nelle parti espositive, vanno quasi sempre oltre le venti righe: alcuni si avvicinano alle trenta. Si leggono come i più agevoli che mai fossero scritti. A volte essi sono concatenati con altri ed altri ancora a saldare il giro di una intera dimostrazione. Neppure questo pesa, neppure qui si para innanzi al lettore nulla di architettonico. Un periodo di simile ampiezza in Guicciardini riesce poderoso, in Galileo è spazioso. L'uno e l'altro hanno un procedimento convergente verso un punto solo, ma con quale diversa struttura! Questo punto è il vero rettor di tutti i pesi ed occupa il centro nel periodo guicciardiniano; sta invece nella conclusione del periodo galileiano, e non regge, ma esso è retto da tutto quel che gli è subordinato. Per questo abbiamo lì un edificio sintattico e l'impressione della compattezza e della massa, e qui, nonostante tutto - cioè nonostante la stessa sintassi, nonostante le deduzioni matematiche, nonostante la concatenazione logica - nessuna sensazione del genere, ma, piuttosto, l'impressione della vastità e della libera immensità.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis