Dobbiamo concluderne che Galileo era aristotelico? A questa
impegnativa domanda non si può rispondere, a mio parere, con
un semplice « si » o con un semplice « no ». Occorre dare una
risposta più complessa.
Innanzi tutto mi sembra che l'esame compiuto, con tanta
serenità, dal medesimo Galileo circa i rapporti esistenti fra
la propria posizione e quella di Aristotele, sia largamente
sufficiente a dimostrarci che esistono senza alcun dubbio nel
pensiero galileiano profonde tracce di aristotelismo. E poiché
la più importante fra esse consiste nell'anteporre
l'esperienza al discorso, ciò mi pare bastevole ad escludere
l'interpretazione in senso puramente platonico della scienza
galileiana.
Vero è, tuttavia, che l'appello galileiano all'esperienza va
assai oltre l'analogo appello di Aristotele, perché Galileo sa
molto bene che l'esperienza - per avere valore probativo -
deve essere sapientemente interrogata; spesso infatti egli
dichiara... che « il senso, nella prima apprensione, può
errare ». Come si deve dunque procedere per correggerlo In
quest'opera di correzione Galileo non è più puramente
aristotelico, perché fa appello, oltreché alla logica, anche
alla matematica, vuoi come grande elaboratrice di discorsi
corretti, vuoi come guida ad un'osservazione più precisa della
natura (osservazione quantitativa e non puramente
qualitativa), vuoi ancora come suggeritrice di dispositivi
tecnici (o modelli) per il controllo delle ipotesi teoriche.
Galileo ritiene tuttavia - non importa se a torto o a ragione
- che il suo « andar oltre » Aristotele, non sia « andar
contro » Aristotele; e se, parecchie volte, si richiama a
Platone, non lo fa certo per ritornare a un qualsiasi tipo di
« subordinazione dell'esperienza al discorso », bensì per dar
vigore alla propria polemica contro gli aristotelici (contro i
« falsi aristotelici »), e per sottolineare l'importanza
attribuita alla matematica come integrazione della logica (si
ricordino le parole di Simplicio..., « veramente comincio a
comprendere che la logica, benché strumento potentissimo per
regolare il nostro discorso, non arriva... all'acutezza della
geometria »).
Che l'importanza strumentale, attribuita da Galileo alla
matematica, possa venire interpretata come l'adesione a un
matematismo metafisico, mi sembra da escludere: in primo luogo
perché egli - come abbiamo detto or ora - inserisce la
matematica nella logica, o, per essere più esatti, nel grande
processo di rettificazione del linguaggio che egli ritiene
indispensabile allo sviluppo della ricerca scientifica (e che
deve, secondo lui, consistere non solo nell'uso dei
ragionamenti veramente corretti, ma anche nell'eliminazione
dal linguaggio scientifico di subdoli ed equivoci riferimenti
a concetti « metafisici », nel senso di « non operativi »); in
secondo luogo, perché egli considera quasi sempre la
matematica come disciplina connessa alla tecnica e non come «
matematica pura » nel senso moderno di questo termine (proprio
perciò le attribuisce la funzione di avvicinarci al mondo
naturale, non di avvicinarci a un mondo di entità ideali
trascendenti). È bensì vero che Galileo indulge talvolta su
espressioni che si prestano a interpretazioni platonizzanti -
così, ad esempio, nella celebre similitudine della natura come
libro scritto in caratteri matematici - ma in questi casi è
evidente il fine puramente polemico delle espressioni stesse.
Ricordiamo, per rimanere nell'esempio ora citato, che la
similitudine anzidetta venne ideata nel Saggiatore per
contrapporre il mondo veritiero degli scienziati a quello
fantastico dei poeti. E interessante osservare che la medesima
similitudine ritorna in una lettera al Liceti (del gennaio
1641) ; questa volta il libro della natura non è più
contrapposto a quelli di fantasia scritti dai poeti, ma ai
libri di Aristotele. Malgrado la diversità del termine di
paragone, l'intento apertamente confessato - nell'un caso come
nell'altro - è quello di combattere il principio di autorità,
non di affermare una realtà geometrica che stia al di sotto
della parvenza fenomenica: « concluderò solamente, che havendo
V. S. eccl.ma per suo scopo il voler mantenere per vero ogni
detto di Aristotele, e sostenere che le esperienze non
mostrino cosa alcuna che ad Aristotele sia stata incognita,
ella fa quello che molti altri Peripatetici insieme forse far
non potrebbero; e quando la filosofia fosse quella che nei
libri di Aristotele è contenuta, V. S. per mio parere sarebbe
il maggior filosofo del mondo, tanto mi par che ella habbia
alle mani et in pronto tutti i luoghi di quello. Ma io
veramente stimo, il libro della filosofia esser quello che
perpetuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi; ma perché è
scritto in caratteri diversi da quelli del nostro alfabeto,
non può esser da tutti letto: e sono i caratteri di tal libro
triangoli, quadrati, cerchi, sfere, coni, piramidi et altre
figure matematiche, attissime per tal lettura ». Le parole
iniziali del brano «havendo V. S. per suo scopo... sostenere
che le esperienze non mostrino, ecc.» provano apertamente che
l'appello all'esperienza e la polemica contro il principio di
autorità sono tutt'uno per Galileo; e anche questo può servire
di conferma alla tesi sopra asserita, circa l'irriducibilità
del pensiero galileiano ad una forma più o meno aperta di
platonismo.
Proprio il tema ora accennato, della polemica contro il
principio di autorità, ci porta a toccare uno degli argomenti
a mio parere più decisivi per la valutazione della « filosofia
» di Galileo. Che egli abbia insistito a lungo, in tutte le
sue opere, sopra la polemica contro l'anzidetto principio, è
fuori dubbio; assai meno sicuro mi sembra tuttavia, che egli
abbia capito a fondo il complesso significato di tale
polemica.
Perché mai gli aristotelici del Cinque e Seicento compivano
tanti sforzi per legare la loro scienza al nome di Aristotele?
Questa domanda, con tutta probabilità, Galileo non se 1'è
formulata, e comunque non le ha dato alcuna risposta. Noi
sappiamo però, che gli sforzi anzidetti avevano un significato
filosofico ben preciso: essi erano rivolti a trovare un nesso
fra le indagini scientifiche e un grande sistema metafisico,
nesso che - secondo gli aristotelici - era indispensabile per
dare unità, e quindi serietà, a tali indagini. In altri
termini: senza un nesso siffatto, queste indagini - in via di
continuo sviluppo - rischiavano, secondo .essi, di frantumarsi
in mille rivoli, di polverizzarsi, di ridursi a pure ricerche
tecniche, di perdere insomma il loro valore « teoretico ». Il
sottinteso di questa posizione era: la scienza non può
reggersi da sola, non può avere alcuna seria consistenza, se
non vien garantita da una metafisica.
Ciò detto, risulta fin troppo chiaro il pericolo che essi
scorgevano nel procedere galileiano; poco importa loro che
esso si attenesse o no ai canoni metodologici di Aristotele:
la cosa grave era, ai loro occhi, la pretesa della nuova
scienza di rompere ogni rapporto di subordinazione nei
confronti di un'antica e ben solida metafisica. E che fosse
una rottura estremamente profonda, essi lo comprendevano
meglio dei gesuiti; questi infatti speravano di poter trovare,
con opportuni artifici, una sorta di compromesso tra la nuova
scienza e l'antica metafisica; gli aristotelici, invece, non
nutrivano alcuna illusione in proposito. Né, a voler essere
sinceri, possiamo sostenere che la loro diagnosi fosse
inesatta : la nascita della nuova scienza rappresentava
davvero un colpo gravissimo inferto alla metafisica, un salto
rivoluzionario che non tollerava compromessi. Che cosa ne
sarebbe nato? Dove avrebbe finito per condurre il pericoloso
moltiplicarsi delle ricerche particolari, condotto al di fuori
di qualunque sistema.
Questa preoccupazione degli aristotelici era così seria, che -
all'incirca nei medesimi anni - fu condivisa, sia pure sotto
una visuale diversa, anche da un pensatore della statura di
Cartesio, il quale però - convinto che la scienza moderna non
poteva ormai venire negata non persisterà più, come i seguaci
di Aristotele, in una sterile lotta contro di essa, ma andrà
alla ricerca di una nuova metafisica, capace di offrire alla
nascente scienza un nuovo fondamento filosofico, altrettanto
solido quanto era stato quello offerto dall'aristotelismo alle
vecchie indagini pre-galileiane.
Considerato da questo punto di vista, è chiaro che Galileo non
fu un aristotelico. Ma non fu neanche un platonico; anzi,
possiamo dire qualcosa di più; non fu un vero filosofo. Egli
non comprese la portata filosofica della rivoluzione
scientifica da lui stesso propugnata; non volle preoccuparsi
delle conseguenze che ne sarebbero, prima o poi, derivate.
L'unica sua vera preoccupazione fu di aiutare in tutti i modi
lo sviluppo della nuova scienza: di aprirle coraggiosamente la
strada, superando tutti gli ostacoli che potevano provenirle,
vuoi dalla metafisica, vuoi dalla teologia.
Di qui il suo grande interesse metodologico; di qui le sue
tenaci lotte per sgombrare i dibattiti scientifici da tutto
ciò che poteva ostacolare il libero sviluppo dell'indagine; di
qui ancora la sua mancanza di qualunque ricerca, veramente
seria, rivolta a scoprire i presupposti filosofici dei nuovi
metodi necessari alla scienza. Una cosa sola era per lui
importante: che questi nuovi metodi risultassero veramente
efficienti, onde la scienza, avvalendosi di essi, potesse
compiere progressi sempre più rapidi...
Io ritengo che Galileo non ebbe in realtà una propria
filosofia, consapevolmente elaborata.
Né si deve credere che in quanto ora detto si nasconda un
qualsiasi tentativo di svalutazione. Se Galileo non fu un
filosofo, nel vero senso della parola, egli occupa ciò
malgrado un posto di primissimo piano nella storia del
pensiero filosofico, per la sua coraggiosa azione di rottura,
per la sua vittoriosa lotta a favore dell'autonomia della
ricerca scientifica, per la fiducia nella ragione che egli
seppe infondere tra larghissime schiere dei suoi
contemporanei. Nell'atto stesso in cui riconosco che egli non
può essere elevato a simbolo di questo o quel sistema
filosofico particolare, mi sembra doveroso riconoscere che
egli è l'uomo più atto a simboleggiare l'era moderna; anzi, è
qualcosa di più: ne è l'iniziatore; ne è il tenace,
invincibile animatore. |