CRITICA: GALILEO GALILEI

 LA POSIZIONE STORICA DEL PENSIERO DI GALILEO

 AUTORE: Ludovico Geymonat    TRATTO DA: Galileo Galilei

 

Dobbiamo concluderne che Galileo era aristotelico? A questa impegnativa domanda non si può rispondere, a mio parere, con un semplice « si » o con un semplice « no ». Occorre dare una risposta più complessa.
Innanzi tutto mi sembra che l'esame compiuto, con tanta serenità, dal medesimo Galileo circa i rapporti esistenti fra la propria posizione e quella di Aristotele, sia largamente sufficiente a dimostrarci che esistono senza alcun dubbio nel pensiero galileiano profonde tracce di aristotelismo. E poiché la più importante fra esse consiste nell'anteporre l'esperienza al discorso, ciò mi pare bastevole ad escludere l'interpretazione in senso puramente platonico della scienza galileiana.
Vero è, tuttavia, che l'appello galileiano all'esperienza va assai oltre l'analogo appello di Aristotele, perché Galileo sa molto bene che l'esperienza - per avere valore probativo - deve essere sapientemente interrogata; spesso infatti egli dichiara... che « il senso, nella prima apprensione, può errare ». Come si deve dunque procedere per correggerlo In quest'opera di correzione Galileo non è più puramente aristotelico, perché fa appello, oltreché alla logica, anche alla matematica, vuoi come grande elaboratrice di discorsi corretti, vuoi come guida ad un'osservazione più precisa della natura (osservazione quantitativa e non puramente qualitativa), vuoi ancora come suggeritrice di dispositivi tecnici (o modelli) per il controllo delle ipotesi teoriche. Galileo ritiene tuttavia - non importa se a torto o a ragione - che il suo « andar oltre » Aristotele, non sia « andar contro » Aristotele; e se, parecchie volte, si richiama a Platone, non lo fa certo per ritornare a un qualsiasi tipo di « subordinazione dell'esperienza al discorso », bensì per dar vigore alla propria polemica contro gli aristotelici (contro i « falsi aristotelici »), e per sottolineare l'importanza attribuita alla matematica come integrazione della logica (si ricordino le parole di Simplicio..., « veramente comincio a comprendere che la logica, benché strumento potentissimo per regolare il nostro discorso, non arriva... all'acutezza della geometria »).

Che l'importanza strumentale, attribuita da Galileo alla matematica, possa venire interpretata come l'adesione a un matematismo metafisico, mi sembra da escludere: in primo luogo perché egli - come abbiamo detto or ora - inserisce la matematica nella logica, o, per essere più esatti, nel grande processo di rettificazione del linguaggio che egli ritiene indispensabile allo sviluppo della ricerca scientifica (e che deve, secondo lui, consistere non solo nell'uso dei ragionamenti veramente corretti, ma anche nell'eliminazione dal linguaggio scientifico di subdoli ed equivoci riferimenti a concetti « metafisici », nel senso di « non operativi »); in secondo luogo, perché egli considera quasi sempre la matematica come disciplina connessa alla tecnica e non come « matematica pura » nel senso moderno di questo termine (proprio perciò le attribuisce la funzione di avvicinarci al mondo naturale, non di avvicinarci a un mondo di entità ideali trascendenti). È bensì vero che Galileo indulge talvolta su espressioni che si prestano a interpretazioni platonizzanti - così, ad esempio, nella celebre similitudine della natura come libro scritto in caratteri matematici - ma in questi casi è evidente il fine puramente polemico delle espressioni stesse. Ricordiamo, per rimanere nell'esempio ora citato, che la similitudine anzidetta venne ideata nel Saggiatore per contrapporre il mondo veritiero degli scienziati a quello fantastico dei poeti. E interessante osservare che la medesima similitudine ritorna in una lettera al Liceti (del gennaio 1641) ; questa volta il libro della natura non è più contrapposto a quelli di fantasia scritti dai poeti, ma ai libri di Aristotele. Malgrado la diversità del termine di paragone, l'intento apertamente confessato - nell'un caso come nell'altro - è quello di combattere il principio di autorità, non di affermare una realtà geometrica che stia al di sotto della parvenza fenomenica: « concluderò solamente, che havendo V. S. eccl.ma per suo scopo il voler mantenere per vero ogni detto di Aristotele, e sostenere che le esperienze non mostrino cosa alcuna che ad Aristotele sia stata incognita, ella fa quello che molti altri Peripatetici insieme forse far non potrebbero; e quando la filosofia fosse quella che nei libri di Aristotele è contenuta, V. S. per mio parere sarebbe il maggior filosofo del mondo, tanto mi par che ella habbia alle mani et in pronto tutti i luoghi di quello. Ma io veramente stimo, il libro della filosofia esser quello che perpetuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi; ma perché è scritto in caratteri diversi da quelli del nostro alfabeto, non può esser da tutti letto: e sono i caratteri di tal libro triangoli, quadrati, cerchi, sfere, coni, piramidi et altre figure matematiche, attissime per tal lettura ». Le parole iniziali del brano «havendo V. S. per suo scopo... sostenere che le esperienze non mostrino, ecc.» provano apertamente che l'appello all'esperienza e la polemica contro il principio di autorità sono tutt'uno per Galileo; e anche questo può servire di conferma alla tesi sopra asserita, circa l'irriducibilità del pensiero galileiano ad una forma più o meno aperta di platonismo.

Proprio il tema ora accennato, della polemica contro il principio di autorità, ci porta a toccare uno degli argomenti a mio parere più decisivi per la valutazione della « filosofia » di Galileo. Che egli abbia insistito a lungo, in tutte le sue opere, sopra la polemica contro l'anzidetto principio, è fuori dubbio; assai meno sicuro mi sembra tuttavia, che egli abbia capito a fondo il complesso significato di tale polemica.
Perché mai gli aristotelici del Cinque e Seicento compivano tanti sforzi per legare la loro scienza al nome di Aristotele? Questa domanda, con tutta probabilità, Galileo non se 1'è formulata, e comunque non le ha dato alcuna risposta. Noi sappiamo però, che gli sforzi anzidetti avevano un significato filosofico ben preciso: essi erano rivolti a trovare un nesso fra le indagini scientifiche e un grande sistema metafisico, nesso che - secondo gli aristotelici - era indispensabile per dare unità, e quindi serietà, a tali indagini. In altri termini: senza un nesso siffatto, queste indagini - in via di continuo sviluppo - rischiavano, secondo .essi, di frantumarsi in mille rivoli, di polverizzarsi, di ridursi a pure ricerche tecniche, di perdere insomma il loro valore « teoretico ». Il sottinteso di questa posizione era: la scienza non può reggersi da sola, non può avere alcuna seria consistenza, se non vien garantita da una metafisica.

Ciò detto, risulta fin troppo chiaro il pericolo che essi scorgevano nel procedere galileiano; poco importa loro che esso si attenesse o no ai canoni metodologici di Aristotele: la cosa grave era, ai loro occhi, la pretesa della nuova scienza di rompere ogni rapporto di subordinazione nei confronti di un'antica e ben solida metafisica. E che fosse una rottura estremamente profonda, essi lo comprendevano meglio dei gesuiti; questi infatti speravano di poter trovare, con opportuni artifici, una sorta di compromesso tra la nuova scienza e l'antica metafisica; gli aristotelici, invece, non nutrivano alcuna illusione in proposito. Né, a voler essere sinceri, possiamo sostenere che la loro diagnosi fosse inesatta : la nascita della nuova scienza rappresentava davvero un colpo gravissimo inferto alla metafisica, un salto rivoluzionario che non tollerava compromessi. Che cosa ne sarebbe nato? Dove avrebbe finito per condurre il pericoloso moltiplicarsi delle ricerche particolari, condotto al di fuori di qualunque sistema.
Questa preoccupazione degli aristotelici era così seria, che - all'incirca nei medesimi anni - fu condivisa, sia pure sotto una visuale diversa, anche da un pensatore della statura di Cartesio, il quale però - convinto che la scienza moderna non poteva ormai venire negata non persisterà più, come i seguaci di Aristotele, in una sterile lotta contro di essa, ma andrà alla ricerca di una nuova metafisica, capace di offrire alla nascente scienza un nuovo fondamento filosofico, altrettanto solido quanto era stato quello offerto dall'aristotelismo alle vecchie indagini pre-galileiane.

Considerato da questo punto di vista, è chiaro che Galileo non fu un aristotelico. Ma non fu neanche un platonico; anzi, possiamo dire qualcosa di più; non fu un vero filosofo. Egli non comprese la portata filosofica della rivoluzione scientifica da lui stesso propugnata; non volle preoccuparsi delle conseguenze che ne sarebbero, prima o poi, derivate. L'unica sua vera preoccupazione fu di aiutare in tutti i modi lo sviluppo della nuova scienza: di aprirle coraggiosamente la strada, superando tutti gli ostacoli che potevano provenirle, vuoi dalla metafisica, vuoi dalla teologia.

Di qui il suo grande interesse metodologico; di qui le sue tenaci lotte per sgombrare i dibattiti scientifici da tutto ciò che poteva ostacolare il libero sviluppo dell'indagine; di qui ancora la sua mancanza di qualunque ricerca, veramente seria, rivolta a scoprire i presupposti filosofici dei nuovi metodi necessari alla scienza. Una cosa sola era per lui importante: che questi nuovi metodi risultassero veramente efficienti, onde la scienza, avvalendosi di essi, potesse compiere progressi sempre più rapidi...

Io ritengo che Galileo non ebbe in realtà una propria filosofia, consapevolmente elaborata.
Né si deve credere che in quanto ora detto si nasconda un qualsiasi tentativo di svalutazione. Se Galileo non fu un filosofo, nel vero senso della parola, egli occupa ciò malgrado un posto di primissimo piano nella storia del pensiero filosofico, per la sua coraggiosa azione di rottura, per la sua vittoriosa lotta a favore dell'autonomia della ricerca scientifica, per la fiducia nella ragione che egli seppe infondere tra larghissime schiere dei suoi contemporanei. Nell'atto stesso in cui riconosco che egli non può essere elevato a simbolo di questo o quel sistema filosofico particolare, mi sembra doveroso riconoscere che egli è l'uomo più atto a simboleggiare l'era moderna; anzi, è qualcosa di più: ne è l'iniziatore; ne è il tenace, invincibile animatore.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis