CRITICA: CARLO GOLDONI

 GOLDONI NELLE SUE "MEMORIE"

 AUTORE: Nino Valeri    TRATTO DA: Civiltà moderna

 

È stato ripetuto dai critici del Goldoni, sulla scorta del famoso giudizio del Gibbon, che le Memorie costituiscono una lettura più interessante delle stesse commedie. Il protagonista vi appare sempre sorridente e tranquillo dalla nascita agli ottant'anni, sempre piacevole e compito attore di una commedia varia, leggera e gaia, curioso osservatore del mondo, concepito anch'esso come un immenso meraviglioso scenario mobile, entro il quale circolano i più curiosi e simpatici caratteri, che sembrano fatti apposta per servire di modello ai personaggi del teatro. La superficie levigata e piana del racconto non si incrina mai nell'asperità di una inquietudine o nel tormento di un dubbio o nell'ansia di una ricerca; ché il «morale» dello scrittore - stando a quanto ama ripetere egli stesso - è perfettamente analogo al suo «fisico»: come non teme né il caldo né il freddo, così non si lascia accendere dalla collera, né inebriare dalla gioia (Mem., III, 38). E se qualche critico, a malgrado di queste buone disposizioni, si metterà in testa di dargli «inquietudine» perderebbe certamente il suo tempo; perché - rincalza l'autore a mo' di conclusione delle Memorie - . «io son nato pacifico e ho sempre conservato il mio sangue freddo».
E veramente egli si dipinge come se avesse attraversato il dramma della vita con un eterno sorriso, dolce e benevolo, sacrificando ogni slancio appassionato a quella sua serena tranquillità, in cui soleva attutire e obliare ogni contrasto, e ogni violenza della cruda vita; veramente sembra che egli sia riuscito a ovattare le asperità, a dolcificare le amarezze, a ignorare la tragedia delle cose per vivere in un mondo tutto serenità e pace, in cui non penetra neppure l'eco della malinconia per una rinunzia o di un rimpianto per un mondo ideale solamente e inutilmente sognato.

Eppure tale levità sorridente di carattere finisce col lasciare il lettore perplesso e un poco deluso. Uno studioso del Goldoni, il Brognoligo, colpito da questa straordinaria tranquillità arriva addirittura a una «anormalità» psicologica del Goldoni nel quale «si potrebbe vedere fino a un certo punto un esempio della teoria lombrosiana». Il giudizio, a parte l'accenno di moda nel tempo in cui fu scritto, rivela però una reale difficoltà d'interpretazione dell'anima goldoniana. Perché quella stessa mancanza di rancore e di speranze, quel narrare i fatti più gravi e le avventure più insignificanti sempre con la stessa aria di innocenza candida e di sincerità inoffensiva, finiscono col renderci meno umana e quindi meno intelligibile la figura del Goldoni. I casi della sua vita, infatti, venendo a mancare di quel particolare rilievo che dovrebbe esser dato da un giudizio preciso di valore o da un tono particolare di commozione, si confondono in un unico indistinto panorama nel quale sfumano i colori, le luci, le ombre; e tutto viene adeguato in uno stesso grigiore un poco freddo e lontano.

Per vincere questa impressione e per accostarsi alquanto all'anima del Goldoni, alla vita più reale dei suoi affetti, è necessario cogliere da vicino il momento psicologico in cui furono scritte le Memorie. In quel momento non domina la serena allegria che il Goldoni amava ostentare; o, almeno, se si ha da parlare di allegria, è necessario aggiungere che non si tratta di un sentimento primitivo e irriflesso, di un'allegrezza di natura, ma di un atteggiamento voluto consapevolmente, e però ricco di certa complessità spirituale e di umana esperienza. È l'atteggiamento di chi, arrivato ormai agli ottant'anni di età, sentendosi all'estremo della vita, vuole fare una specie di bilancio spirituale del proprio passato e particolarmente del teatro in cui si riassume il più di quel passato: lo fa con la rassegnata indulgenza dell'uomo che sta per allontanarsi definitivamente dalla scena del mondo. Amori e inimicizie, gioie e avvilimenti, trionfi e dolori: tutto viene, in quelle notazioni biografiche, mitigato e adeguato da un sentimento diffuso di pacata rinunzia, da una sapienza di vita troppo sperimentata per dimenticarsi delle cose, per poter risalire, oltre il puro racconto, nella sfera dei disinteressati ideali. Vista alla luce di questo sentimento pare che tutta la narrazione si illumini di un significato più ricco e più umano. La modestia stessa con cui lo scrittore dà giudizi intorno a se stesso o ad altri acquista un valore direi quasi malizioso o lievemente umoristico. «Dio mi guardi», egli dice dopo una fine disgressione a proposito di una certa «virtù eroica e commovente» la quale può costituire un divertimento «per i cuori sensibili» ma non è adatta alla sua Commedia, «Dio mi guardi dalla folle pretesa di erigermi qui a precettore. Io faccio parte ai lettori di quel poco che ho appreso, quel poco che so: e d'altronde, anche nei libri di poco pregio si trova pure talvolta qualcosa che merita la nostra attenzione» (Mem., II, 3). Il Goldoni che intorno alla scena aveva spesa l'intera vita doveva pur saperne qualche cosa di teatro; ma la sua lunga esperienza lo ha fatto anche consapevole di quanto bisogna cedere del proprio orgoglio per non suscitare malevolenze e invidia, di quanto sia necessario umiliarsi per farsi benvolere o almeno compatire. Ora che è vecchio e stanco vorrebbe, negli ultimi anni di vita, non patire nuove malignità. Tanto più che viva ancora doveva essere in lui qualche ombra di quella malinconia un poco amara aleggiante nell'Addio dell'ultima sera del Carnevale 1761, che egli scrisse per congedarsi dal suo pubblico veneziano, quando - dopo la furiosa lotta col Gozzi - già maturo e duramente provato dalla vita, dovette rifarsi l'esistenza altrove, lontano dalla sua laguna.
Di questa malinconia è nello stesso racconto delle Memorie (II, 45) come un brevissimo spiraglio («La platea risonava tutta quanta di applausi, fra i quali si udiva distintamente gridare: Buon viaggio! Ritornate! Non mancate di parola' Confesso che mi sentivo dentro commosso fino alle lacrime») : spiraglio che si chiude subito nella solita cautela un poco fredda e guardinga, propria di chi non vuole sperperare il suo cuore nel tormento di vani rimpianti.

Della stessa lotta aspra, maligna, velenosa che s'era conclusa con quella dura sconfitta, non c'è nelle Memorie che una debole eco lontana. Secondo il Goldoni, la colpa dell'incostanza di molti dei suoi concittadini fu tutta di certi amici, che per «malinteso zelo» avevano innalzato troppo il merito delle sue commedie, sicché le «persone colte» non avevano condannato lui, il Goldoni, ma il fanatismo dei suoi fautori (Mem., II, 3). Quanto poi alle grosse e furibonde villanie del Gozzi egli si difende colla più grave delle armi polemiche che abbia mai adoperata nelle Memorie: non nomina le persone «che vollero fargli del male». Non più. Forse il Goldoni pensava scrivendo queste parole, che anche il più feroce partigiano del Gozzi al leggere l'espressione di una bontà e di una modestia così lontana da tutte le bassezze e le volgarità che avevano avvelenata la battaglia letteraria, avrebbe aperto il cuore a una più benevola comprensione delle sue commedie o, almeno, non gli avrebbe più aggiunto altre «inquietudini» oltre a quelle sofferte a Venezia.
E così assolvendo tutti e ascrivendo solo alle proprie deficienze la colpa dei guai sofferti, poteva deporre la penna e aspettare serenamente la morte.
Ma il desiderio di pace non si compì: prima della morte egli fu colpito ancora dalla cecità. Di ciò ci dà notizia nel poscritto a una lettera del 26 marzo 1791 in cui dice semplicemente: «Vorrei leggere, vorrei correggere ma non ci vedo». E nell'altra lettera che di lui possediamo in data 3 settembre 1792, tra le miserie della vecchiaia e gli orrori del Terrore, trova ancora modo di far dell'umorismo sulle sue stesse disgrazie fisiche: «L'incuria mia... sarà perdonata ad un uomo di ottantacinque anni, a cui non è restato di buono che uno stomaco valoroso e un cuore sensibile».
Anche all'estremo della vita egli non disarma: e qui veramente pare che la sua apatia tocchi le soglie di una specie di stoicismo.
Tale atteggiamento di distacco sorridente dalle cose, illuminato dalla bontà di una larga comprensione umana si lega, nello spirito del Goldoni, a un altro motivo psicologico e morale che è stato forse meno avvertito dagli studiosi: cioè a una positiva fiducia che i valori umani s'impongono nel mondo per la loro intrinseca forza di persuasione: e che è vano schermeggiare di astuzia o farsi avanti con la prepotenza, e comunque tentare di barare nel gioco della vita, la quale, in ultimo, finisce per assegnare a ognuno il suo, anche a chi s'è ritirato signorilmente dal tumulto delle passioni, a far la propria parte di lavoro e a sopportare il proprio carico di tormento e di pena.

Da tale fiducia è in fondo sorretto tutto il racconto della sua vita, compreso il punto culminante della battaglia letteraria col Chiari e col Gozzi, pur nell'intonazione generale un poco stinta e lontana della narrazione. Il Goldoni del resto condensa espressamente questa sua convinzione in una massima precisa, esposta ai lettori come morale della propria vita: «Dappertutto» - egli afferma - «l'uomo tranquillo e di sangue freddo finisce col farsi amare e stancare la perfidia dei suoi nemici» (Mem., Prefazione). La quale massima è uno dei rarissimi precetti generali di tutta l'opera, seppure sia velata anch'essa di una decorosa modestia, che riduce tutti i meriti di una vita nobilmente operosa alla semplice virtù della «tranquillità» e del «sangue freddo» , vale a dire di una specie di saggia imperturbabilità che avrebbe un riflesso nella stessa costituzione fisica.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis