Non è certo una novità che la formazione linguistica di
Goldoni vada vista anzitutto in questa prospettiva, nei
confronti cioè di una situazione di linguaggio teatrale che
sta lentamente tramontando mentre la situazione linguistica di
fondo rimane sostanzialmente la stessa: dentro un clima
radicalmente mutato del gusto più elevato e cosciente, che si
volgeva verso la vita quotidiana con nuova, pacata attenzione;
non solo, ma in un'epoca di revisione pacificamente
rivoluzionaria dei rapporti sociali e umani, revisione di cui
il Goldoni fu tranquillo testimone ed interprete, e in cui è
anche uno dei fondamenti più seri della crisi cosmopolitica o
europea della nostra lingua settecentesca. Questo decisivo
momento spirituale si inscrive nel passaggio dalla lingua
delle maschere alla lingua dei borghesi e dei popolani,
nell'itinerario linguistico ed artistico del Goldoni.
Il fondamentale problema linguistico è per Goldoni un problema
di comunicazione che per lui, come per chi muova per vocazione
dall'interno dell'esperienza teatrale, non è solo un problema
pratico ma espressivo: comunicazione diretta e orale con quel
suo pubblico che per Goldoni è un termine fisso di
riferimento, il protagonista di tutte le sue Prefazioni; che
comprende diversi strati sociali, ma che egli non può chiamare
ancora genericamente «italiano» e che distingue con empiria
settecentesca per «nazioni» e gusti, secondo la geografia
«sociale» del suo tempo, con una densità e intensità che
decresce da nord a sud e che ha il suo centro focale a
Venezia.
Per questo pubblico egli deve provvedere lo strumento
linguistico adatto, che la tradizione letteraria non può
offrirgli, e che la lingua della conversazione colta,
soprattutto dell'Italia settentrionale, può offrirgli solo in
aenigmate, in tracce e sparsi elementi, semplicemente perché
questa koinè di lingua parlata ancora non esiste: può venir
fatto di dimenticare, leggendo l'italiano di Goldoni, che quei
nobili, quei cavalieri, quei mercanti, quelle dame e quelle
donne di «garbo» e di «maneggio», parlavano effettivamente un
dialetto più o meno italianizzato, o magari talora un francese
bastardo. La Umgangssprache, la lingua goldoniana d'uso
italiano, è sostanzialmente Buhnensprache, lingua teatrale,
fantasma scenico che ha spesso la vivezza del parlato ma si
alimenta piuttosto all'uso scritto non letterario, accogliendo
in copia larghissima venetismi, regionalismi «lombardi» e
francesismi, accanto a modi colloquiali toscani e a
stilizzazioni auliche di lingua romanzesca e melodrammatica: è
un «come se», una ipotesi spesso così persuasiva di realtà,
fondata su un presupposto di intelligibilità comune.
Parallelamente, la sua «patria» veneziana sembra fornirgli,
già pronto per l'uso, quello strumento di lingua parlata di
cui egli ha bisogno, lingua parlata socialmente unitaria senza
stratificazione rigida, lingua usuale anche della classe
dirigente e lingua scritta non «grammaticale»: il solo dei
dialetti italiani totalmente immune, nell'uso parlato anche
colto, da squalifica culturale, «dialetto» nel senso corrente
solo per la prospettiva letteraria; capace di servire non
soltanto nell'uso amministrativo e giuridico, ma anche per
discutere oralmente di filosofia e di scienza.
Qui Goldoni si colloca d'istinto nel punto d'incontro di una
secolare tradizione dialettale veneziana con la comune
tradizione italiana ed europea: di quella tradizione, rimasta
sempre al bivio tra lingua e dialetto, Goldoni è l'erede per
molti versi conclusivo. Il fatto è che in lui il veneziano
diventa lingua nel grado totale della rappresentazione,
proprio quando la sua bivalenza di lingua dialetto sta per
cessare di essere: dopo di lui è possibile una letteratura
dialettale veneziana solo in senso vernacolare e municipale (e
l'Ottocento sentirà spesso Goldoni dialettale in questa chiave
minore di naturalismo vernacolare, e fioriranno un po'
dovunque, anche nella Firenze delle ciane dello Zannoni le
imitazioni dialettali di Goldoni).
Goldoni chiude una pagina, e ne apre una nuova, nella storia
delle letterature dialettali e della concezione del dialetto
come strumento espressivo: in lui il dialetto acquista per la
prima volta piena autonomia di lingua parlata, fuori di
caricatura e di polemica. Con Goldoni ha inizio la storia
urbana e civile del dialetto (saranno poi, tanto diversamente
intonate, ma sempre su un doppio registro antiletterario,
insieme locale ed europeo, «i paroll d'ori lenguagg» del
Porta). Questo suo sentimento del dialetto come «linguaggio»,
lingua materna in cui si specchia la vita di tutta una
società, sarà espresso tante volte dal Goldoni, ma forse mai
meglio che nella nostalgia dei versi veneziani scritti da
Parigi «lontan tresento mia»: «El dolce nome de la Patria
mia... / ... el linguazo, e i costumi de la zente». Dove c'è
tutto il sentimento linguistico di Goldoni, molto meglio che
nelle sue professioni di orgoglio veneziano che sanno invece
di municipale, come nei brutti versi arcadici dichiaranti «la
dolcissima / Facondia veneziana / Con el vigor dei termini /
Far fronte alla toscana».
La parola «linguaggio», coi suoi sinonimi, indica sempre in
GoIdoni la parlata, il discorrere naturale e vivo, la lingua
come spontaneità: una realtà topografica, psicologica e
sociale prima che storica, o storico solo in quanto patrimonio
vivente, ma sempre fuori della tradizione letteraria. |