Il momento geniale della vita del Baretti è la creazione di
Aristarco Aristarco Scannabue è nato al tempo della canicola,
ha passato la fanciullezza a schiacciar scorpioni nel giardino
paterno, è stato granatiere del duca di Marlborough e dragone
del principe Eugenio, ha errato quarant'anni per l'Europa e
per l'Asia; e, perduta la gamba sinistra per là cannonata d'un
corsaro, s'è ritirato in una solitudine popolata di cani,
gatti, uccelli e scimmiotti raccolti qua e là per il mondo.
Passa il tempo a moderar la moltiplicazione degli scimmiotti
castrandoli, a battezzarli con nomi di poeti o prosatori
moderni, a conversare con lo schiavo turco Macouf e col curato
del luogo. La sera il curato e il veterano fumano la pipa,
bevono e discutono di letteratura: don Petronio compra i
libri, Aristarco li legge; Aristarco li stronca, don Petronio
li difende modestamente o ascolta remissivo. Altri non
capitano in quella bicocca: uomini e donne stanno lontani da
quel vecchio settantacinquenne chiuso in una lunga zimarra,
fasciato di un turbante, armato di un gran paio di mustacchi,
di una scimitarra, di una furiosa gamba di legno.
Aristarco è la caricatura del temperamento morale e del gusto
letterario del Baretti. In tutti i numeri della Frusta risuona
quella voce di soldato imperterrito e collerico che ci è stato
presentato nell'introduzione come il protagonista e l'autore
del giornale.
La Frusta letteraria nasce così con un'impostazione fra
artistica, morale e critica che rimane il suo carattere
dominante. Di quando in quando quella gamba di legno torna a
picchiare sul pavimento, quegli occhiacci risfolgorano, e l'ombretta
di don Petronio Zamberlucco china di nuovo dolcemente il capo
assentendo agli assalti del veterano: ma anche quando questa
cornice grottesca del giornale è dimenticata, il tono della
critica continua a ricordarcela.
Guardato sullo sfondo del secolo, questo veterano che fa
strage di Arcadi appare come la personificazione della seconda
metà del Settecento che dà battaglia alla prima. Quando dalla
lettura dell'intera rivista vogliamo ricavare un'impressione
sintetica, vediamo quel gigante che mena botte da orbi su quei
poeti cascamorti. Quest'impressione non risponde molto
precisamente al complesso, dove troppe cose sono ripetute e
stancano: ma l'importanza del libro è in quella mossa iniziale
che ha creato una figura violenta e bizzarra e l'ha scagliata
contro i molli versaioli del secolo. La biografia di Aristarco
è, si potrebbe dire, l'antibiografia degli Arcadi: Aristarco
ha battagliato, ha girato il mondo, vive in una solitudine
selvaggia; gli Arcadi si incensano, scrivono odicine,
chiacchierano e amoreggiano nelle accademie.
La Frusta letterario è prima di tutto l'opposizione di un
temperamento ad un altro, il segno dell'insofferenza di
Aristarco di fronte alla vita colta del suo tempo, la rivolta
di Aristarco. I primi periodi dell'introduzione sono uno
scoppio di furore, una dichiarazione di guerra; e tutto il
giornale risuona darmi e d'assalti: «Io mi sono
irremovibilmente risoluto di voler essere una spezie di
campione universale, e voglio pigliar su ogni guanto che vedrò
o coraggiosamente o temerariamente gittato nello steccato da
qualsiasi guerriero letterario...».
Quali il passato e la figura di Aristarco, tali sono le sue
predilezioni e il suo stile. Combatte con un'irruenza da don
Chisciotte, ma non contro mulini a vento. Il suo ideale è
ricondurre il buon senso, il senso comune fra gli italiani che
lo hanno perduto. Difende anche lui le donne, ma con la
cavalleria d'un militare, e pensa, molto positivamente, al
modo di allargare la loro istruzione. S'interessa di tutte le
cose utili alla vita - agricoltura, industria, commercio,
medicina -; proclama inutile la scienza che non serve «a
migliorare se stesso o altrui», la vita maestra assai
superiore ai libri: «Chi non istudia questo libro, può fare un
bel falò di tutti gli altri». Ama sopra tutto il ragionevole.
E perciò, se le sue parole hanno un'impetuosità polemica, i
suoi ideali hanno però una moderazione grande. Ama la
religione, la morale, la cultura, ma è pronto a reagire appena
accennino a diventar pedantesche. Ha un senso preciso della
realtà e non ama chi la sfugge o la vela: chiama «false» le
massime di Rousseau; ma quando il padre benedettino che le
critica, afferma che le azioni giuste degli uomini sono
incomparabilmente numerose che le ingiuste, si ribella a
questo ottimismo facile e squaderna imperterrito la dura
realtà.
Questo aspetto del Baretti, di moralista senza
convenzionalismi, e d'uomo di vigoroso buon senso, è il meno
conosciuto del suo temperamento; ma egli è più moralista che
critico, e - anche in quanto critico - moralista. |