Nel Discours, a differenza della Frusta, si nota subito una
coerenza più intima, un tono più fermo, meno petulante, dovuto
al fatto che il Baretti, libero dalla polemica ormai superata
con gli arcadi e i cruscanti, si rivolge con tanta maggiore
unità non contro residui e mode, ma contro una cultura ben
viva, contro una mentalità trionfante e contro il suo più
vistoso rappresentante.
La discussione del Baretti si liberava dal suo tono di critica
spicciola e la sua energia trovava una direzione più nobile e
viva, la sua tendenza individualizzante a base moralistica
perdeva il suo sapore più fido, e il suo aspetto conservatore
e casistico, e si sviluppava su di un dreno schiettamente
nuovo, più storico, meno cronachistico. La «rivolta di
Aristarco» non era più ibrida nel suo obbiettivo, anche se
inevitabilmente ibrida nei suoi presupposti culturali,
ideologici e diventava rivolta europea al predominio
voltairiano sul gusto generale, alla poetica della raison,
all'impero di un classicismo formalistico cui Voltaire, dopo
uno sviluppo più concreto e sensistico, era ritornato come a
coerente poetica dell'illuminismo razionalistico. Naturalmente
sarebbe assurdo chiedere al Baretti una posizione
integralmente nuova e sganciata del tutto da motivi
illuministici in lui forti, anche se diversamente qualificati,
e da quelle remore tradizionaliste che in parte si ficcano
arma nella critica antivoltairiana fondendosi con spunti nuovi
e rivoluzionari, in parte sedimentavano e appesantivano il
metodo costruttivo del critico.
Ma certo per la storia del nostro preromanticismo e del
preromantilcismo europeo, questo testo è di una importanza
troppo poco sottolineata e mai inquadrata in uno svolgimento
da illuminismo a romanticismo: per l'attacco contro Voltaire,
per l'affermazione anche se saltuaria di un nuovo metodo
critico, per la difesa di Shakespeare che già in Germania
aveva segnalato il cambiamento del clima poetico,
l'approfondimento dello Sturm und Drang, il primo contributo
goethiano («und Ich rufe: Natur! Natur! nichts so Natttr als
Shakespeares Menschen») e che anche in Francia, proprio per
opera di Voltaire, aveva indicato una prima stagione non
classicista sviluppata da Diderot e dai più coerenti
preromantici.
Voltaire infatti aveva accettato in un primo tempo e nel
momento di maggiore anglomania, la grandezza di Shakespeare,
se ne era fatto banditore in Francia ed aveva addirittura
cercato una nuova fortuna teatrale in tragedie che dello
Shakespeare volevano riprendere in espedienti esteriori, il
grandioso, il fantastico di apparizioni, di bruschi
interventi. Poi quando per opera del grande mediatore tra
l'Inghilterra e la Francia, Le Tourneur, l'amore del
drammaturgo inglese si diffuse con una accentuazione
chiaramente preromantica, Voltaire, parte per le tipiche
reazioni del suo carattere (dispetto di non essere più il
rappresentante di Shakespeare in Francia), parte, e più
profondamente, per una naturale involuzione del suo gusto
contro le punte più avanzate della sua potente curiosità, si
rivolse ferocemente contro il traduttore e l'originale
qualificando il primo di «imbécile, maraud, faquin» e
caratterizzando il secondo come un letamaio con qualche gemma,
«un enorme fumier».
Di fronte a questo atteggiamento del Voltaire, il Baretti che,
come abbiamo visto, già precedentemente lo aveva attaccato,
pur ammettendo la grandezza dell'illuminista francese «come
semplice scrittore» («cioè dal canto della sua maniera ad
adoperare le parole e d'ordinare lo stile»), con il suo
procedere tra pamphlettistico e pedantesco, con il suo amore
per una verità solidamente conquistata ed empiricamente
accertata, non muove da uno sdegno astratto o da una figura
puramente estetica di Shakespeare e di Voltaire, ma dalla
constatazione dell'ignoranza dell'inglese da parte di Voltaire
e della sua conseguente incapacità di gustare e giudicare
rettamente la poesia di Shakespeare. Le prove minute,
assommantisi con meticoloso rigore, in un momento di grazia
dell'intelligenza barettiana, procedono con un misto di
scientifico e di corposo che sembra tradurre in stile il gusto
barettiano del concreto su base empirica, di buon senso.
Voltaire dopo un anno di soggiorno in Inghilterra ha
pubblicato due scritti in perfetto inglese (prova della sua
conoscenza di quella lingua). Ma è impossibile imparare così
bene e così presto una lingua, tanto più che, dopo la sua
partenza dall'Inghilterra, Voltaire non ha più scritto lettere
inglesi, tranne una, così sgrammaticata da non crederla sua.
Eppure Voltaire ha tradotto brani da Shakespeare. Come?
Dimostrando la sua incomprensione, come risulta da un esame
particolare di un brano dell'Amleto che mette bene in luce
tutta l'acutezza filologica del Baretti sempre un po' spavalda
e pedantesca insieme. Accertata l'ignoranza specifica di
Voltaire (con un accumularsi di prove, con una insistenza
quasi maniaca), il saggio si allarga in un attacco contro il
filosofo di Ferney e in un abbozzo di poetica antilluministica
che si intrecciano e collaborano, sorretti dallo stesso gusto
scabro di una verità non astratta, non sofistica, in vista di
una mentalità, di un metodo nuovo focosamente e
approssimativamente intuiti.
Se il Baretti si fosse arrestato a dimostrare l'ignoranza di
Voltaire o la qualità deteriore della sua traduzione, il
Discours sarebbe rimasto solo un pamphlet di gusto
discutibile, ma egli va oltre e afferma l'intraduciIilità di
Shakespeare in francese o nelle altre lingue neolatine poiché:
«Shakespeare ne savait latin, ni grec, ni ancone autre langue.
II n'avait devers soi qu'une profonde connaissance de la
nature humaine, un de ces génies, si rares partout qu'on
appelle génies d'invention, et par dessus cela une imagination
tonte de feu. Avec ces trois qualités Shakespeare sui former,
à l'àge de 32 ans, un langage, quelquefois bas et plein d'affectation,
mais plus souvent compact, énergique, violent, dori sort une
poesie qui enlève l'àme quand il le veut» . E lo stesso
linguaggio critico adoperato arieggia bene l'intuizione nuova,
preromantica che il Bareni aveva della poesia shakespeariana,
della sua creatività libera e «selvaggia ».
«C'est cette poésie-là qu'on no saurait rendre dans ancone des
langues dérivées de la latine... La langue francaise par
dessus ses soeurs, est trop chàtile, trop scrupuleuse, trop
dédaigneuse, pour rendre Shakespeare. Quand ora traite des
pensées sublimes, elle ne sait souffrir la moindre
transposition un peti forte, la moindre phrase non recue ou
surannée. Un enjambement dnns un vers, arte ritrae qui ne
répond pas avec la derniére exactitude, un hétnistiche un Peti
mal séparé de l'autre, y est un défaut insupportable. La
langue de Shnkespenre est plutòt ernbellie que gatée par tout
cela. Un certain air antique, et quelquefois sauvage, ajoute
méme à ses beautés poétiqiíes. II est plus libre dans !e choix
de ses expressions que le vent sur l'Ocèan, pour le dire à sa
manière. Son dialogue est tantót en vers blancs, tantot en
vers rimés, tantot en prose, et n'a tantòt qu'un mot ou deux à
la piace d'un vers... Allez selon le génie de la poésie
francaise l'enchainer dans des alexandrins, qui vous
rappellent une procession de moines marchants deux à deux d'un
pas égal et grave le long d'une rue droite, votis ne le
reconnaitrez plus. Ce Bora, faire danser des minuets à qui ne
sait que s'élancer comete un ceri».
E dalla intraducibilità di Shakespeare in lingua neolatina, si
passa ai punti più sostanziosi e meno cronachistici, alle
affermazioni che, in una ganga sempre compromessa di cultura e
di velleità, implicano un nuovo senso della poesia, in cui
(più che il languore idillico e la tenerezza elegiaca che
soprattutto affiorano negli altri testi preromantici
italiani), si presenta quel vigoroso amore del concreto che
conduce ai romantici 1816, e, nel pieno romanticismo italiano,
al De Sanctis. |