L'idillio leopardiano non ha niente di comune col significato
che si dà generalmente a questa maniera di poesia. Non è
descrizione della vita campestre, con dialoghi tra pastori, o
pescatori, opera spesso di civiltà avanzata e stanca che,
mancato ogni degno scopo della vita cerca nuovi stimoli negli
ozii campestri. Forse per questo Leopardi più tardi cancellò
quel nome d'idilli e diede a tutte le sue poesie un nome
comune, Versi o Canti.
Fatto è che dapprima comparvero con quel nome, rivelando nel
giovane autore una concezione sua propria dell'idillio. Esso è
il motivo musicale e poetico, nella sua semplicità, di quello
che più tardi sviluppandosi fu rappresentazione della vita
pastorale, spesso in forma drammatica. E quel motivo è
l'impressione immediata e nuova prodotta dalla contemplazione
della natura su anime solitarie e malinconiche. Tale è il
motivo dei popoli primitivi, dalle cui ingenue immaginazioni
uscirono quei primi scherzi della fantasia che furono chiamate
religioni.
Quel motivo, sperdutosi nel rumore della vita, ritorna nella
solitudine dei campi, e rimane come la Musa occulta
dell'idillio o della egloga nel suo sviluppo drammatico, com'è
negl'idilli greci.
Notabile è l'idillio quinto di Mosco, tradotto da Leopardi
giovanissimo, dov'è un primo indizio della sua poetica natura,
e da cui uscì probabilmente l'esempio e la concezione di
questi idilli.
Qui veramente si scorge una prima orma del suo genio. Perché
Leopardi, come lo conosciamo già, è un personaggio punto epico
e punto drammatico, è un personaggio idillico. Non è un uomo
d'azione, non partecipa alla vita esteriore; non è atto a
cantarla; essa non è altro che la tavolozza dei suoi colori.
Anche nei momenti di maggiore entusiasmo trae di colà la
semplice stoffa del suo spirito, nel quale unicamente vive.
Quella è il mezzo, non è il fine. Tolto all'azione e alla vita
esteriore, in quell'ambiente odioso di Recanati, si sviluppa
ancora più in lui la concentrazione naturale del suo spirito
in sé stesso.
Così vien fuori una natura contemplativa, solitaria, a cui
quegli studi, quel vivere, quel sentimento della sua
infelicità porgono sempre un nuovo nutrimento. Anime così
fatte sono affettuose, perché uomo senza società si sente
vedovo, e cerca sollievo nella contemplazione della natura, e
la guarda con occhio di amante. Da queste disposizioni nasce
l'idillio nel suo più alto significato.
Una prima contemplazione è l'Infinito tutta in versi
endecasillabi, senza rima, com'è l'idillio quinto di Mosco, e
gli altri che tradusse o compose. Si vede anche nel metro la
filiazione.
La scena di questa contemplazione è il monte Tabor, dov'egli
soleva passeggiare, fermandosi in uno dei siti più solitari,
all'ombra di una siepe che nascondeva alla vista gran parte
dell'ultimo orizzonte. Siede e mira. La contemplazione ha la
sua sede, non nella vista materiale circoscritta dalla siepe,
ma nel suo spirito pensoso e concentrato. Vede un pezzo del
cielo, ode lo stormire del vento, e non ci si acqueta e non ci
si addormenta, come fa il pastore di Mosco sotto il platano
chiomato, natura anche lui. Qui la vita naturale ed esteriore
è un semplice stimolo che sveglia il pensiero e dà le ali
all'immaginazione. Perciò non è qui un vedere, ma
un'immaginazione, un fingere: «io nel pensier mi fingo». La
solitudine, la malinconia, la vista e l'impressione della
natura suscitano una disposizione religiosa, la quale altro
non è se non un alzarsi dello spirito di là del limite
naturale verso l'infinito. E questa è davvero una
contemplazione religiosa. Nello spirito non c'è un'idea
preconcetta dell'infinito, alla quale l'immaginazione adatti
le forme, come si vede nei poeti moderni, in cui fiuti sempre
la presenza di un'idea astratta nel maggior lusso delle forme.
Qui non c'è niente di filosofico, come sarà in poesie
posteriori. È una vera contemplazione, opera
dell'immaginazione, con la sua ripercussione nel sentimento,
com'è lo spirito religioso.
In verità questo puro alito religioso, proprio dei
contemplanti solitari, a cominciare dai romiti e padri del
deserto, in quel tempo di scetticismo e d'ipocrisia, tu non lo
trovi quasi che in solo questo giovane di ventun anno. Innanzi
a lui non ci sono idee, ma ombre delle idee, non c'è il
concetto dell'infinito e dell'eterno, ma ce n'è il sentimento.
Appunto perché la contemplazione è opera combinata
dell'immaginazione e del sentimento, e non giunge fino al
concetto, e non dà alcuna spiegazione, vi alita per entro un
certo spirito misterioso proprio delle visioni religiose. Il
mistero aggiunge all'effetto.
Ti sta davanti non so che di formidabile, che ti spaura, un di
là dall'idea e dalla forma. Tu non puoi concepirlo e non puoi
immaginarlo. Vedi solo la sua ombra. Così i primi solitari
scopersero l'Iddio!
Queste ombre e questi sentimenti sono immediati e
inconsapevoli. Non nascono da un pensiero attivo che li
produca con la sua impronta; anzi sembra che naturalmente
piovano nello spirito. Nessun vestigio di elaborazione, niente
di successivo e di sovrapposto a quelle ombre nella loro
formidabile nudità; portano seco il loro colore e la loro
musica. Appunto perché il pensiero rimane inattivo, mentre il
cuore si spaura, l'effetto è grandissimo. E questo spiega
l'impressione profonda della chiusa così originale, in cui il
pensiero riacquista la coscienza solo per sentirsi dolcemente
annegato:
. . . . . . . . . . . . . tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.
L'annegamento del pensiero nell'infinito non è un concetto
nuovo. E questa impotenza del pensiero innanzi all'inconoscibile
desta sempre un sentimento di terrore, o, come dicesi,
l'impressione del sublime, prodotta qui non solo dalle cose,
ma dal ritmo delle cose. «Interminati spazi», «sovrumani
silenzi», «profondissima quiete». Ciò che è nuovo in questo
naufragio del pensiero è il sentimento di dolcezza. Il
contemplante solitario si sente sperduto in quella immensità,
e ci si piace. Il piacere nasce non dalle cose che contempla,
ma dal contemplare, da quello stare in fantasia e obbliarsi e
perdersi senza volontà e senza coscienza. È la voluttà del
Bramino, poeta anche lui, dello sparire individuale nella vita
universale.
Questa contemplazione è la prima grande rivelazione del suo
genio, semplice insieme e profondo. È un ritorno alla
rappresentazione delle poesie primitive e popolari, dove
disegno colore e ritmo è una parola, e vista e impressione è
sempre immediata. Certo, l'arte dei nessi, il vigor logico e
la correzione della forma lo certificano poeta di un'età
avanzata. Ma chi consideri a quanta raffinatezza era giunta la
poesia italiana anche nei sommi, e anche a quel tempo che
molti gridavano semplicità e popolarità e nessuno ne dava
esempio, può misurare il valore di questo schizzo, e
giudicarlo come l'apertura musicale di una nuova era. Dico
apertura musicale, perché qui non è ancora chiaramente
espresso un nuovo contenuto, né una nuova forma, ma ce n'è
come l'aria e il presentimento. Ci si scorge ancora una
parentela con studi e modelli antichi. Manca a questa forma la
bonomia e l'ingenuità, e la morbidezza, una compiuta
chiarezza, come si vede nel secondo periodo, dove quell'atto
intellettivo del comparare e quel cumulo di oggetti aridi ti
lascia freddo e perplesso, quasi abbi innanzi una forma
logica, e non una visione chiara e immediata. |