In quest'altro canto del Passero solitario, composto dopo il
15 giugno del 1829, c'è il trasfigurato ricordo di tante
vicende di vita paesana che sono state annotate dai vari
commentatori e che tradiscono la loro presenza nel tono piano
e familiare della lirica. Si sente, è vero, che questi versi
sono nati da un fatto osservato più volte e sul quale più
volte il Leopardi si è fermato a meditare. È un canto di
esilio dalla vita, di quella vita che si contempla e non si
riesce mai a vivere, che si sogna e si fantastica ma si ha
timore di attingere. La similitudine o meglio la comparazione
di sé medesimo col solingo augellin, non ha nulla di
pedantesco e di sistematico. È una vicinanza spirituale,
accennata sempre discretamente, che giova principalmente a
dare rilievo di esasperata tristezza a quella constatazione
finale della differente sorte del poeta. «Tu, solingo augellin,
venuto a sera Del viver che daranno a te le stelle, Certo del
tuo costume Non ti dorrai; che di natura è frutto Ogni vostra
vaghezza. A me, se di vecchiezza La detestata soglia Evitar
non impetro, Quando muti questi occhi all'altrui core, E lor
fia vòto il mondo e il dì futuro Del dì presente più noioso e
tetro, Che parrà di tal voglia Che di quest'anni miei? che di
me stesso? Ahi pentirommi, e spesso, Ma sconsolato, volgerommi
indietro». La critica concordemente giudica che la sostanza
della lirica è più in questa breve antitesi finale che nella
diffusa somiglianza, la quale, se lavorata in ogni
corrispondenza di termini, avrebbe potuto avere l'aria di una
similitudine letteraria. Il Passero solitario, ma senza che
sia detto così freddamente, è il fantasma stesso del poeta,
sempre absent dalla vita, che «la solitudine e il silenzio amò
quanto niuno altro», come uno di quei santi solitari di cui
egli favoleggia in quella graziosa prosa trecentesca che è il
Martirio dei Santi padri.
L'ultimo soggiorno del Leopardi a Recanati cade nel 1829 e,
tra il 20 agosto e il 12 settembre di quell'anno, egli compose
il celebre idillio Le Ricordanze, il titolo e il motivo delle
quali paiono preparati e covati da un quindicennio almeno e
dall'assidua meditazione e dal caro immaginare. Questa poesia
delle ricordanze fu quasi nativa nel Leopardi, ché il suo
poetare e direi lo stesso vivere fu sempre un ricordare. Da
ciò l'intensità poetica del componimento, ma anche la sua
ridondanza in qualche punto. Pure arte miracolosa questa,
poiché su un motivo elegiaco sono intrecciate visioni di paese
diverse, reminiscenze di stati d'animo dell'età fanciullesca,
rievocazione di fantasmi di amore, inni pieni di affanno alle
speranze, agli ameni inganni, al caro immaginar del tempo
giovanile, accoramento e rammarico acerbo dell'esser vissuto
indarno. Se l'idillio, come scrisse il poeta stesso, esprime
situazioni, affezioni, avventure storiche del suo animo,
questo è pure un grande idillio; che si svolge in gran parte
come una sinfonia, un contrappunto doloroso di motivi
molteplici, in cui continuamente si inseguono, si sfuggono e
si riprendono le visioni tenerissime della dolcezza passata, e
la comparazione amara e talvolta sdegnata con l'infelicità
presente. Per il ricordo di Nerina, si vorrebbe che le
Ricordanze siano il prolungamento della poesia A Silvia, ma il
motivo di questa è rettilineo e casto, mentre nelle Ricordanze
si allarga tutta la poesia della fanciullezza e della
giovinezza vissuta indarno, e un anelito disperato alla vita,
intesa ancora come fiducia e ricchezza di ameni inganni, come
possente errore.
Si parla discretamente dai critici di un certo sbandamento in
questa grande lirica, e si ricorre a Nerina come al fantasma
che unificherebbe tutti gli sparsi motivi delle strofe
precedenti. Se così fosse, Nerina sarebbe davvero un semplice
prolungamento di Silvia (e per giunta una rimembranza quasi
privata, e non sempre sollevata alla dignità di simbolo e di
mito come proprio è avvenuto della sua maggiore compagna),
mentre sentiamo che il fascino arcano delle Ricordanze è
altro: è l'epopea malinconica del possente errore, che oggi si
svela come un'illusione (Fantasmi, intendo, Son la gloria e
l'onor; diletti e beni Mero desio; non ha la vita un frutto,
Inutile miseria). Pure c'è ancora un possente appello a
quell'errore: quell'imago ancora sospirar mi farà! Cotesto è
il centro lirico di tutta la lunga poesia. La dolcezza del dì
fatale sarà temperato d'affanno, perché il poeta non è
riuscito a tenere in piedi l'illusione di quella sua
giovinezza. E se non fa scandalo, aggiungeremo che la lunga
stanza dedicata a Nerina è proprio quella in cui si sente una
certa fiacchezza di lena. Il che ci piace qui annotare, con
crudezza, per combattere la tesi che la stanza di Nerina sia
come il centro unificatore di tutta la poesia. Il vero è che
questa di Nerina è un'aggiunta volontaria; il poeta certo
poeticamente vi si riprende, ma solo dove il fantasma
femminile è miticamente confuso col paesaggio, da quella
finestra favellarmi agli odorati colli, a quel se torna
maggio, ogni giorno seren, ogni fiorita piaggia ecc. Il che ci
incoraggia a respingere l'interpretazione romantica che per
tutto il secolo XIX si è infanatichita per il personaggio di
Nerina. Il vero è che Silvia dagli occhi ridenti e fuggitivi
rimane sempre mito insuperabile e compiutamente espresso, e
ogni prolungamento di esso ci disturba. Del resto lo sforzo
del poeta lo si scorge chiarissimo in quel troppo frequente
interrogare, «E di te forse non odo Questi luoghi parlar?» e
via seguitando con le altre interrogazioni successive. |