L'opuscolo del
signor Ridolfi' incomincia così: «Le sublimi idee di universale
legislazione ,occuparono in ogni tempo le menti de' più grandi
ingegni, e nella serie de' secoli uscirono tratto tratto, or in un
luogo, or in un altro, opere luminose, frutto delle profonde
meditazioni di coloro i quali fisso mirarono in quella superna legge
che, come dice Tullio, è la retta ragione, conforme alla natura,
comune a tutti, costante e sempiterna». Vera o falsa che sia questa
sentenza Platonica, certo è che chi la crede e la scrive, o non è sì
versato nell'opere del Machiavelli da poterne parlare, o è già
imbevuto di tali principj da confutare tutti i principj di
Machiavelli. Questo autore non ha mai guardato liso a legge superna,
né a retta ragione, né alla conformità della natura comune a tutti,
né a costanza, né a sempiternità, né a niun'altra di sì fatte idee o
parole metafisiche; ma tutto il principio de' suoi ragionamenti si
ristringe in questa sentenza: «Dalle cose che gli uomini in altri
secoli hanno fatto, imparate ciò che nel vostro secolo dovete fare
». Onde invece di piantare un assioma a priori, come fanno i
politici metafisici, egli ha esaminati molti fatti, e ne ha ricavate
alcune regole: invece di mostrare il bene che dovrebb'essere, ha
mostrato il bene e il male che necessariamente si trovano nel mondo,
e l'utilità che si può ricavare tanto dal bene quanto dal male.
Infatti così furono intesi i libri di quest'autore da un grand'uomo
che in uno Stato più vasto e in circostanze più luminose ebbe gli
stessi uffici pubblici che il Machiavelli avea avuti nella sua
patria, e la stessa occasione di studiare le pratiche degli uomini.
Questi è Bacone di Verulamio, il quale nel libro VIII, cap. II De
argumentis scientiarum lasciò scritto: « Gratias agamus. Machiavello
et hujusmodi scriptoribus qui aperte et indissimulanter proferunt
quid homines facere soleant, non quid debeant».
Oltre i principi generali dell'autore, che sembrano mal conosciuti
dal signor Ridolfi, il confronto ch'egli istituisce delle sue opere
è così spicciolatb e meschino, che non si può trarne veruna
conseguenza fondamentale, perché in fine del conto riducesi a citare
una dozzina di passi ricavati dal Principe o dai Discorsi sopra la
Storia di Livio. Noi invece faremo un confronto assai differente, e
prima di tutto osserveremo che chi legge tutte queste opere
politiche del Machiavelli, attendendo alle date in cui furono
scritte, vede ch'egli avea per iscopo:
1° d'illuminare le fazioni della sua
patria che, togliendo la libertà, l'avevano fatta soggetta alla Casa
de' Medici;
2° d'illuminare l'Italia sul predominio
secreto che esercitavano i pontefici, i quali, o per ingrandirsi o
per arricchirsi, attiravano sempre le armi straniere;
3° d'illuminare i principi sul danno
che recavano ad essi le armi mercenarie.
Queste tre mire cospiravano tutte all'indipendenza dell'Italia, e
principalmente alla libertà della Repubblica fiorentina. Leggansi i
Discorsi, che furono scritti prima, poi l'Arte della Guerra, poi le
Storie dell'autore. E confrontandoli, si vedrà ch'egli era sempre
diretto da questo intendimento. La Vita di Castruccio Castracani è,
senza dubbio, un romanzo storico a cui fu modello la Ciropedia di
Senofonte. Ma poich'egli vedeva che le grandi rivoluzioni degli
Stati nascono sempre dal genio d'un uomo guerriero, egli volle pure
dare in qualche modo esempi all'uomo che avesse tentata sì grande
impresa. Nessuno negherà che in tutte queste opere si trovino
nobilissimi e santi precetti di giustizia, ma di giustizia non
ideale, non sovrumana, ma gagliarda e fondata sulla forza e sulla
esperienza delle nostre passioni; ma tale insomma che trovi elementi
d'utilità tanto ne' vizi, quanto nelle virtù de' mortali. Riguardo
al libro del Principe, non fa d'uopo molta penetrazione per vedere
in esso la quintessenza di tutti i principj e di tutto lo scopo del
Machiavelli; poiché si conosce evidentemente:
1° i danni causati alla libertà delle repubbliche italiane
dalla funesta preponderanza della Chiesa; 2°
le oppressioni delle città governate dai piccoli tirannetti in
Italia; 3° l'avvilimento degli Italiani
e la loro perpetua schiavitù per l'abuso delle armi mercenarie e per
l'invasione degli stranieri. Però la conclusione di quel libro è una
esortazione di liberare l'Italia dai Barbari. Taceremo per ora se
alcuni di que' precetti tendano a fare aborrire il principato;
diremo bensì che l'uomo il quale avesse dovuto fondare in que' tempi
un grande e nuovo stato in Italia, avrebbe certamente rovinato
s'egli avesse voluto mettere in pratica le teorie de' metafisici.
Diremo inoltre che pendiamo a credere che una delle mire del
Machiavelli nel Principe si fu di svelare a' popoli italiani, e
specialmente a' Fiorentini, tutte le sciagure a cui soggiacciono le
città rette da principi deboli, poveri e malfermi nel loro trono; i
quali, in difetto d'armi e di leggi, son obbligati, per mantenersi,
a pagare il più forte col danaro de' propri sudditi, ed a reggersi
colla frode.
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