CRITICA LETTERARIA: NICCOLO' MACHIAVELLI
  Stato e virtù nel Machiavelli

Autore: Federico Meinecke   Opera: L'idea della ragion di stato nella storia moderna


Il medioevo cristiano e germanico ha lasciato un retaggio di incommensurabile efficacia al mondo moderno d'occidente, e cioè il senso più acuto e doloroso per i dissidi tra la ragione di Stato e la morale e il diritto, il sentimento sempre rinnovantesi che spregiudicata ragione di Stato in sostanza è peccato, peccato contro Dio e le norme divine, peccato ancora contro la santità e l'inviolabilità del buon diritto antico. Anche il mondo antico aveva già avvertita e criticata la peccaminosità della ragione di Stato, ma non s'era addolorato troppo, La positività dei suoi valori vitali gli dava agio a considerare con una certa serenità i maneggi della ragione di Stato come sfogo di forze naturali irrefrenabili. La peccaminosità antica era una peccaminosità ingenua e non ancora terrorizzata e inquietata dall'abisso fra il cielo e l'inferno aperto poi dal cristianesimo. La visione dualistica del mondo, affermata dal cristianesimo dogmatico, influì poi profondamente anche sui tempi nei quali il cristianesimo tendeva a liberarsi dai dogmi, e improntando il problema della ragione di Stato d'una così cupa tragicità quale non aveva mai avuta nel mondo antico.
Era dunque una necessità, storica che fosse pagano colui che diede inizio alla storia dell'idea della ragione di Stato nel moderno occidente e conferì il suo nome al machiavellismo; perché soltanto un pagano, ignaro degli orrori dell'inferno, poteva accingersi con semplicità antica all'opera della sua vita di investigare l'essenza della ragione di Stato.

Niccolò Machiavelli fu il primo ad assolver questo compito. Ciò che qui importa è la sostanza della cosa, non la parola che manca ancora in lui. Machiavelli non concentrò in un termine unico i suoi concetti intorno alla ragione di Stato. Per quanto amasse le espressioni forti e sintetiche, e ne coniasse più d'una, pure proprio per idee supreme che lo animavano non sentì il bisogno di un'espressione verbale, quando la cosa gli sembrava evidente e lo pervadeva tutto. Così si è notato per esempio ch'egli non s'espresse mai intorno al vero fine ultimo dello Stato, e si è concluso erroneamente che non ci avesse meditato. Invece, come vedremo in breve, non fece che dedicarsi ad un ben determinato fine supremo dello Stato, e così pure tutto il suo pensiero politico non fu che costante riflessione sulla ragione di Stato.
Una costellazione del tutto speciale, grandiosa e impressionante insieme, ha suscitato il mondo del pensiero machiavellico, e cioè il simultaneo manifestarsi d'una catastrofe politica e di un rinnovamento spirituale. Nel secolo XV l'Italia godeva l'indipendenza nazionale e, per usare la pregnante espressione del Machiavelli (Principe, c. 20), era in un certo modo bilanciata dal sistema dei cinque Stati: Stato della Chiesa, Napoli, Firenze, Milano e Venezia, scambievolmente intenti a tenersi a freno. Nel Machiavelli, imbevuto di tutti gli elementi realistici della civiltà del rinascimento e direttamente provocato dalla istituzione allora sorgente delle legazioni stabili, venne elaborandosi un'arte politica dalle regole salde e sicure che culminava nel principio del divide et impera, insegnava a vedere le cose senza ombra di preconcetti, e superava con facilità e noncuranza le preoccupazioni religiose e morali, ma si dava ad azioni e combinazioni relativamente semplici e meccaniche. Solamente con le catastrofi che si successero in Italia dal 1494 in poi, con la invasione dei Francesi e Spagnoli, col tramontare dell'indipendenza di Napoli e di Milano, le precipitose mutazioni di governo a Firenze e, più di tutto, con la strapotente pressione straniera su tutta la penisola appenninica, si maturò lo spirito politico e raggiunse quell'acutezza, profondità e forza di passione che si rivelò nel Machiavelli. Segretario diplomatico della repubblica fiorentina fino al 1512, il Machiavelli s'imbevette di tutte le conquiste dell'arte politica italiana fino allora e cominciò già a tracciare pensieri originali proprio a questo proposito. Questi si fecero strada quando un rovinoso destino colpi lui e la repubblica nello stesso anno. Egli era un vinto, per qualche tempo un perseguitato, e per riacquistare il credito perduto gli fu necessità accarezzare i nuovi dominatori, i Medici, allora ritornati al potere. In tal guisa si aperse una scissura tra il suo interesse personale, egoistico, e l'ideale repubblicano della libertà e dello Stato-città fino allora professato. La sua grandezza sta nell'aver tentato di appianare e risolvere interiormente questo dissidio. Così dal torbido e non troppo pregevole crogiolo del suo egoismo spontaneo e spregiudicato sorsero i nuovi poderosi concetti sul rapporto di repubblica e monarchia e sulla nuova missione nazionale di quest'ultima nella cerchia dei quali si trovò anche spregiudicatamente riprodotta l'essenza della ragione di Stato, in tutti i suoi elementi puri e impuri, nobili e abietti. Nel 1513, allorché scrisse il libricino del Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, egli si trovava sul principio della quarantina, ossia in quell'età in cui gli spiriti scientifici produttivi danno spesso l'opera migliore.

Abbiamo detto dinanzi che vi dovette concorrere anche un rinnovamento spirituale. Machiavelli non assorbì in tutto il suo contenuto il movimento del rinascimento; così per esempio non partecipò delle sue esigenze religiose e speculativo-filosofiche e non valutò troppo le aspirazioni artistiche del suo tempo, anche se inconsciamente imbevuto e soffuso del suo spirito artistico. Tutta la sua passione era rivolta allo Stato, all'indagine e all'accertamento delle sue ferme, funzioni e condizioni di vita, per cui l'elemento specificamente razionale, empirico e calcolatore della civiltà del rinascimento in Italia raggiunse con lui la sua più perfetta espressione. Sennonché questo senso positivo dei problemi della politica di potenza, da sé solo non avrebbe ancora significato un pieno rinnovamento spirituale. Lo slancio e la fede che l'animarono e dai quali sorse l'ideale di una rigenerazione, erano in quanto il Machiavelli partecipò ad esso, d'origine antica. L'antichità non celebrava di certo in lui, come in tanti altri umanisti del rinascimento, una risurrezione prettamente dottrinale e letteraria, fatta di esaltazione scolastica, anemica e retorica. Qualche volta, è vero, anche il suo entusiasmo per gli eroi e pensatori antichi mostra una certa dipendenza classicistica e deficienza critica, ma nel complesso l'uomo antico risorse realmente in lui dalla comunanza di sangue e dalla tradizione che in Italia non erano mai del tutto tramontate. Quantunque il Machiavelli dimostri alla Chiesa e al cristianesimo un ossequio esteriore, spesso misto d'ironia e di critica, e per quanto sia innegabile l'influenza che esercitò su di lui il pensiero cristiano, egli è in fondo un pagano che muove al cristianesimo (Disc., II, 2) la nota grave accusa di aver resi gli uomini umili, deboli ed effeminati. Egli vagheggiava con nostalgia romantica la forza, la grandezza e la bellezza della vita antica, gli ideali della sua mondana gloria. Egli mirava ad instaurare nuovamente nei suoi diritti la forza generica sensuale-spirituale dell'uomo naturale secondo natura, nella quale grandezza dell'animo e fortezza del corpo, fuse insieme, creano eroismo. Per tal guisa egli venne a rottura con la dualistica etica cristiana che spiritualizzava unilateralmente l'uomo e ne svalutava gli istinti sensuali-naturali, ma ne conserva certi concetti inquadranti sulla distinzione del bene e del male; in sostanza però mira ad una nuova etica naturalistica, libera e decisa nel seguire la voce della natura. Chi imita la natura non può esser biasimato, disse egli ad un certo punto, volendo scusare 1c sue spensierate avventure amorose in mezzo alle serie occupazioni, ché anche la natura è piena di variazioni.

Un tale naturalismo può condurre facilmente ad un politeismo innocuo dei valori vitali. Il Machiavelli però, anche sacrificando volentieri all'altare di Venere, concentrò i vari e supremi valori della vita in ciò ch'egli chiamava virtù; concetto ricchissimo, ch'egli certamente prese dalla tradizione dell'antichità e dell'umanesimo, ma sentì e plasmò in maniera del tutto originale, e che racchiude sì delle qualità etiche, ma che doveva indicare per se stesso qualche cosa di dinamico, che la natura pone in grembo all'uomo ed è eroismo e forza a grandi imprese politiche e guerresche, ma sopra tutto nel fondare e conservare degli Stati fiorenti e segnatamente liberi Stati. Infatti i liberi Stati, di cui sommo ideale era la Roma del grande periodo repubblicano, avevano, secondo lui, i migliori requisiti per generare virtù. Questa comprendeva dunque la virtù dei cittadini e la virtù dei dominatori, devozione e sacrificio volontario di sé in favor della collettività, come anche saggezza, energia e ambizione dei grandi fondatori e reggitori di Stati. Egli considerava come virtù d'ordine superiore, quella virtù ch'era patrimonio indispensabile d'un fondatore e governatore di Stati, in quanto questa sola valeva a distillare, per mezzo di opportuni « ordinamenti », dal materiale in realtà cattivo e triste della media umanità, la virtù nel senso di virtù civile, in certo modo una virtù di second'ordine che, traendo origine da una organizzazione, invece che dalla disposizione naturale, non era così durevole e salda quanto la innata creativa virtù dei singoli grandi uomini. La distinzione della virtù in originaria e derivata è d'importanza capitale per la piena comprensione delle mire politiche del Machiavelli. Essa dimostra infatti ch'egli era ben lungi dal prestar cieca fede alla virtù naturale e indistruttibile del repubblicano, e che giudicava anche la repubblica piuttosto dall'alto, dal punto di vista del dominatore, che dal basso, dal punto di vista dell'aperta democrazia. E molto gli piaceva il proverbio allora in voga che: « in una maniera si pensa in piazza e in un'altra in palazzo » (Disc., I, 47). Il suo ideale repubblicano aveva perciò sin da bel principio una piega monarchica, in quanto egli non credeva che si potesse richiamare in vita una repubblica senza la forza di singole grandi tempre di organizzatori o dominatori. E poiché il Machiavelli era compenetrato dalla dottrina di Polibio, del ripetersi ciclico dei destini degli Stati, per cui al fiorire d'una repubblica segue di necessità un tramonto e una rovina, così per procacciare ad una di queste repubbliche decadute quel tanto di virtù che aveva perduto e di conseguenza rialzarla, egli non vedeva altro mezzo se non a sua volta la virtù creativa del singolo, una mano regia, una podestà quasi regia (Disc. I, 18, e 55), che afferrasse le redini dello Stato e lo rinnovasse. Anzi per gli Stati repubblicani già del tutto corrotti, incapaci di rigenerarsi, egli vedeva nella monarchia l'unica forma di governo ancora possibile. Per tal modo il suo concetto di virtù creò un intimo ponte di collegamento tra le tendenze repubblicane e quelle monarchiche e, senza venir meno ai suoi principii, egli poté fondare le sue speranze nel principato dei Medici, al crollare della repubblica fiorentina, e scrivere per loro il libro del Principe. Collegamento intimo che subito dopo gli permise di riprendere nei Discorsi anche il filo repubblicano e di bilanciare la repubblica col principato.


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Aggiornamenti letterari 2002 - Luigi De Bellis