CRITICA LETTERARIA: NICCOLO' MACHIAVELLI
  Storicità del Principe

Autore: Federico Chabod   Opera: Introduzione a N. Machiavelli: Il Principe


In questi mesi, dal luglio al dicembre, vien fuori il trattato « De Principatibus », il nostro Principe. Le annotazioni in margine a Livio sono tralasciate: nelle ultime d'altra parte già si avverte un insolito atteggiamento spirituale; due, tre capitoli interi in cui il popolo, che anima i Discorsi, scompare, per lasciar luogo all'individuo solitario, e il contrasto eroico delle classi e dei partiti si immiserisce nel contrasto intimo d'un uomo, di un animo chiuso. La breve opera, non destinata a creazione artistica, ma più tosto simile, nell'intendimento di chi la compose, a uno di quei tanti memoriali o discorsi sulla riforma degli stati, quali il Machiavelli stesso compose più tardi, è compiuta in rapido tempo: a dicembre, l'uomo nuovo è sbozzato, si pone già solo sulla scena politica, aspro, pensoso, impenetrabile, a comprimere in sé la vita di tutto lo stato.
Poiché, ora, ogni altra voce tace: il popolo è divenuto un volgo disperso che attende solo lo « evento della cosa », una massa amorfa su cui grava il giudizio severo di Philippe De Commynes; la nobiltà - pallida figurazione ormai che richiama con melanconico ricordo la elegia dantesca sul Medio Evo che tramonta, e il grido di dolore di Guido del Duca - non ha più unità di classe, egoismo di casta, prevenzione di stirpe: è un miscuglio vario di individui i quali vogliono opprimere il popolo, e non ne son capaci, a quella guisa in cui il popolo non vuol essere oppresso, e non ha sufficiente energia per difendersi da sé. Si immiseriscono, grandi e plebe, nell'astuzia calcolatrice di piccolo conio, nella contesa frammentaria in cui non è serietà di proposito determinato, e neppure la formale grandezza dell'eroismo personale: hai la materia, supina nell'attendere la virtù del principe che tenga « con li sua ordini » animato lo universale, e infonda la vita dove è un oscuro vegetare di sensi imbelli. La manna deve cadere dal cielo: e gli uomini stanno col becco aperto ad aspettarla.
Questa era, del resto, la conclusione naturale della storia italiana, il risultato a cui avevan condotto l'isterilirsi dello spirito comunale, la fralezza delle signorie, non fondate su una base sociale a sufficienza ampia e forte, l'abilità diplomatica dei principati, ridottisi, dopo gli ultimi vani tentativi egemonici, al giuoco delle parti, alla politica di bilanciamento e di equilibrio, alla federatio italíca; il popolo staccato dalla vita dello stato, le classi frantumate, il contado ostile alla città: il principe tiene in sé solo i motivi della sua opera. Il Rinascimento si era attuato, nella sua espressione artistico-letteraria, per entro allo sfacelo sociale e politico: il principe era l'unica figura viva, in questo mondo di letterati e di indifferenti. Ma viva, a sua volta, di una vita angusta e limitata la diplomazia era il solo campo aperto, la politica - che vuol dire capacità di lotta e coscienza di propositi e coerenza di indirizzo e intimità di creazione - era ben lontana.
Perciò, nemmeno un principe di eccezionale virtù avrebbe potuto compiere il miracolo: lo stato forte, che potesse arginare i « barbari », e permettere il libero svolgersi della vita nazionale, non poteva crearsi là ove nessuna comunanza di interessi e di passioni legava i sudditi al signore, la folla al governo, suscitando la coscienza della lotta per la difesa comune. Credere di giungere, anche mediante una eccezionale capacità di azione umana, e sagacia particolare, e parziali riforme degli ordinamenti esterni ad assicurare l'esistenza a un organismo che più non la trovava in sé, era un'illusione.

E bene quindi si apponeva il Guicciardini, diplomatico e mercante, che scansava i pericoli dell'immaginazione fermandosi nella calma, un po' melanconica, del desiderio. Lui l'Italia la vorrebbe libera; ma è inutile pensarci su, e anzi, poiché di barbari non se ne può fare a meno, tanto vale ce ne siano due, acciò almeno, tra i loro contrasti, si possano più tranquillamente rimanere le città sottomesse. Il bilanciamento delle forze, il giuoco delle parti, egli lo svolge in grande, lo porta nel campo della politica europea, sperando di salvar con quello la ristretta vita cittadina, come infatti altra volta per esso si eran salvate Firenze e Ferrara dalle brame insaziabili di Venezia e di Napoli. Ma non si accorge, a sua volta, come, mutandosi i protagonisti del delicato congegno, anche questo muti un po' del suo ritmo.
E Niccolò invece, che proprio or ora ha cercata la gloria di Roma, per la prima volta, nella lotta diuturna delle sue classi sociali, che ci ha ancora l'animo commosso per quel tumultuare di libere contese, e ha detto, ben chiaro, come a voler far grande uno stato occorra render cittadini, e non sudditi, coloro i quali si aggiungono per conquista, rinnegando così tutta la storia comunale italiana e palesandone sicuramente la intima debolezza; che dovrebbe pertanto accorgersi della definitiva rovina d'Italia, e cercar solo di rabberciarne alla meglio le sorti, con maneggi diplomatici: Niccolò si lascia riprendere dalla sua immaginazione, dimentica i Discorsi, e costruisce, febbrilmente, i lineamenti dello stato nuovo. Supera, con miracolosa potenza di fantasia politica, la storia dell'ultimo quattrocento; si riafferra alla politica di Gian Galeazzo e di Ladislao di Napoli, alla prima e grande politica signorile: la integra, con la capacità ricostruttrice ch'è di lui solo, e torna a proporla, allora quando la possibilità pratica non esiste più.
Cerca, attorno a sé, qualche figura in cui appaiano segni non dubbi di valore; trova il Valentino, lo compie, a suo modo, con un po' di Ferdinando il Cattolico, di Francesco Sforza, di Luigi XI: e suggerisce i rimedi ad ogni accidente, corregge le storture dei governi passati, credendo, con simili dettagli, di raddrizzare un edificio a cui son venute mancando le fondamenta. Anzi, l'errore vero egli l'ha trovato, la causa di ogni sventura è chiara: le armi mercenarie, nequizia dei principi, i quali, beati di belle frasi, di un'abile negoziazione, hanno rinnegato l'unica arte loro - e così l'Italia è stata corsa, forzata, vituperata, ed essi son divenuti privati.

Il Principe si accentua, non soltanto nella materiale disposizione, ma sì ben nello spirito che lo pervade, in questi capitoli sulla milizia: qui è la piaga che deve sanarsi. Lo stile stesso acquista accenti di insolita commozione; l'invettiva, il dolore, dianzi contenuti in una parola rapida, in un velato trapassar del periodo, o anche in una finissima ironia che si avverte a pena, tanto corre tra parola e parola, qui balzan fuori, improvvisi: hai il primo turbamento della passione, che travolgerà poscia l'ordito logico nella concitazione della chiusa, e più tardi riappare, esacerbata, ma senza speranza, nel finale dell'Arte della guerra.
Per vero, concependo la possibilità della milizia nazionale - le armi affidate ai cittadini, lo Stato difeso da coloro che lo formano il Machiavelli esce dalla storia angusta de' tempi, dai risultamenti immediati della civiltà italiana, e segna un'orma nuova: qui egli non più riprende i motivi di svolgimento della politica italiana, ma li compie. Senonché, egli poi non s'avvede come a tal rivoluzione nell'arte militare debba corrispondere ugual rinnovamento politico-sociale: la milizia cittadina non può essere se non là ove lo Stato viva, giorno per giorno, nell'intima coscienza del popolo; e quindi deve crollare il Principato, quale egli lo vede. Il solo enunciare la base e militare nuova dovrebbe significare la rinunzia alla creazione del Principe.
Egli non se n'accorge, e si ferma a metà; s'ispira all'esempio di Francia, di Svizzera, di Roma repubblicana, senz'avvedersi che i suoi modelli nascondono un intimo valore, quello per l'appunto di cui la civiltà italiana non è più capace. I suoi precetti li potrà seguire, dopo non molti anni, un principe che condurrà per la prima volta sulla scena politica d'Italia il suo popolo di montanari rozzi e poveri, ma forti: ma la monarchia di Emanuele Filiberto non è il principato italiano.
Così, il principe non venne; e la piccola opera, scritta in giorni inquieti, quando miracolosi eventi parevano profilarsi di lontano, è accolta con disprezzo da Lorenzo de' Medici: il povero nipote di Leone X preferisce al libretto non ripieno di «parole ampullose» i cani da caccia, e il Machiavelli si ha una nuova ripulsa.
Ma egli, nella concitazione del lavoro, non s'avvede quanto sia debole il castelluccio che vuol costruire; e scrive senza esitanza.

Abbiamo in tal modo l'ordito logico. Poiché, ben diverso in ciò dal Savonarola, in cui il motivo fondamentale è la ribellione al tempo e alle condizioni storiche, Niccolò parte dall'accettazione di queste, almeno nel loro tessuto fondamentale; il suo spirito, profondamente unito alla storia del momento, si è affinato, scaltrito, nel non inutile lavorio di dodici anni: e di questa sua sicurezza di analisi, di tale serenità logica e di tale aderenza alla vita varia e vivace, egli si vale per costruire le grandi linee del suo quadro. In lui la serenità e la cautela del ragionamento non contrastano con l'immaginazione: quest'ultima, soltanto, gli permette, in seguito al rilievo dei frammenti, di riunirli in ultima visione, di ricrearli in una organicità perfetta di cui essi sono i singoli spunti. Gli altri, i diplomatici, si fermano al primo momento, non concepiscono la possibilità di una costruzione nuova, e si chiudono nella loro finezza e discrezione; il Savonarola non è capace di contenere la sua passionalità sino al punto da formularla in un ordito coerente e sicuro, ed investirla delle minutissime sfumature onde pur è ricca la vita; egli invece sa valersi della sua esperienza ormai ricca di motivi per tramutarla, con la immaginazione, in un nuovo svolgimento politico. Questo gli permetterà di segnare un'impronta tutta sua, nella storia del pensiero politico, da cui le generazioni seguenti - e non italiane - trarranno a lor volta conclusioni più aperte e sicure; degli altri, il frate domenicano non può che lasciare dietro a sé un momentaneo e rado risveglio di coscienza, in alcuni pochi, i diplomatici fermano le supreme linee della civiltà italiana, iniziando al più la vita granducale, monotona, discreta, angusta.

Così, dei ventisei capitoli che compongono il Principe, venticinque sono rigidamente logici; il ragionamento fila diritto, senza sbandamenti né soste, l'analisi si svolge, finissima e incisiva, il pensiero si costringe in una compostezza sicura e cauta, che distingue e precisa; lo Stato nuovo vien fuori, grado a grado, contessuto di molteplici elementi, tutti vagliati ad uno ad uno e saggiati nella loro effettiva resistenza.
I caratteri, il Machiavelli non li ha da cercar molto lontano: in quella turba di principotti e di condottieri che attristano le città dell'Italia centrale, egli ritrova i frammenti sparsi del suo Principe, i singoli rilievi atti ad esser ricreati nella figura più compiuta e più coerente. La memoria gli è a sufficienza agile, perch'egli ricordi uomini della più vicina storia: un Sigismondo Malatesta, ad esempio, volpe e lione al tempo stesso, condottiere e diplomatico, abile in sventar le mosse di eserciti nemici o nell'ordir trame sottilissime, in cui si perde la sagacia de' rivali. Da questi uomini, e da altri ancora - è inquietante, nello sfondo, quel volto troppo queto e pacato di Ferdinando il Cattolico, e dànno a pensare quelle sue parole tutte fede, tutte pace, colpe obbliga a riflettere la capacità militare di Francesco Sforza -, da una esperienza così ricca, varia, contessuta di elementi diversissimi, trae Niccolò i particolari del suo quadro. Onde, in questo serrarsi del pensiero che teorizza e pone ordinatamente le sue massime, con tranquilla sicurezza, tu avverti, sempre, fluire nel fondo una realtà vivace e concreta, e senti riecheggiare, continuamente, la nota storica che si trasfonde senza scosse nell'affermazione incisiva e quasi autoritaria; e non è più discernibile con esattezza qual sia la parte dell'esperienza e quale il sovrapporsi dell'immaginazione, né si può staccare la voce del inondo da quella della logica e poi dell'animo.

Ci è la freschezza e il vigore dell'azione minuta, colta nel vivo e fissata a volte in un'immagine, a volte sottilmente velata dal precetto rapido e chiaro; ci è la capacità di afferrare, degli eventi, i motivi dominanti e di analizzarli con serena cautela; e infine ci è la immaginazione, la quale, come gli ha permesso di concepire la possibilità del Principe, così ora, nel lavoro, gli consente di raccogliere tutte le notizie e le riflessioni sparse, di ricrearle in unità del tutto impreveduta, di trasformarli in nuova, se pur solo sperata, esperienza politica. E ti vien fuori la lotta politica, affermata con naturale sicurezza: lo Stato agisce e conquista e distrugge, senza dover render conto ad alcuno; esso è già il supremo valore. Gli manca ancora, per adesso, la pienezza di vita intima - quel suo continuo vivere nell'animo del popolo chiamato a crearlo ora per ora; è pertanto formale, come la lotta politica è soltanto esterna: ma intanto non ricerca più al di fuori di sé le ragioni della sua esistenza. Non le ricerca nemmeno nel suo intimo: si trova effigiato nel suo momento di equilibrio, mai più raggiunto, che non ricerca nulla e non ha bisogno di giustificazioni o di chiarimenti.


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