In questi mesi, dal
luglio al dicembre, vien fuori il trattato « De Principatibus », il
nostro Principe. Le annotazioni in margine a Livio sono tralasciate:
nelle ultime d'altra parte già si avverte un insolito atteggiamento
spirituale; due, tre capitoli interi in cui il popolo, che anima i
Discorsi, scompare, per lasciar luogo all'individuo solitario, e il
contrasto eroico delle classi e dei partiti si immiserisce nel
contrasto intimo d'un uomo, di un animo chiuso. La breve opera, non
destinata a creazione artistica, ma più tosto simile,
nell'intendimento di chi la compose, a uno di quei tanti memoriali o
discorsi sulla riforma degli stati, quali il Machiavelli stesso
compose più tardi, è compiuta in rapido tempo: a dicembre, l'uomo
nuovo è sbozzato, si pone già solo sulla scena politica, aspro,
pensoso, impenetrabile, a comprimere in sé la vita di tutto lo
stato.
Poiché, ora, ogni altra voce tace: il popolo è divenuto un volgo
disperso che attende solo lo « evento della cosa », una massa amorfa
su cui grava il giudizio severo di Philippe De Commynes; la nobiltà
- pallida figurazione ormai che richiama con melanconico ricordo la
elegia dantesca sul Medio Evo che tramonta, e il grido di dolore di
Guido del Duca - non ha più unità di classe, egoismo di casta,
prevenzione di stirpe: è un miscuglio vario di individui i quali
vogliono opprimere il popolo, e non ne son capaci, a quella guisa in
cui il popolo non vuol essere oppresso, e non ha sufficiente energia
per difendersi da sé. Si immiseriscono, grandi e plebe, nell'astuzia
calcolatrice di piccolo conio, nella contesa frammentaria in cui non
è serietà di proposito determinato, e neppure la formale grandezza
dell'eroismo personale: hai la materia, supina nell'attendere la
virtù del principe che tenga « con li sua ordini » animato lo
universale, e infonda la vita dove è un oscuro vegetare di sensi
imbelli. La manna deve cadere dal cielo: e gli uomini stanno col
becco aperto ad aspettarla.
Questa era, del resto, la conclusione naturale della storia
italiana, il risultato a cui avevan condotto l'isterilirsi dello
spirito comunale, la fralezza delle signorie, non fondate su una
base sociale a sufficienza ampia e forte, l'abilità diplomatica dei
principati, ridottisi, dopo gli ultimi vani tentativi egemonici, al
giuoco delle parti, alla politica di bilanciamento e di equilibrio,
alla federatio italíca; il popolo staccato dalla vita dello stato,
le classi frantumate, il contado ostile alla città: il principe
tiene in sé solo i motivi della sua opera. Il Rinascimento si era
attuato, nella sua espressione artistico-letteraria, per entro allo
sfacelo sociale e politico: il principe era l'unica figura viva, in
questo mondo di letterati e di indifferenti. Ma viva, a sua volta,
di una vita angusta e limitata la diplomazia era il solo campo
aperto, la politica - che vuol dire capacità di lotta e coscienza di
propositi e coerenza di indirizzo e intimità di creazione - era ben
lontana.
Perciò, nemmeno un principe di eccezionale virtù avrebbe potuto
compiere il miracolo: lo stato forte, che potesse arginare i «
barbari », e permettere il libero svolgersi della vita nazionale,
non poteva crearsi là ove nessuna comunanza di interessi e di
passioni legava i sudditi al signore, la folla al governo,
suscitando la coscienza della lotta per la difesa comune. Credere di
giungere, anche mediante una eccezionale capacità di azione umana, e
sagacia particolare, e parziali riforme degli ordinamenti esterni ad
assicurare l'esistenza a un organismo che più non la trovava in sé,
era un'illusione.
E bene quindi si apponeva il Guicciardini, diplomatico e mercante,
che scansava i pericoli dell'immaginazione fermandosi nella calma,
un po' melanconica, del desiderio. Lui l'Italia la vorrebbe libera;
ma è inutile pensarci su, e anzi, poiché di barbari non se ne può
fare a meno, tanto vale ce ne siano due, acciò almeno, tra i loro
contrasti, si possano più tranquillamente rimanere le città
sottomesse. Il bilanciamento delle forze, il giuoco delle parti,
egli lo svolge in grande, lo porta nel campo della politica europea,
sperando di salvar con quello la ristretta vita cittadina, come
infatti altra volta per esso si eran salvate Firenze e Ferrara dalle
brame insaziabili di Venezia e di Napoli. Ma non si accorge, a sua
volta, come, mutandosi i protagonisti del delicato congegno, anche
questo muti un po' del suo ritmo.
E Niccolò invece, che proprio or ora ha cercata la gloria di Roma,
per la prima volta, nella lotta diuturna delle sue classi sociali,
che ci ha ancora l'animo commosso per quel tumultuare di libere
contese, e ha detto, ben chiaro, come a voler far grande uno stato
occorra render cittadini, e non sudditi, coloro i quali si
aggiungono per conquista, rinnegando così tutta la storia comunale
italiana e palesandone sicuramente la intima debolezza; che dovrebbe
pertanto accorgersi della definitiva rovina d'Italia, e cercar solo
di rabberciarne alla meglio le sorti, con maneggi diplomatici:
Niccolò si lascia riprendere dalla sua immaginazione, dimentica i
Discorsi, e costruisce, febbrilmente, i lineamenti dello stato
nuovo. Supera, con miracolosa potenza di fantasia politica, la
storia dell'ultimo quattrocento; si riafferra alla politica di Gian
Galeazzo e di Ladislao di Napoli, alla prima e grande politica
signorile: la integra, con la capacità ricostruttrice ch'è di lui
solo, e torna a proporla, allora quando la possibilità pratica non
esiste più.
Cerca, attorno a sé, qualche figura in cui appaiano segni non dubbi
di valore; trova il Valentino, lo compie, a suo modo, con un po' di
Ferdinando il Cattolico, di Francesco Sforza, di Luigi XI: e
suggerisce i rimedi ad ogni accidente, corregge le storture dei
governi passati, credendo, con simili dettagli, di raddrizzare un
edificio a cui son venute mancando le fondamenta. Anzi, l'errore
vero egli l'ha trovato, la causa di ogni sventura è chiara: le armi
mercenarie, nequizia dei principi, i quali, beati di belle frasi, di
un'abile negoziazione, hanno rinnegato l'unica arte loro - e così
l'Italia è stata corsa, forzata, vituperata, ed essi son divenuti
privati.
Il Principe si accentua, non soltanto nella materiale disposizione,
ma sì ben nello spirito che lo pervade, in questi capitoli sulla
milizia: qui è la piaga che deve sanarsi. Lo stile stesso acquista
accenti di insolita commozione; l'invettiva, il dolore, dianzi
contenuti in una parola rapida, in un velato trapassar del periodo,
o anche in una finissima ironia che si avverte a pena, tanto corre
tra parola e parola, qui balzan fuori, improvvisi: hai il primo
turbamento della passione, che travolgerà poscia l'ordito logico
nella concitazione della chiusa, e più tardi riappare, esacerbata,
ma senza speranza, nel finale dell'Arte della guerra.
Per vero, concependo la possibilità della milizia nazionale - le
armi affidate ai cittadini, lo Stato difeso da coloro che lo formano
il Machiavelli esce dalla storia angusta de' tempi, dai risultamenti
immediati della civiltà italiana, e segna un'orma nuova: qui egli
non più riprende i motivi di svolgimento della politica italiana, ma
li compie. Senonché, egli poi non s'avvede come a tal rivoluzione
nell'arte militare debba corrispondere ugual rinnovamento
politico-sociale: la milizia cittadina non può essere se non là ove
lo Stato viva, giorno per giorno, nell'intima coscienza del popolo;
e quindi deve crollare il Principato, quale egli lo vede. Il solo
enunciare la base e militare nuova dovrebbe significare la rinunzia
alla creazione del Principe.
Egli non se n'accorge, e si ferma a metà; s'ispira all'esempio di
Francia, di Svizzera, di Roma repubblicana, senz'avvedersi che i
suoi modelli nascondono un intimo valore, quello per l'appunto di
cui la civiltà italiana non è più capace. I suoi precetti li potrà
seguire, dopo non molti anni, un principe che condurrà per la prima
volta sulla scena politica d'Italia il suo popolo di montanari rozzi
e poveri, ma forti: ma la monarchia di Emanuele Filiberto non è il
principato italiano.
Così, il principe non venne; e la piccola opera, scritta in giorni
inquieti, quando miracolosi eventi parevano profilarsi di lontano, è
accolta con disprezzo da Lorenzo de' Medici: il povero nipote di
Leone X preferisce al libretto non ripieno di «parole ampullose» i
cani da caccia, e il Machiavelli si ha una nuova ripulsa.
Ma egli, nella concitazione del lavoro, non s'avvede quanto sia
debole il castelluccio che vuol costruire; e scrive senza esitanza.
Abbiamo in tal modo l'ordito logico. Poiché, ben diverso in ciò dal
Savonarola, in cui il motivo fondamentale è la ribellione al tempo e
alle condizioni storiche, Niccolò parte dall'accettazione di queste,
almeno nel loro tessuto fondamentale; il suo spirito, profondamente
unito alla storia del momento, si è affinato, scaltrito, nel non
inutile lavorio di dodici anni: e di questa sua sicurezza di
analisi, di tale serenità logica e di tale aderenza alla vita varia
e vivace, egli si vale per costruire le grandi linee del suo quadro.
In lui la serenità e la cautela del ragionamento non contrastano con
l'immaginazione: quest'ultima, soltanto, gli permette, in seguito al
rilievo dei frammenti, di riunirli in ultima visione, di ricrearli
in una organicità perfetta di cui essi sono i singoli spunti. Gli
altri, i diplomatici, si fermano al primo momento, non concepiscono
la possibilità di una costruzione nuova, e si chiudono nella loro
finezza e discrezione; il Savonarola non è capace di contenere la
sua passionalità sino al punto da formularla in un ordito coerente e
sicuro, ed investirla delle minutissime sfumature onde pur è ricca
la vita; egli invece sa valersi della sua esperienza ormai ricca di
motivi per tramutarla, con la immaginazione, in un nuovo svolgimento
politico. Questo gli permetterà di segnare un'impronta tutta sua,
nella storia del pensiero politico, da cui le generazioni seguenti -
e non italiane - trarranno a lor volta conclusioni più aperte e
sicure; degli altri, il frate domenicano non può che lasciare dietro
a sé un momentaneo e rado risveglio di coscienza, in alcuni pochi, i
diplomatici fermano le supreme linee della civiltà italiana,
iniziando al più la vita granducale, monotona, discreta, angusta.
Così, dei ventisei capitoli che compongono il Principe, venticinque
sono rigidamente logici; il ragionamento fila diritto, senza
sbandamenti né soste, l'analisi si svolge, finissima e incisiva, il
pensiero si costringe in una compostezza sicura e cauta, che
distingue e precisa; lo Stato nuovo vien fuori, grado a grado,
contessuto di molteplici elementi, tutti vagliati ad uno ad uno e
saggiati nella loro effettiva resistenza.
I caratteri, il Machiavelli non li ha da cercar molto lontano: in
quella turba di principotti e di condottieri che attristano le città
dell'Italia centrale, egli ritrova i frammenti sparsi del suo
Principe, i singoli rilievi atti ad esser ricreati nella figura più
compiuta e più coerente. La memoria gli è a sufficienza agile,
perch'egli ricordi uomini della più vicina storia: un Sigismondo
Malatesta, ad esempio, volpe e lione al tempo stesso, condottiere e
diplomatico, abile in sventar le mosse di eserciti nemici o
nell'ordir trame sottilissime, in cui si perde la sagacia de'
rivali. Da questi uomini, e da altri ancora - è inquietante, nello
sfondo, quel volto troppo queto e pacato di Ferdinando il Cattolico,
e dànno a pensare quelle sue parole tutte fede, tutte pace, colpe
obbliga a riflettere la capacità militare di Francesco Sforza -, da
una esperienza così ricca, varia, contessuta di elementi
diversissimi, trae Niccolò i particolari del suo quadro. Onde, in
questo serrarsi del pensiero che teorizza e pone ordinatamente le
sue massime, con tranquilla sicurezza, tu avverti, sempre, fluire
nel fondo una realtà vivace e concreta, e senti riecheggiare,
continuamente, la nota storica che si trasfonde senza scosse
nell'affermazione incisiva e quasi autoritaria; e non è più
discernibile con esattezza qual sia la parte dell'esperienza e quale
il sovrapporsi dell'immaginazione, né si può staccare la voce del
inondo da quella della logica e poi dell'animo.
Ci è la freschezza e il vigore dell'azione minuta, colta nel vivo e
fissata a volte in un'immagine, a volte sottilmente velata dal
precetto rapido e chiaro; ci è la capacità di afferrare, degli
eventi, i motivi dominanti e di analizzarli con serena cautela; e
infine ci è la immaginazione, la quale, come gli ha permesso di
concepire la possibilità del Principe, così ora, nel lavoro, gli
consente di raccogliere tutte le notizie e le riflessioni sparse, di
ricrearle in unità del tutto impreveduta, di trasformarli in nuova,
se pur solo sperata, esperienza politica. E ti vien fuori la lotta
politica, affermata con naturale sicurezza: lo Stato agisce e
conquista e distrugge, senza dover render conto ad alcuno; esso è
già il supremo valore. Gli manca ancora, per adesso, la pienezza di
vita intima - quel suo continuo vivere nell'animo del popolo
chiamato a crearlo ora per ora; è pertanto formale, come la lotta
politica è soltanto esterna: ma intanto non ricerca più al di fuori
di sé le ragioni della sua esistenza. Non le ricerca nemmeno nel suo
intimo: si trova effigiato nel suo momento di equilibrio, mai più
raggiunto, che non ricerca nulla e non ha bisogno di giustificazioni
o di chiarimenti.
|