CRITICA LETTERARIA: NICCOLO' MACHIAVELLI
  Il Machiavelli artista eroe della tecnica politica

Autore: Luigi Russo  Opera: Machiavelli


A noi pare che il Machiavelli non può essere giudicato con l'occhio del piagnone, ma neanche con quello dell'uomo savio del Guicciardini a meglio di un pseudo Guicciardini, né con quello di un tormentato romantico. Sul piagnone, siamo ormai tutti d'accordo; ma quanto all'uomo savio del Guicciardini, almeno così come è stato stilizzato in una celebre ricostruzione del De Sanctis, dobbiamo ricordare che esso è là negazione più elegante e più smagata al tempo stesso dell'uomo del Machiavelli che, nella scienza dell'interesse puro, pur riesce a una forma di eroico disinteresse, ed ha qualcosa di estremo e di rettilineo che lo fa superiore ad ogni mediocre contingenza: il guicciardinismo può essere una sorta di scettica benevolenza, ma non mai la maniera più intelligente per cogliere il fondo dell'animo e del pensiero del nostro artista eroe della politica pura. E quanto alla interpretazione del romantico, essa non potrà mai illuminarci sulla sublime freddezza dello stile machiavellico, e nulla ci potrà dire sulla serenità motteggiatrice dell'uomo, e sulla classica compostezza e conclusività dell'opera sua. Machiavelli non è un uomo di azione mancato e un teorico puro, come vogliono i praticoni; e nemmeno è un'anima perpetuamente dimidiata tra il suo fare e il suo meditare, una crucciata anima del limbo, irrequieta pur un suo magnanimo e insoddisfatto disio. Machiavelli è un artistaeroe della sua scienza, l'artista-eroe della politica pura, il quale dell'artista ha l'incanto e il disinteresse dell'esperienza, e dell'eroe ha il pathos e la logica rettilinea. In questa serenità e disinteresse e in questo suo pathos è l'unità della sua vita e del suo pensiero, che non appare turbata né da effettivi mancamenti, né diminuita o accresciuta da patetici contrasti. Pratica politica e dottrina politica, in lui, sono un solo problema.

Gli uffici cancellereschi, le sue legazioni, le sue commissarìe sono una sublimazione di esperienza (egli trascende sempre i particolari gretti della situazione, per cogliere il motivo universale degli avvenimenti) ; e, per altro verso, i suoi discorsi, i suoi dialoghi, le sue varie Scritture sono esperienze che vogliono valere come una res gesta. In ogni caso, egli è sempre un creatore politico, e del creatore ha la logica estrema. Coree diplomatico dovrebbe fornire notizie utili alla Signoria, perché questa prenda le sue decisioni, ma egli, nell'atmosfera accesa del suo cervello, giudica, manda, e conclude per proprio conto, consuma in pieno la sua azione politica. « Del iudicio rimettetevene a altri » bada a ripetergli il buon Biagio Buonaccorsi, esprimendo, con tali parole, gli umori della Signoria, che non vuol saperne degli ammonimenti e consigli di messer Niccolò; ma egli non se ne dà per inteso. Le sue migliaia di lettere ai Signori, e ai Dieci, i suoi avvisi, le sue relazioni, sono dei saggi critici provvisori, in cui egli viene elaborando il concetto nuovo della politica certa, effettuale, da lui vagheggiata; sono gli abbozzi del suo sistema scientifico. Ma abbozzi non già d'ordine pratico, distolti, in tempi successivi, ad essere materia di una sistemazione superiore; abbozzi scientifici, essi stessi, fin nella loro prima ispirazione.
Le legazioni alla corte di Francia si risolvono in un breve scritto sul De natura Gallorum, e poi, più tardi, nel Ritratto delle cose di Francia, e dalle legazioni all'imperatore Massimiliano in Germania germinarono il Rapporto delle cose d'Alemagna, il Discorso sopra le cose della Magra e sopra l'Imperatore, il Ritratto delle cose della Magna: aggiunte parziali, come il secondo di questi tre scritti, o relazioni sempre più ampie o più profonde e complesse, in cui egli vien sistemando, senza riposo, le sue esperienze. Le quali dunque trascendono sempre i bisogni pedestri, immediati, di quelle sue missioni d'ufficio, e celebrano uomini avvenimenti e situazioni nel cielo universale della storia e del pensiero politico; e però quelle relazioni e lettere parche non giovino alle occasioni spicciole, ma ci danno intanto il « sapore » di quelle occasioni, che è quel sapore che rimane, il quale opera come lievito nel mondo, e ci fa eternamente presenti uomini e situazioni. In questo senso, 1e singole esperienze del Machiavelli si presentano non come una res gesta conclusa una volta per sempre, ma come un rem gerere perpetuo. Il Machiavelli, uomo d'azione mediocre o mancato nell'oggi, opera come un uomo di azione nell'eternità...

Però il Machiavelli è potuto apparire come un uomo pratico mancato, mentre egli invigilava alla pratica eterna della vita; e, in verità, il suo gagliardo senso dell'universale poteva essere facilmente scambiato per povertà di motivi spiccioli della sua politica in atto. La quale piccola politica va certamente studiata e valutata, e gli storici fanno bene a discorrere dei servigi resi alla Signoria fiorentina dal nostro segretario; ma, nelle loro accuse o giustificazioni, spesse volte è trascurato il canone necessario che quella politica occasionale va guardata nel quadro di una più grande politica, della politica della Ragione eterna, non della piccola ed effimera ragione. Niccolò Machiavelli serve implicItamente alla repubblica fiorentina, ma perché serve alle repubbliche e agli Stati di ogni tempo: la sua preoccupazione fondamentale è questa non l'altra. Appunto perché la sua era la passione per la tecnica  politica nella sua purezza, egli finiva con l'essere l'artista incantato del suo stesso osservare e speculare: la tecnica per la tecnica, si potrebbe dire, è l'insegna storica del suo pensiero e della sua azione.
Si è tante volte parlato del Machiavelli artista, e si è guardato ed esaltato la concinnità del suo stile o le sue qualità drammatiche di impassibile narratore, e si sono indicate questa e quella gemma lirica delle sue prose e dei suoi versi; ma l'arte per noi non è nelle forme, e non è nei luoghi, ma nell'atteggiamento. E il Machiavelli fu artista, in questo senso superiore: ché egli guardò alla politica e alla vita, con fantasia disinteressata del «povero manovale» carducciano. Guarda come ascenda in alto e risplenda il suo strale d'oro, guarda e gode, e più non vuole.
Ogni sua esperienza è sempre rasserenata in questo superiore sorriso dell'artista, anche quelle che sono le esperienze più umilianti e le più dispettose...

Se conosciamo un Machiavelli artista nelle esperienze disinteressate della vita politica e morale del suo tempo, ritroviamo poi un Machiavelli eroe nel vivere e nel condurre la logica del suo pensiero fino alle sue forme estreme. Per questo lato, il Machiavelli è un temperamento estremista; l'uomo che deprecò le vie di mezzo in politica, non amò nemmeno l'aurea mediocrità delle opinioni nel campo scientifico. « Meglio essere impetuoso che respettivo », è una sentenza del Principe, e come uomo di studi e come scrittore, il nostro autore fu egli stesso più impetuoso che respettivo: quel forzare gli avvenimenti con l'accesa maginazione; la stessa violenza esercitata sui fatti storici spesso tratti e dimostrazioni più impensate; il categorizzare continuo le osservazioni particolari in princìpi di carattere universale; il sentire le istorie, più che come racconto di cose compiute, esse stesse come una res gerenda il favore accordato sempre alle decisioni e ai pensieri estremi, tutto a testimoniare cotesta impetuosità del suo temperamento mentale, pur riuscendo egli a distillare i suoi pensieri in opere lucidamente e freddamente scientifiche.
In cotesto gusto artistico ed eroico al tempo stesso delle sue esperienze, tratte alle loro più estreme conseguenze quasi per vincerne le intrinseche aporie e antinomie, noi fondiamo quel pathos della tecnica, che ci pare caratteristica più vera della mente e dell'animo del Machiavelli, lontanissimo dal puritanesimo dei piagnoni, ma anche lontano dalla saviezza smagata ed elegante del Guicciardini, e dalla drammaticità tribolata dei romantici. Per quella poesia della tecnica politica in sé e per sé, egli poté auspicare il trionfo di un principe che riducesse sotto il suo governo la provincia d'Italia, e al tempo stesso dolersi che un Luigi XII, un re francioso, barbaro però, commettesse una serie infinita di errori, che gli compromisero il dominio delle terre italiane. E in quello stesso trattato, che doveva fondare l'animo di un principe italiano alla grande impresa dell'unificazione, lo scrittore può ricordare la sua risentita risposta all'arcivescovo di Roano « che e Franzesi non si intendevano dello Stato », sol perché essi lasciavano venire la Chiesa in tanta grandezza, che era poi la grandezza stessa di quel Valentino, assunto dal nostro autore a principe-mito della sua dottrina. Per questa poesia della tecnica pura, egli poté provvedere al tempo stesso a legiferare sugli ordinamenti repubblicani e a suggerire le norme per il più antidemocratico principato, donde l'apparente contraddizione tra lo stato d'animo dei Discorsi e lo stato d'animo del Principe. E con uguale compiacimento e spirito di obiettività scientifica, poté egli proporsi il caso del principe che giunge al governo per la sua virtù o per il favore dei suoi cittadini, e quello del principe che vi giunge per le vie nefarie, e illustrare le arti dell'uno e le arti dell'altro per consolidarsi bene nello Stato; perché se non si può « chiamare virtù ammazzare e sua cittadini, tradire li amici, essere sanza fede, sanza pietà, sanza religione », pure chi considerasse la virtù di un Agatocle « nello entrare e nello uscire de' periculi, e la grandezza dello animo suo nel sopportare e superare le cose avverse, non si vede perché egli abbia ad essere indicato inferiore a qualunque eccellentissimo capitano ». E negli stessi Discorsi, dove depreca la tirannide come antipolitica, ché gli uomini non s'avvedono « per questo partito quanta fama, quanta gloria, quanto onore, sicurtà, quiete, con soddisfazione d'animo, ci fuggono, e in quanta infamia, vituperio, biasimo, pericolo e inquietudine incorrono », egli discorre il caso di un principe che non avesse altro rimedio a tenere il suo principato, e riconosce la necessità che questi entri risolutamente nelle vie più crudeli, e pigli per sua mira quel Filippo di Macedonia che tramutava gli uomini di provincia in provincia, « come e mandriani tramutano le mandrie loro ».

Sono questi modi crudelissimi - chiosa il nostro autore - e nimici d'ogni vivere, non solamente cristiano, ma umano; e debbegli qualunque uomo fuggire, e volere, piuttosto vivere privato, che  con tanta rovina degli uomini; nondimeno, colui che non vuole pigliare quella prima via del bene, quando si voglia mantenere conviene che entri in questo male.

Può ancora il Machiavelli esaltarsi nel sentimento delle libertà repubblicane, e notare come il nome della libertà e gli ordini antichi suoi « né per la lunghezza de' tempi né per benefizi mai si dimenticano », pure non mancherà egli stesso di ricordare al principe che < chi diviene padrone di una città consueta a vivere libera, e non la disfaccia, aspetti di essere disfatto da quella »; sicché la via più sicura, per dominare le repubbliche, è « spegnerle o abitarvi ». Può talora il Machiavelli celebrare negli antichi popoli l'affezione del vivere libero, e numerare tutti i vantaggi della libertà, maggiori popoli, connubi più fecondi, moltiplicazione della ricchezza, incremento delle arti e della cultura, ma può al tempo stesso celebrare la prudenza e la virtù dei Romani che seppero fiaccare quelle libertà e superare i popoli d'intorno, nonostante che, nello stesso capitolo si affretti a riconoscere che « di tutte le servitù dure, quella è durissima che ti sottomette a una repubblica », « perchè il fine della repubblica è enervare e indebolire, per accrescere il corpo suo, tutti gli altri corpi ». Ed egli stesso si adopererà per vari anni, sotto il governo del buon Soderini, e a ordinare milizie e a guidare ardui lavori d'ingegneria, come la progettata deviazione dell'Arno, per sottomettere a Firenze la città di Pisa, sebbene volentieri riconosca che « Pisa dopo cento anni che l'era suta posta in servitù da' Fiorentini », « non mai sdimenticò il nome della libertà né quegli ordini, e subito, in ogni accidente, vi ricorse ». E ancora, nel capitolo sulle congiure, può analizzare la tecnica delle cospirazioni e dal punto di vista del principe e insieme dal punto di vista dei congiurati, e assegnare le ragioni del loro fallimento o del loro successo, dei loro pericoli e della loro necessità; e compiacersi che Cesare confermi una sua regola, poiché, per avere il popolo di Roma amico, fu vendicato da lui. Proprio quel Cesare, simbolo per Machiavelli di tirannide, e che in altra occasione gli suggerisce una delle sue pagine più eloquenti e più fosche, e anche piuttosto di bravura letteraria, sulla corruttela della schiavitù politica, e gli fa riconoscere con amara ironia « quanti obblighi Roma, l'Italia, e il mondo, abbia » con quell'imperatore. Tanta è la passione del nostro scrittore per la tecnica della politica pura.

La quale va sempre riguardata in tutte le sue parti, e con assoluta obiettività; però, per la stessa ragione, può egli, caduto il regime repubblicano in Firenze per il quale tanto si era industriato, chiedere di essere adoperato dai Medici, senza temere taccia di incoerenza politica, ché anzi « della fede sua non si dovrebbe dubitare, perché, avendo sempre osservato la fede, egli non debbe imparare ora a romperla; e chi è stato fedele e buono quarantatre anni che egli ha, non debbe potere mutare natura ». « E della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia » egli conclude, e segna in una semplice e umile frase questo che fu l'inconsapevole epos di tutta la sua vita e di tutto il suo pensiero la bontà, come sovrano disinteresse per l'arte dello Stato, la fede, come eroica e tenace devozione a quell'arte. In questa poesia e senso obiettivo dell'arte dello Stato, il Machiavelli dirime tutte le sue apparenti contraddizioni, e fonda l'originalità e grandezza della sua scoperta. Un'antinomia di altro genere invece è intrinseca a quel suo pensiero, ché quell'arte dello Stato non è tutta l'arte di questo mondo, ma egli, nella sua eroica caparbietà, crederà che la politica sia tutto, e che essa sia la sola forza motrice della storia. Cotesta angustia sarà la più vera tragedia del pensiero del Machiavelli, ma lo scrittore non ne ebbe chiara consapevolezza; la tragedia, in un certo senso, si rivelò postuma alla genesi di quel pensiero, e fu propria dei secoli successivi, che lungamente e laboriosamente battagliarono per il riconoscimento della politica pura, quale momento necessario, ma soltanto un momento fra altri momenti, nella vita generale dello spirito umano. Il « tutto è politica » di Machiavelli doveva essere lo schermo di una polemica di cinquantenni e cinquantenni per concludere che il solo modo di moralizzare la politica è quello di riconoscere che la politica non è tutto, e che accanto ad essa si muovono molte altre forme di vita spirituale, feconde anch'esse di buona politica soltanto perché autonome e disinteressate.


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Aggiornamenti letterari 2002 - Luigi De Bellis