Il motivo ispiratore del Manzoni sembra essere il motto:
Dilexi institiam, odivi iniquitatem.
Questo carattere del sentimento che domina nei Promessi Sposi
risalta in piena luce, non solo se si pongano loro accanto le
opere di contemporanei poeti stranieri e italiani (per
esempio, del Goethe, del Foscolo, del Leopardi), ma anche se
li si paragoni alle opere anteriori dello stesso Manzoni. Le
quali gioverà cominciare a considerare non, come si è fatto di
solito e troppo esclusivamente, quasi abbozzi e parti del
futuro capolavoro, ma per sé, come tali che offrono motivi e
forme, che non si ritrovano più nel romanzo. In esse risuonano
note che il Manzoni non ardì ritentare; e, se la parola
«poesia» si prende, come si usa comunemente, con riferenza a
certi particolari toni di passione, sarebbe da dire che quelle
rappresentano veramente la poesia del Manzoni, laddove nei
Promessi Sposi, già s'inizia il lungo periodo della
riflessione e dalla prosa.
Penso in primo luogo all'Adelchi, che è opera geniale,
nonostante anzi in ragione stessa delle contraddizioni che vi
scorsero i critici o l'autore come critico. So bene che il
sistema teologico-morale del Manzoni era a quel tempo già
bello e formato, e altresì la sua considerazione antistorica
della storia, come comprovano vari luoghi del discorso critico
che accompagna la tragedia. Ma quello che era risoluto e
stabilito nella mente non era tale nell'animo; onde nella
realtà poetica della tragedia cozzano disperatamente i più
diversi e opposti sentimenti, vi tumultua la vita. Nella
concezione teorica del Manzoni la politica non ha luogo, ma
solo la morale; e nell'Adelchi invece la politica si afferma
nella sua originalità e si fa valere, e si fa, quel che è più,
voglia o non voglia l'autore, ammirare, come ogni gagliarda
forza, che è sempre ammirevole. Il vecchio re Desiderio segue
lo stesso impulso politico dei suoi predecessori contro i
Franchi e contro i papi da essi protetti, vietanti alla gente
longobarda la via di Roma; ed è animato contro Carlo dall'onta
arrecata a lui e dallo strazio inflitto alla sua figliuola,
sposa ingiustamente, ripudiata. Chi gli può dar torto? Neppure
il poeta, nonostante che, nel suo discorso storico, abbia
stimato di doverlo, in nome dell'astratta giustizia,
biasimare. Carlo difende la causa dei papi contro gli
oppressori longobardi; serba, dunque, lui, l'eroe della
Chiesa, le mani e l'animo puri, come vuole l'astratta
giustizia e morale? La politica non glielo consente, l'«alta
ragion di regno», come egli la chiama, la politica che lo
induce a scacciare Ermengarda e a prendere altra donna,
incurante se calpesta alcun innocente nel percorrere la sua
via fatale, attraversato, piuttosto che da rimorso, da un
momentaneo superstizioso timore per l'iniquità commessa, dalla
quale par gli venga sfortuna; la politica, che gli fa
accettare il tradimento, stringere le mani dei traditori,
lodarli, premiarli, pur disprezzandoli in cuor suo. E questi
traditori di re Desiderio? sono essi semplicemente malvagi,
egoisti e codardi? Anche in essi la politica regna, il bisogno
d'indipendenza e di libertà, la tendenza all'individualismo e
al feudalismo insita nelle condizioni sociali del tempo, la
coscienza che la causa dei re longobardi è già una causa
condannata. Perché aiutare re Desiderio alla vittoria? Per
essere da lui più sicuramente tenuti al freno e tiranneggiati?
Perché andar contro la volontà della chiesa di Dio? Contro
questa necessità di difendere la propria autonomia e, nella
rovina dello Stato, la propria salvezza, debole riparo è il
legame di fedeltà, debole sempre, in tutti i rivolgimenti
storici. Il soldato Svarto, che vuole con ogni mezzo emergere
dall'oscurità e raggiungere non la ricchezza ma il potere, e
non risparmia a questo fine accortezza e ardimento, è della
pianta dei dominatori, e, come il giovane Bonaparte, «indocile
serve, pensando al regno». Certo, risentendo e rendendo tutte
queste varie passioni, il poeta sente più tormentosa bruciare
la piaga che ha nel petto; onde più angosciosamente si
domanda: - Perché? Perché la società è così conformata, che si
debba far torto o patirlo? Perché una forza feroce, che prende
nome di diritto, possiede il mondo? Perché siamo condannati
all'ingiustizia che la mano insanguinata degli avi seminò e
che è ora l'unica mèsse offerta dalla terra? - Si domanda, ma
poeticamente ignora la risposta perché colui stesso che si
tortura con quella domanda è tuttavia costretto a combattere,
e a tendere tutte le proprie forze per ottenere la vittoria,
ad abbassare, conculcare, distruggere l'avversario.
Contraddizione insoluta e, così com'è posta, insolubile, la
quale genera la figura di Adelchi, dall'autore poi giudicata
«infelicemente intrusa» tra gli altri caratteri e dai critici
«anacronistica» , e che è invece personaggio sommamente
poetico. In esso s'impersona il il gemito del poeta, gettato
in mezzo a un mondo al quale contrasta con tutta la sua anima,
e che pure gli s'impone e lo soverchia. Adelchi muore, non può
se non morire: ma gli è vietato persino cercare o desiderare
la morte: muore, ma mentre combatte per procurarsi scampo e
serbarsi a riscossa e vendetta, secondo che non il suo cuore,
ma la necessità storica gli comanda. Altra contraddizione: il
popolo latino è stato vinto e ridotto a condizione di servitù
dai longobardi. Il giudizio morale del Manzoni riprova
conquiste e oppressioni, e perciò respinge l'apologia che si
fa dei longobardi come di forte gente, atta a creare una nuova
e rinvigorita Italia; per lui, essi rimangono nient'altro che
«la rea progenie», cui fu prodezza il numero e ragione
l'offesa. Ma egli ha indagato la storia del primo medio evo,
ha meditato sulle pagine della Scienza nuova, ed ecco una
diversa ispirazione gli scuote l'anima, una diversa visione
gli sorge nella fantasia e gli detta lo stupendo coro Dagli
atri muscosi, dai fori cadenti, il cui sentimento è invece il
biasimo agli uomini e ai popoli inerti e passivi, innocenti
che siano, e l'esaltazione dei barbari, dei prodi che fanno la
storia, e la fanno col fare il proprio vantaggio, e quel loro
vantaggio è giustizia, «premio serbato ai forti». Tutta
l'epopea delle conquiste barbariche si leva luminosa e sublime
in quel canto: i feroci conquistatori sono uomini e chiudono
anch'essi nel fondo del cuore affetti gentili, qualcosa di
sacro da proteggere, qualcosa di dolce da sacrificare:
A torme, di terra passarono in terra,
cantando giulive canzoni di guerra,
ma i dolci castelli pensando nel cor:
per valli petrose, per balzi dirotti,
vegliaron nell'arme le gelide notti,
membrando i fidati colloqui d'amor... |
E c'è, nell'Adelchi, la figura, cinta dell'aureola di una
sacra missione, del diacono Martino, che rappresenta l'aprirsi
della via, l'improvviso e agevole superamento degli ostacoli
che parevano insormontabili, nelle imprese che Dio vuole, che
la storia comanda. Pare che la natura stessa, quelle montagne
che gli si oppongono e lo invitano, quella solitudine che egli
solo vivente attraversa, accompagnino il suo ardimento con un
rito religioso. E poi anche c'è l'amore, c'è Ermengarda,
l'unica creatura amorosa del Manzoni, ma tale che, nei suoi
pochi tratti essenziali, vale la schiera di quelle di altri
meno casti poeti. Ermengarda è la ripudiata che torna alla
casa paterna col segno del disprezzo in fronte per sé e per i
suoi; torna così vituperata donde era partita inebriata di
omaggi e di onori, riboccante di speranza e di gioia. Ma
Ermengarda non si rinfranca al pensiero che conforta e
riscalda i suoi, i quali già la rivedono, non invano figlia e
sorella di re, levare, sopra la folla ammirante, la fronte,
«bella di gloria e di vendetta». E nemmeno ha fatto rinunzia,
rifugiandosi e tutta riposando nel Dio a cui crede, nel Dio
che accoglie e soccorre i miseri e premia gli ingiustamente
perseguitati. Ella ama colui che l'ha scacciata e la fa
soffrire: ama femminilmente tutto il passato di quell'amore,
di donna che fu amata, e di regina: i baci e le carezze e le
feste e le pompe e l'ammirazione del popolo e l'invidia delle
altre donne. II poeta sente la passione che scuote sin nelle
più intime fibre, che giunge alle radici dell'essere: vede «Vénus
toute entiére à sa proie attachée»: la dedizione, la stretta
tenace dell'uomo adorato: «Amor tremendo è il mio, Tu nol
conosci ancora: oh! tutto ancora Non tel mostrai; tu eri mio:
secura Nel mio gaudio io tacca: né tutta mai Questo labbro
pudico osato avria Dirti l'ebrezza del mio cor segreto». Nel
suo delirio di fremente passione e di gelosia, ella parla
disperatamente a colui che un tempo l'amò, che ebbe di lei
alcuna dolcezza, che non è per lei diventato ancora un
estraneo: indirizza, con struggimento di tenerezza, con non sa
quale speranza, il pensiero alla soave, alla pia Bertrada, che
volle quelle nozze che certo le vuole ancora, alla madre di
lui, che ha potere sul figlio, e tra le cui braccia sente «una
vita, Un gaudio amaro che all'amor somiglia». Alfine si
distacca, si rivolge a Dio, si dispone alla morte, muore; e il
secondo bellissimo coro della tragedia canta questo
rivolgimento, questo riposo in Dio. La religione non ha
infranto e distrutto l'amore terreno; sopravviene
consolatrice, quasi nuovo amore meno acre e più puro, a
riempire il vuoto lasciato da quello. |