Se davvero di un protagonista sensibile si vuol parlare, se
non altro, per l'uso metaforico della conversazione, e sempre
col sottinteso che il protagonista vero è il sentimento, lo
stato d'animo dello scrittore, bisognerebbe pensare e
sostenere che protagonista è tutto un secolo, è tutta una
civiltà, protagonista vero e immanente in ogni pagina è il
Seicento. E la nostra non vuole essere una interpretazione più
ingegnosa e più lata da sostituire ad altre più ristrette e
troppo fisicamente limitate, ma la proponiamo per un momento,
poiché essa ci avvia ad intendere una delle note
dell'ispirazione dell'artista. La quale, si sa, è
un'ispirazione etico-storica; e precisamente il Seicento
rimane il simbolo di questo fortissimo gusto storico del
Manzoni, il quale proietta tutto il suo mondo morale, è vero,
in una realtà quotidiana ed attuale, una realtà che è di tutti
i tempi, ma una realtà che ha fortissimo un suo colorito
storico; è la realtà di tutti i tempi, perché innanzi tutto è
la realtà di un secolo, di una civiltà, di un particolare
regime. E questo protagonista incombe, presente, in ogni
pagina; fin dall'Introduzione in cui si parla del dilavato e
graffiato manoscritto dell'Anonimo, e che è una delle tante
stampe secentesche, disseminate dallo scrittore nel suo
racconto. Codesta trovata dell'anonimo sarà suggerita da due
ragioni entrambe d'ordine artistico, ma che si richiamano
sempre a quella ispirazione etico-storica di cui si diceva più
innanzi: giocare maliziosamente col doppione di se stesso,
mettendo in bocca all'Anonimo sentenze e giudizi personali, e
dare una più forte patina, un più denso colore storico al
racconto.
Questo gusto della stampa secentesca poi ritornerà in ogni
capitolo, non solo a tratti ma imbevendo di sé ogni immagine;
ritorna nel primo capitolo, con la digressione sui bravi e con
quel mirabile ritratto dei due che attendono don Abbondio.
Dove ogni nota è piena del gusto del secolo. Giacché sono
alternati sapientemente i particolari della paura e della
pompa, la paura e la pompa due delle divinità dominanti nel
Seicento manzoniano: l'enorme ciuffo, segno di ribalderia, e i
due lunghi mustacchi arricciati in punta, segno di equivoca
eleganza; il picciol corno ripieno di polvere, simbolo di
rissosi disegni, e quel suo pendere trascurato sul petto, come
se fosse un vezzo; le pistole e quella cintura lucida di
cuoio, così vistosa nella sua lucentezza. Anche lo spadone,
con una guardia traforata a lamine d'ottone, è un'arma di
minaccia, ma portata come se fosse un'insegna gentilizia. Non
ci sono qui due ribaldi tipici e generici, ma due ribaldi
penetrati nell'atmosfera del loro tempo, in cui la ribalderia,
secondo lo spirito allora diffuso, è presentata e vista come
vanità e pompa barocca.
Questo gusto storico continuerà nel secondo capitolo, non solo
con quel paragone del principe di Condé e della battaglia di
Rocroi, vicino nel tempo agli avvenimenti del romanzo, e che
sarebbe come verisimile anche nell'autore del preteso
manoscritto, ma anche in quelle frasi che continuano ad
avvolgere la povera figura di don Abbondio, le quali ci
richiamano al linguaggio cancelleresco e militaresco, in largo
uso nel secolo: neutralità disarmata, alla retroguardia,
giorno di battaglia, consulte angosciose, guadagnar tempo,
tutti termini di moda, messi lì, è vero, per generare una
sproporzione comica tra il paziente e quello stile di guerra e
di curia, ma, in ogni momento, pur scrupolosissimi quei
termini nel serbare una loro sfumatura storica. E la rassegna
potrebbe continuare per i capitoli successivi: al terzo la
presentazione dello studio di Azzeccagarbugli, con quei
ritratti dei dodici Cesari alla parete, che sono quelli che ci
vogliono. nello studio di un leguleio appartenente a un secolo
fanatico delle monarchie autoritarie, e con quella
suppellettile tutta di un magnifico barocco, dagli scaffali
polverosi alla spalliera del seggiolone alta e quadrata,
terminata agli angoli da due ornamenti di legno, che si
alzavano a foggia di corna. E poi l'indugio su quella grida
sciorinata in aria, e che, secondo la confessione del Manzoni
stesso, letta nelle opere del Gioia, fu quella che gli fornì
il primo spunto del romanzo anche questa preistoria, questa
genesi, per dir così, del romanzo ci richiama a quello che è
stato il fantasma poetico-polemico principale, iniziale, della
fantasia dell'artista: il Seicento - non tanto come
avvenimenti storici, ché ciò avrebbe potuto essere ingrediente
esteriore, impalcatura, scenografia del così detto romanzo
storico - ma il Seicento, come spirito, come logica, come
gusto, come vita morale. Anche senza la guerra per la
successione al ducato di Mantova, anche senza lanzi e
cappelletti, il romanzo sarebbe rimasto lo stesso romanzo del
Seicento.
Di quel secolo egli viene tracciando l'interna vita, la quale,
perché svuotata del sentimento intimo di Dio, deve essere
necessariamente vana, pomposa, barocca. Il puntiglio e
l'orgoglio, ecco le più vere divinità di quel secolo esteriore
e farisaico. Don Rodrigo muove tutta l'azione per spuntare un
impegno, per tener fede a una vile scommessa; il conte Attilio
e il conte Zio debbono sostenere l'onore del casato; il padre
provinciale, l'onore dell'abito; il podestà l'onore della
formale dottrina giuridica; don Ferrante, il più innocente di
tutti, l'onore della scienza umbratile e inutile e quello
delle buone regole ortografiche. Il cancelliere Ferrer, per
tutelare l'onore del governo, prima abbassa il prezzo del
pane, e poi sguinzaglia i suoi bargelli; e don Gonzalo
Fernandes de Cordova, per salvare l'onore di un trono, conduce
una guerra funesta per la conquista di Casal Monferrato. Più
cupo di tutti, come eroe di questo pregiudizio dell'onore e
del decoro, il principe-padre, che sacrifica e conduce alla
perdizione una figliuola. Del farisaismo del secolo il
principe-padre è forse l'espressione più complessa. Tutti, in
codesta società, sono farisaicamente onesti. Nessuno viola lo
spirito formale delle leggi; nessuno impone, apertamente, la
sua volontà. Il principe non adopera mai parole grosse. Egli
ha un rispetto pieno di cortesia della volontà, delle
inclinazioni, degli affetti della figlia; ma sulla sua volontà
egli agisce, per vie indirette, quasi magicamente,
demiurgicamente creando tutta un'atmosfera, che deve ispirare
a poco a poco certi determinati sentimenti. «Il sangue si
porta per tutto dove si va». È sempre il veleno dell'orgoglio
che viene insinuato nell'animo di Gertrude. «Che madre
badessa!», «comanderai a bacchetta», «farai alto e basso»,
sono tutte piccole e periodiche pozioni di quel veleno. E la
vittima, che assorbe quel veleno, è condotta fatalmente a
sentire ed accettare la logica dei suoi torturatori: essa è
una vittima, è vero, ma le vittime che si rassegnano ad esser
tali, diventano complici dei loro vessatori e sopraffattori.
Gertrude difatti è una figlia del secolo, che obbedisce in
tutto e per tutto alle leggi della falsa religione adottata.
Antagonista del padre, cresce formata della stessa sostanza
spirituale di suo padre. In convento, essa si sente la
figliuola del principe; educanda, gode di tante piccole
distinzioni e privilegi; monaca, è la signora. Anche i suoi
sogni di ragazza, quei sogni dell'adolescente, che sono, nella
maggior parte dei casi, fondamentalmente disinteressati, sono
tutti impregnati di mondanità. Essa non sogna l'amore, ma, per
riprendere un'espressione del Donadoni, l'amore-pompa,
l'amore-vassallaggio. E la stessa inclinazione per il paggio
non è soltanto amore, ma per molta parte vanità soddisfatta.
Può parere perfino inclemente questa visione del secolo, che
ci offre il Manzoni; ma al poeta non dobbiamo chiedere
giustizia di storico, ma passione di vita morale e fantastica.
Del resto il Manzoni non fa mai il processo agli individui,
ciò che avrebbe portato l'artista a creare dei tipi, degli
idoli polemici, ma, se mai, il suo è un processo alla logica
nascosta di tutta una civiltà. Da ciò la serena compostezza
della pagina manzoniana. La menzogna del secolo vive nel
sangue dei vari personaggi, come la più pacifica e ovvia
verità. È tutto l'indirizzo di una civiltà, che è errato;
secolo quello delle forme e delle apparenze, dove anche i
migliori, senza essere scellerati, finiscono con l'essere i
servitori del diavolo.
Quanto agli individui, direi che nell'animo del Manzoni, dopo
l'implacabile implicito giudizio morale, succede sempre come
una sovrana indulgenza. Per limitarci al caso di Gertrude, in
tutto l'episodio, noi sentiamo qualche cosa di dolente, e come
diffusa una grave pietà per la sciagurata. Lo stesso ritratto
con cui la Signora ci viene presentata la prima volta, ha
qualche cosa di grave e di misericordioso, e alcuni tratti
dolenti potrebbero valere anche per una donna non peccatrice,
ché il ritmo del periodo ha una lentezza solenne e
compassionale, quale dominerà in un altro celebre ritratto,
quello della madre di Cecilia. Perfino per lo stesso
principe-padre, il Manzoni non trascura mai perché sotto la
cappa cupa del tiranno s'intravveda la sciagurata vittima di
se stesso, del suo orgoglio, della sua ambizione, di un
pregiudizio sociale, di un duro retaggio di famiglia. Il
principe ha qualcosa di fosco come un eroe machiavellico, ma
la sua inquietudine e la sua impazienza lo riportano al
livello della comune umanità, tormentatrice tormentata
dell'altrui volere. E c'è perforo un momento in cui anche lui
prova un giubilo cordiale, una tenerezza in gran parte
sincera, e abbraccia la figliuola con gran trasporto. «Così
fatto è questo guazzabuglio del cuore umano» commenta il
Manzoni, con quel sorriso del giudice severo che dopo aver
detto la sua ingrata ma implacabile sentenza, ritorna uomo tra
gli uomini, sensitivo tra i sensitivi.
Orbene questa è un po' la nota dominante di tutto il romanzo:
una pena grave per l'uomo disviato da un suo falso vedere e
dai pregiudizi di un mondo, che ha perduto il gusto delle cose
intime e piene, pena grave che è il respiro diffuso e
reticente, la musa discreta, vigilante su ogni pagina dei
Promessi Sposi, senza un termine e uno scopo preciso di
esortazione e di propaganda, ma che s'effonde col disinteresse
di un'abbandonata preghiera a Colui che può tutto, e che,
solo, ad ogni momento può darci la luce e operare il riscatto. |