A guardare in fondo alle anime degli eroi manzoniani delle
tragedie, essi propendono verso una riconquista della vita e
non verso la negazione totale di essa. Il cammino della
fantasia manzoniana dalle tragedie al romanzo è proprio in
ciò: dalla rivelazione subitanea alla comprensione luminosa,
dallo smarrimento di fronte all'oscuro del vivere
all'accettazione della legge del vivere, dall'impossibilità di
consistere nel mondo e dalla necessità del morire alla
giocondità e alla pienezza del vivere.
Quando Manzoni compone i Promessi Sposi, sopra l'oscuro del
mondo, è piovuto ormai la luce della provvidenza: il poeta
oramai guarda alla realtà con occhi nuovi, e intende la
necessità delle contraddizioni e la santità stessa
dell'assurdo in mezzo al quale noi viviamo.
Voi ricordate quel che hanno scoperto gli eroi delle tragedie:
Marco ha scoperto che egli può trovarsi nella condizione di
tradire, o partecipare al tradimento di un amico, e perdere
d'un tratto tutte le più belle ragioni della sua vita; il
Carmagnola ha scoperto che si può esser buoni, leali,
generosi, forti e perire nella viltà dell'agguato e del
tradimento; Adelchi, ora, prima di morire, scopre il «segreto»
della vita dove non resta che far violenza o patirla, ed
Ermengarda, travolta come canna al vento, rende, senza
piegarsi ad esprimere la legge, più terribile la presenza di
quella legge di assurdo dolore, che infrange, a lei,
gentilissima ed innocente, tutti i legami della tenera vita e
la getta nell'unica consolazione della morte e di Dio
promettitore di ineffabili conforti.
La scoperta degli eroi tragici è la scoperta stessa della
fantasia manzoniana: ora quella scoperta dovrebbe gettare il
poeta nella disperazione. Voglio dire che poteva uscire da
siffatta intuizione del mondo una tragedia di tipo
shakespeariano, una specie di urto, come di colpi di maglio o
di catapulta contro l'assurdo e l'ignoto, contro il dolore che
è per tutto, non ancora sale o condimento della vita, ma segno
del suo orrore e della sua cecità. Ma noi sappiamo, e
l'abbiamo visto nel modo stesso di morire delle creature
tragiche manzoniane, dove propendeva la fantasia del poeta.
Scoperta la ferrea legge del mondo, essa si interiorizza
sempre più come norma e ritmo della realtà: soffrire o far
soffrire, ascendere o decadere, peccare o santificarsi, è
questa la necessaria legge del mondo. L'oscuro, l'assurdo non
certo si purifica o si giustifica moralmente, ma si illumina
come mezzo indispensabile del muoversi e dell'attuarsi della
vita. È questo quel che si dice lo sguardo riposato, sicuro,
cogitabondo, fermo sulla realtà del Manzoni dei Promessi
Sposi, ma non ci si avvede che così si caratterizza una
fantasia, una ispirazione artistica, non una qualsiasi
conquistata saggezza di moralista.
La vita, il bene, l'amore non possono essere senza il nulla,
la morte, il male, il dolore e il peccato. Soffrire e peccare
sono dunque non il positivo, ma le ragioni stesse dell'eterno
positivizzarsi del mondo. Il dolore, la pena che gli altri ci
danno e che noi diamo agli altri, la pena che è nel vivere
stesso e che dipende, e spesso senza responsabilità specifiche
di nessuno, dall'aggrovigliarsi assurdo delle vicende umane,
sono i componenti eterni di un ritmo di vita che non avrebbe
significato senza di essi. Il Manzoni che guarda tutto questo
da poeta e non da filosofo, non scopre di certo il ritmo di
dialettica necessità del nostro ascendere morale, ma lo sente
vivissimo e lo colloca nella sua intuizione religiosa nel
mondo.
La conclusione di Lucia è veramente il sugo della storia e la
rivelazione della ispirazione manzoniana; che « i guai vengono
bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta
più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che
quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio
li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore » (XXXVIII,
68), è l'espressione in forma religiosamente mitologica e
popolare del sentimento stesso manzoniano. Vuol dire che il
vivere non può essere senza alternativa di bene e di male, di
giocondità e di dolori, di purezza e di peccato e che esso va
accolto nella sua legge necessaria e immutabile. Quel che era
buio ed orrido, ora si fa lucido e accettato, quel che era
assurdo acquista una sua logicità, non perché - come tale -
esso finisca di essere assurdo, ma perché quell'assurdo
medesimo è sentito come una necessità ineluttabile ed
accettato. Dalle tragedie al romanzo non si passa dal
pessimismo all'ottimismo, non si giustificano il male e il
peccato, in quanto tali, ma si giustificano e si avvertono
come momenti, elementi eterni e necessari della vita; si
spiegano, si razionalizzano e infine si accolgono. Non
finiscono di esser tali, ma finiscono di essere il segno
pauroso di un assurdo inesplicabile. Vivere era sinora correre
incontro ai propri ideali, con la fede sicura nella loro
esclusiva positività: era l'ansia eroica di Carmagnola,
l'amicizia fiduciosa di Marco, l'anelito al bene di Adelchi,
l'amore e la gentilezza tutta riversata in felici incontri
umani di Ermengarda. Poi appare lo schianto e la negazione di
quel nostro volere operare il bene e voler mutare la storia
del mondo, e la conclusione è che vivere cosi è impossibile, e
non c'è altra vita per noi che l'attesa e la speranza della
morte.
Ma, infine sull'abisso cade la luce, e tutto il groviglio
umano si ordina in una sua armonia dolorosa: tutto quel che si
oppone alla nostra virtù, tutto quel che rende faticoso
cotesto nostro transito pel mondo, il male che noie gli altri
commettiamo e patiamo, e che spesso non basta la condotta più
cauta ad evitare, ci appaiono come l'eterna redenzione del
nostro doloroso destino, il significato, la ragione stessa del
vivere. Il vivere non è più il passare elegiaci e sparenti in
mezzo ad un mondo che nega le nostre idealità, ma
l'esperimento delle nostre idealità; proprio li in un mondo
che le nega, o le accetta o le corrompe: una corruzione di cui
spesso siamo partecipi pure noi medesimi, quali che siano i
nostri propositi. Vivere non è più aspettare solo di morire,
ma accogliere la legge del mondo ed operare dentro di essa per
il maggiore bene di tutti: alla radice del nostro agire ci
deve essere non la negazione o il tedio del mondo, ma il suo
accoglimento. Adelchi ha scoperto la legge tragica del vivere
e la feroce forza che lo governa, e guarda remoto quegli
altri, - sopra tutti Carlo, che si reputa felice nella
vittoria, e, anche, il padre, che ora crede di essere infelice
e che invece è privilegiato, perché non ha più possibilità di
agire - senza invidia, anzi con un estremo compatimento, e
avverte il conforto ineffabile del non-vivere: nel romanzo
Adelchi si trasforma in padre Cristoforo, nel Cardinale,
nell'Innominato redento, in tutti quelli che esercitano una
forza di bene con la coscienza insieme della propria debolezza
e delle forze che ad esso si oppongono perpetuamente, cioè dei
limiti che esso incontra dentro e fuori di noi, e diventano
tanto più alti poeticamente quanto più chiara è la coscienza
di codesti limiti. Siano creature innocentissime, come Lucia,
che cala cotesto sentimento del mondo entro una fede religiosa
pura e abbandonata, siano creature esperte dei vizi umani e
del valore, il Cardinale, Cristoforo o il padre Felice, essi
muovono tutti da un medesimo sentimento del reale. Non c'è più
di qua il positivo, di là il negativo (e non, si intende, come
mera valutazione morale), c'è la vita con le sue leggi, c'è
Dio che ci ha messi a questa triste e grande fatica, e bisogna
essergli grati pel dolore che ha disseminato sulla nostra via,
non solo perché cosi si redime quel tanto di dolore che noi
procuriamo agli altri, ma perché così noi avvertiamo la sua
divina presenza: e Dio qui è il segreto e la ragione della
vita stessa.
Che meraviglia che un siffatto sentimento del mondo si
dispieghi, nel concretissimo ,spettacolo del romanzo, entro i
modi e le forme di una particolare religiosità? Il
cattolicesimo manzoniano è avvertito nei Promessi Sposi
proprio in codesta necessità e provvidenzialità del soffrire,
ed è, in più, la trascrizione mitica del sentimento manzoniano
del reale: e la fede nella provvidenza è la fede stessa
dell'eterno comporsi dei circoli della vita nelle sue armonie
ristoratrici, e la speranza in Dio è il prolungarsi
nell'interno di quella fede. Il cattolicesimo, il pietoso,
comprensivo, operante, eroico cattolicesimo dei Promessi Sposi
è la sublime metafora del sentire manzoniano, ovvero il suo
attuarsi nella concreta vita degli uomini, che fondono nei
loro miti le ragioni e le spiegazioni di cui abbisognano per
vivere.
Noi non tentiamo qui di infirmare, come qualche sbadato o
disattento potrebbe credere, il purissimo cattolicesimo
manzoniano dei Promessi Sposi, ma semplicemente di cogliere in
che modo esso si innalzi e viva nella fantasia del poeta;
giacché se la fantasia è vuota senza il suo contenuto, poi
quel contenuto è nullo senza l'affiato di quella fantasia, e
quando quel contenuto è entrato nei suoi domini, non vi sta
più per sé, ma per la forma che vi assume. Perciò pure il
purissimo cattolicesimo manzoniano sta qui secondo la legge
della fantasia del poeta, vive di quel palpito, è il segno più
evidente ed aderente di quel particolare sentimento della
realtà che sorregge e domina tutta la favola: che è, come
abbiamo già detto, l'avvertimento del reale nella necessità
delle sue contraddizioni e nella santità e provvidenzialità
del suo muoversi e svolgersi.
In codesta concezione l'ideale non è fuori del mondo e non è
una luce solitaria che trascorre nelle vie oscure
dell'universo: è nel mondo, anzi è il mondo nel suo farsi, il
mondo nel suo significare qualcosa. Questo è quel che è stato
detto il divino calato nell'umano o con espressione più
suggestiva la misura o il limite dell'ideale, e cioè l'ideale
fuori di ogni astrazione, gettato entro lo stampo del mondo e
conformato secondo le sue esigenze e necessità. |