Giunti a questo punto, dovrebbe risultare abbastanza chiaro
che cosa i Promessi Sposi siano, e con quale metro convenga
misurarne il significato e l'importanza; e anzitutto il posto
che essi occupano nella storia della nostra letteratura, sullo
stesso piano di grandezza esemplare e rinnovatrice della
Commedia e del Decamerone, delle Rime e dell'Orlando, la
frattura che essi compiono nel corso di una tradizione mutata
in sterile consuetudine, l'incalcolabile apporto di novità che
per merito loro penetra nella nostra cultura, negli spiriti e
nelle forme. Non a dispetto, come si dice, dei suoi
presupposti morali e polemici, sì proprio in virtù di quei
presupposti, il romanzo è una grande opera di poesia, la cui
validità si commisura, come è proprio dei capolavori, in
rapporto all'ampiezza dell'orizzonte culturale e della sua
attitudine a comprendere e a modificare la complessa realtà di
un'epoca e di una civiltà determinata. Polemico è già il
nucleo primo dell'invenzione: quel porre al centro del
racconto ed elevare a simboli della dignità umana conculcata,
ma insopprimibile, un filatore e una contadina, quello
spostare l'attenzione dai personaggi degli eroi e dei grandi
alla gente umile e anonima, che a molti dei contemporanei, e
perfino a un Tommaseo, apparve atteggiamento paradossale e
deprecabile; e un lievito di insistente polemica in cui
riaffiorano tenaci i motivi antifeudali e antiumanistici della
cultura lombarda settecentesca, accompagna e sottolinea, ora
ironica, ora sdegnosa, la rappresentazione sempre calda di
affetto e di pietà della vita dei poveri; svela, sotto il
fasto pesante del cerimoniale, gli idoli di orgoglio e di
crudeltà, di boria e di violenza che ispirano la condotta e
regolano il costume dei ceti dominanti; scopre, illuminandolo
di luce cruda, l'oscuro fondo di cupa tetraggine, di
simulazione, di aridità o di vigliaccheria, dei personaggi
d'autorità, tirannelli e politiconi, prelati di mondo e
avvocati azzeccagarbugli, nobili puntigliosi e ridicoli
pedanti, bigotte con la loro smania di filantropia invadente
ed inutile e grandi signore depravate e perverse; suscita ad
ogni passo la satira pungente di una società con i suoi
pregiudizi e le sue superstizioni, i suoi riti artificiosi e
la sua cultura scolastica, nonché della politica in sé e di
coloro che l'incarnano, dell'immortale ragion di stato, dei
«motivi d'interesse e di riputazione» a cui i governanti
ubbidiscono, procedendo ora con grossolana violenza, ora con
imperizia, con stoltezza sempre, incuranti della miseria,
della fame, del «sangue dei poveri».
Né questo fermento polemico è da considerare come elemento
secondario marginale ed episodico, o peggio ancora come
un'arbitraria e fastidiosa intrusione dell'ideologia religiosa
dello scrittore, che costringa e raffreni la sostanza poetica
in funzione di un'apologia angustamente confessionale; è vero
invece che esso investe tutta la struttura del libro e ogni
particolare; in esso convergono e si compongono fantasia e
sentimento, invenzione e riflessione; si accordano, in un
ritmo alterno, temperandosi a vicenda, i momenti e i toni
umoristici e comici e quelli tragici eloquenti o solenni. Un
medesimo impulso di alta e combattiva tensione morale ispira
la vivacissima commedia del personaggio di don Abbondio, e, su
un piano diametralmente diverso, la psicologia sottile,
penetrante, spietatamente rivelatrice di Gertrude: anima la
mossa, incalzante descrizione tutta in chiave ironica, dei
tumulti milanesi e la drammatica rappresentazione della
carestia e della peste. Il moralismo giovanile dello
scrittore, traducendosi in una alta e severa concezione
religiosa, si riconosce ora e si articola in una materia ben
altrimenti ricca e concreta, ma senza perder nulla del suo
rigore e della sua forza battagliera. E quella religiosità,
che è stata fin dal principio ed è tuttora per molti lettori
ragione di scandalo, di diffidenza e di tenace antipatia,
quando la si consideri nella sua genesi e nella sua situazione
storica, in quella fase della cultura e della vita italiana,
appare per quello che veramente è, nella storia della
creazione poetica, al di fuori e al di sopra dell'ideologia
particolare dello scrittore, lo strumento di
un'interpretazione critica, straordinariamente nuova e attiva
in quel tempo e in quella società, la condizione e l'avvio al
sorgere e al maturarsi, in Italia, di un'arte realistica in
senso moderno. Proprio per il tramite della conversione e
dell'adesione al cattolicismo, l'ideale morale del giovane
Manzoni si riempie di un contenuto vero e acquista una forza
espansiva, riconoscendosi nella faticata saggezza e nella
secolare esperienza degli umili; e, inversamente, il principio
egualitario cristiano per la prima volta scende con lui dal
cielo sulla terra e diventa criterio di interpretazione e
discriminazione delle vicende storiche e degli atteggiamenti
umani. 1 limiti, che pur si palesano evidenti a un'indagine
retrospettiva, di quella posizione mentale, servono tutt'al
più a definire il grado di evoluzione d'una società, quando
appunto i Promessi Sposi si leggano in funzione meramente
documentaria; non toccano e non attenuano la sostanza poetica
del libro, né il suo evidentissimo significato storico.
Talché, se il confronto con altre situazioni altrimenti
progressive e mature, dell'Europa contemporanea, può riuscire
illuminante per lo storico che si proponga di illustrare le
insufficienze e le debolezze della nostra rivoluzione
nazionale e borghese; diventa poi assurdo, e precisamente
antistorico, quando lo si assume come criterio di giudizio in
sede letteraria. Nell'ambito della civiltà del Risorgimento,
non è possibile scorgere altra opera più rappresentativa, sul
piano dell'arte, né più nuova e feconda, che i Promessi Sposi,
se non forse le musiche congeniali di Verdi (Leopardi sta a
sé, e a quella civiltà si contrappone con un virile, se pur
sommario, rifiuto, lacerando bruscamente il velo delle
consolanti illusioni metafisiche e «inaugurando il regno
dell'arido vero»).
Un rapido sguardo alla trama ed ai personaggi del libro (vivi,
del resto nella mente di ogni lettore) potrà servire di
conferma a quanto s'è detto riguardo alla novità e alla forza
del suo contenuto. Al centro della storia stanno i due
popolani, i «promessi sposi», la cui esistenza passerebbe su
questa terra inavvertita, senza lasciarvi traccia, se essi non
finissero proprio per caso, e senza volerlo, a capitar fra i
piedi dei grandi e dei prepotenti e ad inciampare così nelle
loro trappole. Uno è Renzo, che sembra davvero riassumere in
sé tutte le doti di un certo mondo contadino: la bontà
generosa, la giustizia istintiva, la religiosità schietta, la
laboriosità ilare e serena, la freschezza non corrotta dei
sentimenti; Renzo, di cui la vicenda è tutta una coperta
ininterrotta battaglia contro l'orgoglio e le stregonerie dei
dotti, di quelli che san leggere e scrivere e servirsi a tempo
del latino dei decreti e della scrittura, contro le
ingiustizie dei signori che han fatto la legge e l'adoperano
secondo i loro fini e il loro capriccio; e questa battaglia
egli la combatte senz'altra arma che le sue idee chiare e non
artefatte, la sua fiducia tetragona nel trionfo del bene, la
forza sana delle sue braccia e delle sue spalle addestrate da
sempre alla dura fatica: è la figura più lieta e franca, la
più cordiale e convincente che il Manzoni abbia saputo
inventare. E poi c'è Lucia, in cui la fede ha creato una
sensibilità più alta, più delicata e sottile; un pudore, una
ritrosia, una superiore gentilezza d'affetti, che reca con sé
una luce ineffabile e la proietta su tutte le cose e persone
con cui s'incontra una creatura che non sembra di questa
terra, e pur rimane una contadina, con il suo modo di sentire
semplice e quadrato, ben circoscritto in una precisa misura di
tempi e di luoghi e di educazione. Intorno ai due protagonisti
brulica tutto un mondo di umili: contadini, artigiani,
barcaioli, barrocciai, povera gente tormentata
dall'ingiustizia degli uomini e dalla crudeltà della sorte, ma
non distorta e soffocata, tuttavia umana e solidale sempre
pronta al bene nei pensieri e nelle opere. E c'è la vita del
villaggio, con i suoi interni squallidi e le sue magre cene e
i suoi focolari spenti; e la chiesetta, la canonica, il
convento dei cappuccini; e le campagne bruciate dalla siccità,
devastate dalle invasioni soldatesche, spopolate
dall'epidemia; e le lunghe strade che corrono il mondo pieno
di sorprese e di malincontri; e le osterie; e infine anche la
città, ma come la vede il contadino, stupenda e vasta, ma irta
di insidie e di tranelli, la città del popolo, stremata e
atterrita dal contagio, ovvero eccitata e fremente nei giorni
di gazzarra. E nello sfondo, il paesaggio familiare di
Lombardia, con i suoi cieli, i suoi monti, le sue acque, la
sua mite luce autunnale.
Questo fondo popolano tiene una parte grande, più grande che a
volte non si pensi, e predominante, nella struttura del
romanzo. Anche il quadro storico, in cui tutta la vicenda
s'inserisce, non tocca se non di passata gli eventi politici,
diplomatici, bellici, quelli insomma che formano
essenzialmente e quasi esclusivamente la trama di una storia
nel senso corrente del termine, e si specifica piuttosto in
una serie di quadri d'ambiente e di costume, per cui si
delinea, non il corso solenne dei fatti, sì il colore, la
fisionomia minuta e variegata d'un'epoca. E quando un
avvenimento di vasta portata - il malgoverno spagnolo, la
carestia, la guerra, la peste - penetra nel racconto, è visto
non in una considerazione astratta e disinteressata da storico
professionale, bensì in quanto aderisce alla vita degli umili,
li agita, li fa soffrire, reca un improvviso sconquasso nelle
loro abitudini e nelle loro coscienze.
Naturalmente, in quella rappresentazione vasta e complessa di
un periodo storico visto nei suoi riflessi umani e quotidiani,
debbono penetrare anche i grandi, i personaggi illustri, i
rappresentanti dei ceti e degli ordini privilegiati; ma vi
entrano, come è giusto, in funzione subordinata: o per
antitesi, come le ombre che hanno il compito di delimitare e
porre in rilievo le zone di luce; ovvero come elementi di
sostegno e di conforto del concetto che regola la
rappresentazione nel suo complesso, in quanto si tratti di
potenti che s'adeguano al mondo degli umili e si mettono al
loro servizio. Forse soltanto a proposito dei personaggi di
quest'ultimo tipo (il Cardinale, fra Cristoforo, per certi
aspetti anche l'Innominato, con la sua vicenda esemplare e
lievemente stilizzata) è lecito parlare di un residuo
irrisolto di intenzioni moralistiche (quasi un'eco e un
riflesso della splendida oratoria dei predicatori francesi del
gran secolo, trasferita su un piano di persuasione popolare e
raccontata) solo la sapienza e la discrezione infinita
dell'artista, e il freno dell'ironia, riescono quasi sempre a
salvarli, trattenendoli in un difficile equilibrio sull'orlo
dell'oleografia. Ma quanto agli altri personaggi, che abbiamo
detto antitetici, sono proprio quelli in cui il lievito
polemico opera più direttamente e in modo più palese, sia che
incarnino gli aspetti ridicoli, tronfi, artefatti, barocchi,
le forme vuote di una civiltà pomposa e puntigliosa; o sia che
impersonino i malvagi, i violenti che ignorano il timor di
Dio, gli esclusi per i quali è presso che impossibile ogni
redenzione, prostrati nel fango della loro viltà, della loro
abiezione, dei loro delitti; e qui la polemica stimola, e non
impaccia, la libertà della fantasia, l'orrore o il disprezzo
si mutano in drammatica perplessità e aiutano a penetrare più
a fondo, onde la grandezza del male è sentita in termini di
tragedia, investita dalla commozione, riscattata dalla pietà
del poeta (storia di Gertrude, morte di don Rodrigo), e il
comico non ha nulla di piccolo e di caricaturale, anzi si
distende in pagine luminose, che son tra le più ilari e
cordiali ed umane del romanzo (don Abbondio, don Ferrante,
donna Prassede).
Un alto sentimento religioso circola in ogni parte di quel
mondo, penetra in ogni vicenda, sfiora anche i personaggi più
tristi e i più vili. L'intervento di Dio negli accadimenti
piccoli e grandi è in ogni momento così forte che ti sembra di
poterlo toccar con mano: è una presenza paterna, amorosa e
severa, che palpita in ogni cosa; e il poeta l'avverte con la
fede semplice e intatta dei suoi contadini, della povera
gente: «quel che Dio vuole. Lui sa quel che fa; c'è anche per
noi»; «lasciamo fare a Quel lassù»; «tiriamo avanti con fede,
e Dio ci aiuterà». E in questo mondo basso, più triste che
lieto, l'opera di Dio la senti soprattutto nelle tribolazioni,
negli affanni, e in quegli spiragli di luce che s'aprono
improvvisi in mezzo alle tenebre dell'angoscia e chiudon le
porte alla disperazione. La «provvida sventura» del coro
d'Ermengarda, il «Dio che atterra e suscita, che affanna e che
consola» dell'ode napoleonica, sono anche il filo conduttore,
la trama segreta del romanzo, ma espressi in termini più
semplici, familiari, popolareschi. È il tema che palpita nelle
parole di fra Cristoforo ai due sposi finalmente ricongiunti:
«Ringraziate il Cielo che v'ha condotti a questo stato, non
per mezzo dell'allegrezze turbolente e passeggere, ma co'
travagli e tra le miserie, per disporvi a un'allegrezza
raccolta e tranquilla». Ed era già nella chiusa dell'addio ai
monti: «chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non
turba mai la gioia dei suoi figli se non per prepararne loro
una più certa e più grande». E ritornerà anche nelle meditate
conclusioni, in cui Lucia e Renzo condenseranno alla fine il
frutto e il «sugo» di tutta la loro esperienza. Il pessimismo
cristiano dell'Adelchi s'è schiarito e intenerito in questo
dono di fiducia e di attesa in questa luce di «allegrezza
raccolta e tranquilla».
Questa morale, con quel che comporta di rassegnato e di
umbralite, è il limite in cui si appuntano le differenze e le
riserve dei lettori più restii (suonava ostica già a qualche
democratico dell'Ottocento, che l'applicava con visione
alquanto miope alla lotta politica in corso, e vi fiutava un
invito, tutt'altro che conforme ai sentimenti dello scrittore,
alla rassegnazione e alla non-violenza di fronte all'Austria e
al clericalismo retrivo). Limite, ad ogni modo, come s'è già
detto, d'ambiente e di situazione storica, d'ideologia
storicamente condizionata, insomma non di arte. Perché la
moralità non si sovrappone al racconto, ma lo compenetra e
l'illumina dal di dentro: la senti anche nei paesaggi e negli
oggetti e nelle peripezie più naturali (nel gran notturno
drammatico e musicale del capitolo VIII, nella fuga di Renzo
da Milano all'Adda, nella descrizione dell'afa e del temporale
che mette fine al contagio), ma appunto la senti come un
elemento e una luce delle cose e degli avvenimenti, una nota
che li completa e li arricchisce. La sua funzione è, non di
fine, bensì di strumento, che fa più penetrante ed intensa
l'analisi psicologica e asseconda la ricerca del naturale, del
concreto, del vero, nella scelta degli oggetti e nel modo di
rappresentarli.
Parallela alla novità del contenuto, si accampa l'altra, fors'anche
più vistosa, della forma e del linguaggio, quell'incomparabile
apporto di invenzioni verbali e stilistiche, per cui col
romanzo manzoniano nasce la letteratura moderna d'Italia; e
tale novità della forma deriva anch'essa, riprendendo in modi
di gran lunga più maturi e concreti le esigenze della
generazione dei Verri e del Parini, dallo stesso fondo morale
e polemico come la vita «non è già destinata ad essere un peso
per molti e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego»,
così anche la letteratura non può proporsi «soltanto per fine
di divertire quella classe d'uomini che non fa quasi altro che
divertirsi» non può ridursi a privilegio di una minoranza.
Anche qui al senno dei posteri, con tutto il tesoro delle
successive esperienze letterarie europee e anche italiane,
riesce abbastanza facile scorgere certi limiti e timidezze del
realismo manzoniano; ma sarebbe stolto rifiutarsi di vedere
l'enorme importanza di quella svolta storica. Sta di fatto che
solo con molto stento, e con alterne fasi di superficiale
adesione e di ripiegamenti involutivi, la cultura italiana è
giunta a prender coscienza della sua portata e a maturarne i
frutti; né l'efficacia esemplare di quell'insegnamento può
dirsi a tutt'oggi veramente esaurita. |