La notizia, appresa dalla «Gazzetta di Milano» del 16 luglio
del 1821, che Napoleone è morto nel suo esilio di Sant'Elena,
spinge prepotentemente Manzoni a una riconsiderazione della
figura e dell'opera del grande condottiero corso, alla luce
della morte. Prima, quando Napoleone era in vita e dominava
nel bene o nel male la scena del mondo, Manzoni non aveva
espresso su di lui alcun giudizio: ora invece che è morto e
che la sua vicenda terrena si è compiuta, egli non esita a
parlare di lui, non per esaltarlo o condannarlo, ma per capire
il senso della sua parabola esistenziale. Rivive, così, nella
mente del poeta tutta l'avventura napoleonica nelle sue tappe
fondamentali - dall'irresistibile ascesa agli anni del
trionfo, all'improvvisa caduta - una avventura che sembra
confermare al poeta, insieme all'eccezionalità del
personaggio, anche l'estrema caducità di ogni umana vicenda e
di ogni gloria terrena.
Di fronte a quest'amara constatazione, Manzoni non può non
interrogarsi intorno all'umanità di Napoleone, intorno cioè
alle sue reazioni di uomo, sconfitto e dolorante, nel momento
rivelatore della sventura e della morte e la conclusione cui
arriva è che, come in vita Napoleone è stato un inconsapevole
strumento della Provvidenza, così in morte non può non essere
stato sorretto e salvato dalla Misericordia divina. Tracotante
e intemperante nella vittoria, nella sconfitta e nella
disperazione della solitudine, Napoleone ha ritrovato, nella
Fede, la via della salvezza e insieme al perdono di Dio si è
meritato, anche lui ormai vittima, il diritto alla compassione
da parte di tutti gli uomini.
Scritta sull'onda dell'emozione nello spazio di appena tre
giorni (dal 17 al 19 luglio del 1821), l'ode testimonia non
tanto l'ammirazione di Manzoni nei confronti di Napoleone,
quanto piuttosto la sua esigenza di collocare un così grande
personaggio nell'ambito della sua concezione della storia. Il
vero protagonista dell'ode, in questo modo, non è Napoleone,
ma Dio che, appunto secondo la concezione cristiana che
Manzoni ha della storia, si è servito di lui per realizzare i
propri misteriosi progetti e poi l'ha atteso al varco per
salvarlo e dimostrare ancora una volta la sua misericordia.
Espressione poetica di un sentimento di ammirazione per un
uomo indubbiamente significativo come Napoleone e, nel
contempo, espressione di una particolare concezione dell'uomo
e della storia, l'ode si sviluppa dapprima per rapidi scorci,
che ripercorrono le sbalorditive tappe della vicenda umana
dell'Eroe, poi si placa in una sobria meditazione intorno alla
dimensione umana di Napoleone e, infine, attinge commossi
accenti nella conclusiva invocazione alla Fede.
Metro: diciotto strofe abbinate di sei versi settenari, in cui
il primo, il terzo e il quinto verso sono sdruccioli, il
secondo e il quarto sono piani e rimano tra loro, mentre il
sesto, tronco, rima con il corrispondente della strofa
successiva.
Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attonita
la terra al nunzio' sta, |
Il poeta consegna a un'espressione epigrafica l'annuncio della
morte di Napoleone, il cui nome è superfluo addirittura
indicare, tanto ha riempito di sé la storia. Così, la
perentorietà della notazione, concentrata in due monosillabi
(«Ei» e «fu») e suggellata dal punto fermo, esprime
efficacemente il senso di meraviglia e di stupore che colpisce
il poeta di fronte alla ineluttabile e irrimediabile scomparsa
di un uomo che era stato protagonista di un'esperienza terrena
tanto intensa e tanto appariscente.
Come il corpo di Napoleone, dopo aver esalato l'ultimo
respiro, rimase immobile, dimentico ormai delle sue vicende
terrene e privato definitivamente di un'anima tanto grande,
così è rimasta la terra, sgomenta e incredula di fronte a una
simile notizia. Lo sgomento che si impossessa degli uomini
quasi paralizzandoli è paragonato all'immobilità del corpo
privo di ogni alito di vita di Napoleone, quasi che la morte
di Napoleone abbia privato il mondo del suo elemento
essenziale e vitale (similitudine). Perno di tutta la
similitudine è il verbo stare, che si riferisce tanto alla
«spoglia» dell'imperatore («stette la spoglia...») quanto alla
«terra» («la terra al nunzio sta») e che in entrambi i casi è
usato nell'accezione etimologica volta a indicare assoluta
immobilità e rigidità. A connotare il senso di morte, tanto
fisica che morale, che coinvolge Eroe e Mondo, intervengono
gli aggettivi, usati con grande maestria da Manzoni:
«immobile», che fissa in una statuaria gelida compostezza la
figura di Napoleone, in singolare contrasto con la fervida
energia che ne aveva contrassegnato in vita il carattere;
«immemore», che connota la morte come pacificazione definitiva
con se stessi e con il mondo, attraverso la soppressione della
memoria, cioè della capacità dell'uomo di essere sempre
presente a se stesso attraverso il ricordo; «orba», che lascia
trasparire la crudeltà dello strappo e della perdita «di tanto
spiro», di un'anima tanto grande; «percossa», che rende quasi
la violenza fisica della notizia, come «attonita» ne precisa
gli effetti morali.
muta pensando all'ultima
ora dell'uom fatale;
né sa quando una simile
orma di pié mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà. |
Chiusa in muto raccoglimento, la terra ha pensato all'ultima
ora di quell'uomo, nelle cui mani era stato riposto il suo
destino, e si è chiesta, senza trovare risposta, se mai un
altro uomo come Napoleone verrà a calpestare la sua polvere
insanguinata, cioè se mai ci sarà un altro uomo che verrà a
improntare di sé con tanta forza la storia umana, così
tragicamente intessuta di violenze e di stragi. Certamente
Napoleone è stato il padrone dei destini di un'epoca e in
questo senso egli lascia un vuoto difficilmente colmabile, ma
è anche vero che egli è stato il protagonista di una vicenda
storica che ha prodotto guerre, lutti e dolori a non finire.
Così l'immagine della guerra, che inevitabilmente affiora
attraverso i suoi effetti, «la cruenta polvere» (metonimia)
accanto al nome di Napoleone, si sovrappone all'immagine del
condottiero e il cristiano Manzoni non può non far sentire il
suo giudizio morale, amaro e severo, sul sangue che
l'avventura napoleonica ha fatto versare.
Lui folgorante in solio
vide il mio genio e tacque;
quando, con vece assidua,
cadde, risorse e giacque,
di mille voci al sonito
mista la sua non ha: |
Il mio spirito di poeta («il mio genio») vide Napoleone nel
momento del suo massimo splendore («folgorante in solio» ), ma
non si mise ad adularlo; ne seguì con attenzione tutta
l'alterna parabola di gloria e di rovina, ma non si unì mai
alla turba vociante di quanti ora lo celebravano e ora lo
denigravano. Prima di precisare i motivi del proprio canto, il
poeta afferma orgogliosamente la propria indipendenza morale e
intellettuale di fronte al potere napoleonico nei momenti
essenziali della sua avventura.
I tre verbi sintetizzano in un sol verso tutta la storia di
Napoleone nei tre momenti fondamentali dell'abdicazione del
1814 («cadde»), del ritorno in auge durante i Cento Giorni nel
marzo-giugno 1815 («risorse») e della definitiva sconfitta a
Waterloo il 18 giugno 1815 («giacque»).
vergin di servo encomio
e di codardo oltraggio,
sorge or commosso al subito
sparir di tanto raggio;
e scioglie all'urna un cantico
che forse non morrà. |
Il mio genio, rimasto puro da servilismi e adulazioni, quando
Napoleone era al potere, e mantenutosi incontaminato dalla
colpa di un vile oltraggio, dopo la sua caduta, si leva ora
commosso di fronte alla scomparsa di un uomo di così
sfolgorante grandezza e genialità e indirizza alla sua tomba
un canto che forse è destinato a restare immortale. Dopo aver
giustificato il proprio silenzio di un tempo nei confronti di
Napoleone come frutto di una coerente scelta morale, il poeta
precisa ora che la sua decisione di cantare finalmente
Napoleone non è dettata da improvvisa conversione al mito
napoleonico, ma piuttosto da commozione di fronte al mistero
della morte. Alla luce di questo chiarimento si comprende il
senso dell'orgogliosa affermazione contenuta nel verso finale
(«un cantico / che forse non morrà»), con cui il poeta intende
sottolineare, nell'apparente attenuazione della litote, che il
suo canto si solleva dalle miserie della storia e investe
problematiche di valore universale.
Dall'Alpi alle Piramidi,
dal Manzanarre al Reno, di quel securo il fulmine
tenea dietro al baleno; |
Inizia con questa strofa la rievocazione-esaltazione della
figura di Napoleone come stratega e come condottiero. La sua
genialità militare e le sue imprese belliche sono rievocate
per scorci rapidissimi - attraverso le citazioni dei luoghi in
cui sono state compiute - e con un ritmo incalzante che dà ai
versi un tono chiaramente epico. Dalla campagna d'Italia a
quella d'Egitto, dalla conquista della Spagna alle spedizioni
in Germania, Napoleone si rivelò un vero e proprio genio
militare: in tutte queste occasioni, infatti, la sua azione di
uomo energico e deciso, incapace di esitazioni («di quel
securo»), seguiva immediatamente il suo pensiero, come lo
scoccare del fulmine segue il suo balenare nel cielo.
L'immagine del «fulmine» (metafora) esprime in modo figurato e
diretto l'idea della rapidità con cui Napoleone attuava le sue
intuizioni strategiche.
scoppiò da Scilla al Tanai,
dall'uno all'altro mar. |
L'azione di Napoleone si estese dalla punta estrema della
penisola italiana («Scilla», sullo Stretto di Messina) fino
alle pianure della Russia («Tanai» è il nome antico del fiume
Don), dal Mediterraneo all'Atlantico. La forma verbale
«scoppiò» riprende l'immagine del «fulmine» dei versi
precedenti e sottolinea la perentorietà dell'azione di
Napoleone, mentre il verso finale, «dall'uno all'altro mar»
suggerisce l'idea degli spazi sconfinati in cui Napoleone
compì le sue imprese.
Fu vera gloria? Ai posteri
l'ardua sentenza: nui
chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
del creator suo spirito
più vasta orma stampar. |
Una improvvisa pausa meditativa interrompe l'epica
rievocazione delle imprese napoleoniche e affronta il problema
del significato di quelle imprese e del senso di tutta la vita
di Napoleone: infatti, di fronte alla complessità di un'opera
come quella napoleonica, il poeta si astiene dall'esprimere un
giudizio sull'uomo Napoleone. Solo i posteri potranno un
giorno dire se quella di Napoleone fu vera gloria o qualcosa
di diverso: da parte sua Manzoni non può far altro che
limitarsi a constatare, da buon cristiano, come Napoleone sia
stato solo uno strumento nelle mani di Dio che attraverso di
lui ha inteso realizzare i suoi disegni provvidenziali.
Nell'interrogazione iniziale («Fu vera gloria?») affiorano le
perplessità del cristiano Manzoni, per il quale non esiste
altro metro di giudizio fuori di quello morale, che valuta le
azioni degli uomini in rapporto al bene e al male operati: da
questo punto di vista, quindi, di fronte a un uomo che come
Napoleone ha dominato la scena del mondo con spregiudicatezza
e cinismo, non potrebbe darsi altro giudizio che quello di
un'inappellabile condanna. Ma la carità del cristiano impone
la cautela della sospensione del giudizio, non tanto per
eludere la domanda, quanto piuttosto per nobilitarla nella
certezza della fede, che fa riconoscere in ogni uomo uno
strumento della Provvidenza.
La procellosa e trepida
gioia d'un gran disegno,
l'ansia d'un cor che indocile
serve, pensando al regno;
e il giunge, e tiene un premio
ch'era follia sperar; |
Dopo la pausa meditativa, riprende la narrazione delle vicende
napoleoniche, ma questa volta esse sono viste e interpretate
nella loro dimensione interiore, cioè negli effetti che
produssero sull'uomo che le visse: Napoleone, dice il poeta,
sperimentò la gioia tempestosa e trepidante di chi concepisce
un grande progetto e l'ansia irrequieta di un cuore che,
incapace di adattarsi a una posizione subordinata, si piega a
ubbidire agli altri solo per attuare il suo sogno di potenza,
finché non lo realizza e ottiene un premio che all'inizio gli
sembrava pura follia sperare. Gli elementi del ritratto della
psicologia di Napoleone delineano una figura romanticamente
eccezionale, contrassegnata da multiformi e contrastanti
esperienze e soprattutto determinata fin dall'inizio a
servirsi degli altri per conquistare il potere per sé.
tutto ei provò: la gloria
maggior dopo il periglio,
la fuga e la vittoria,
la reggia e il tristo esiglio: |
Napoleone provò tutto, durante la sua vita: conobbe la gioia
ubriacante del successo, un successo tanto più gradito quanto
più era costato conseguirlo; conobbe la vergogna della fuga e
l'esaltazione della vittoria; il fasto delle regge dove fu re
e imperatore e poi la tristezza dell'esilio. La rapida
carrellata, costruita su forti antitesi concettuali («gloria /
periglio»; «fuga / vittoria»; «reggia / esiglio»), sintetizza
per grandi scorci il senso dell'avventura napoleonica.
due volte nella polvere,
due volte sull'altar. |
L'espressione riassume ed emblematicamente sigilla i
contraddittori eventi che caratterizzarono la vita e le
esperienze di Napoleone. La ripetizione del nesso «due volte»
e la metafora della «polvere» per indicare la caduta e la
sconfitta e dell'«altar» per indicare il trionfo e la gloria,
danno ai due versi un tono epigrafico.
Ei si nomò: due secoli,
l'un contro l'altro armato,
sommessi a lui si volsero,
come aspettando il fato;
ei fe' silenzio, ed arbitro
s'assise in mezzo a lor. |
Egli disse il suo nome: come al v. 1 e al v. 13 il poeta non
fa il nome di Napoleone e si limita a riproporne la figura
attraverso il semplice pronome personale.
Appena Napoleone si presentò al mondo dicendo il proprio nome,
due secoli tanto diversi l'uno dall'altro al punto da sembrare
in lotta tra di loro, si rivolsero a lui, come aspettando da
lui una parola che decidesse il loro destino ed egli impose
loro silenzio e si sedette arbitro tra loro. Il Settecento e
l'Ottocento erano due secoli caratterizzati da due diverse
concezioni della vita e da due diverse concezioni politiche:
il Settecento, illuminista e razionalista, era stato
caratterizzato per molti aspetti da forme di assolutismo
politico appena temperato da un cauto riformismo, mentre
l'Ottocento, il secolo dell'Idealismo e del Romanticismo, era
stato caratterizzato dai principi di libertà e di uguaglianza
banditi dalla Rivoluzione francese. Di questi due secoli
Napoleone è stato l'arbitro: egli, infatti, ha sintetizzato in
sé e nella sua attività politica le divergenti e opposte
aspirazioni delle due epoche e ha incarnato un modello di
governante in cui confluivano i principi della Rivoluzione e
le esigenze dell'assolutismo. L'immagine di Napoleone che
regola la sua epoca ha una grande efficacia rappresentativa ed
esprime perfettamente il grande potere cui egli giunse nel suo
tempo, ma contiene anche un giudizio storico molto profondo e
ancor oggi valido sul significato dell'esperienza napoleonica.
E sparve, e i dì nell'ozio
chiuse in sì breve sponda,
segno d'immensa invidia
e di pietà profonda,
d'inestinguibil odio
e d'indomato amor. |
Eppure, nonostante la sua grandezza e l'importanza del suo
ruolo, Napoleone scomparve dalla scena del mondo, andando a
finire i suoi giorni nell'inerzia e nella solitudine, lui che
era stato l'oggetto di passioni incommensurabili e
implacabili. Alla grandiosa solennità della strofa precedente
volta a celebrare l'importanza storica di Napoleone, si
contrappone la mesta constatazione della fragilità e caducità
della gloria terrena: la scarna lapidarietà della proposizione
d'apertura concentra la sua efficacia sulla congiunzione «E»
che conclude la riflessione del poeta sulla grandezza del suo
personaggio con un'amara constatazione e suggerisce l'idea di
un crollo improvviso e definitivo: Napoleone era l'arbitro
della vita del mondo, "eppure...". Così, con la sua rapida
ascesa e con la sua altrettanto rapida rovina, Napoleone
appare a pieno titolo il simbolo della caducità di ogni
potenza e di ogni gloria terrena e l'ode si avvia verso
l'interpretazione in senso cristiano della parabola umana del
grande condottiero. Dal punto di vista stilistico-espressivo,
l'intera strofa è costruita in perfetta antitesi concettuale
con le strofe precedenti: la brevità e l'essenzialità del
nesso iniziale «E sparve», infatti, risaltano in contrasto con
le ampie immagini di gloria e di potenza di tutti i versi
precedenti; l'«ozio» cui Napoleone si trova condannato appare
più disperante nel confronto con la frenetica vitalità
dell'uomo descritta nei vv. 25-30; la «breve sponda» dove è
ridotto a vivere stringe in un'angustia umiliante chi aveva
avuto come teatro delle sue gesta l'intera Europa; e, infine,
il contrasto che caratterizzò l'intera vita del grande
condottiero si sposta all'interno stesso dei versi della
strofa: «invidia» si oppone di fatto a «pietà» e «odio» si
oppone ad «amor», a rendere in modo evidente gli effetti
contraddittori che la personalità di Napoleone e le sue gesta
produssero sui suoi contemporanei.
Come sul capo al naufrago
l'onda s'avvolve e pesa,
l'onda su cui del misero,
alta pur dianzi e tesa,
scorrea la vista a scernere
prode remote invan;
tal su quell'alma il cumulo
delle memorie scese! |
Il paragone tra il naufrago e Napoleone - come l'onda
vorticosamente si abbatte e si richiude sul naufrago
sommergendolo, la stessa onda su cui, poco prima, lo sguardo
del poveretto si protendeva alla ricerca di una terra lontana,
così sull'anima di Napoleone si abbatté il cumulo delle
memorie - coglie e sottolinea perfettamente il dramma
psicologico di Napoleone nella solitudine dell'esilio di Sant'Elena,
una solitudine non consolata da alcuna speranza e resa ancora
più amara e disperante dal ricordo della passata grandezza. Ma
sarà proprio in questa disperata solitudine che si
determinerà, come vedremo, l'intervento con cui Dio rigenererà
e salverà l'uomo Napoleone.
oh quante volte ai posteri
narrar sé stesso imprese,
e sull'eterne pagine
cadde la stanca man! |
Napoleone viene colto, di fronte al «cumulo delle memorie»,
nell'atto di chi disperato desiste dal proposito di tramandare
ai posteri le proprie gesta e rimane immobile, annichilito,
nella scoperta dell'inutilità di ogni sforzo per sottrarsi
alla propria sconfitta. Come nota, a questo proposito,
!'Ulivi, «il passato fino a ieri incitante, consolante anche
nella rovina, gli si fa presente con un nuovo sentimento,
sotto una nuova luce... e le immagini delle battaglie gli
causano un intimo "strazio". È l'ultima grande lezione della
vita che l'uomo apprende; e l'uomo si solleva così di grado in
grado a una nuova coscienza, simile in questo ad altri
personaggi manzoniani, verso la visione evangelica delle
cose».
L'aggettivo «eterne», con la sua ambiguità di significato,
allude sia all'angoscia di chi avverte il proprio sforzo come
interminabile, sia alla speranza che attraverso quel gesto
possa tramandarsi ciò che, diversamente, il tempo
distruggerebbe.
oh quante volte, al tacito
morir d'un giorno inerte,
chinati i rai fulminei,
le braccia al sen conserte,
stette, e dei dì che furono
l'assalse il sovvenir ! |
Napoleone è colto nuovamente nell'avvilimento della sua
condizione di uomo solo e disperato, ma diversamente dalla
strofa precedente, qui egli ha una sua smisurata grandezza
anche nella sconfitta; solo, alla fine di una giornata
trascorsa nell'ozio, non può far altro che meditare sul
proprio passato, in un atteggiamento fisico che denuncia il
suo dramma interiore: con gli occhi un tempo così
fiammeggianti e sicuri abbassati e con le braccia conserte.
e ripensò le mobili
tende, e i percossi valli,
e il lampo de' manipoli,
e l'onda dei cavalli,
e il concitato imperio,
e il celere ubbidir. |
Passano, in rapida sequenza, davanti agli occhi di Napoleone,
i ricordi di un passato per sempre finito, ma sempre
recuperato con commossa nostalgia: le avanzate fulminee, gli
assalti irresistibili, il sinistro luccicare delle spade, il
galoppo travolgente della cavalleria, i rapidi e concitati
comandi e la loro pronta esecuzione. Presto, però, come
vedremo, Napoleone si accomiaterà anche da questi ricordi che
gli portano l'eco di una vita che ormai non ha più senso per
lui e troverà una nuova dimensione spirituale. La strofa ha un
ritmo concitato che si oppone a quello lento e mesto delle
strofe precedenti e che è ottenuto mediante l'accumulazione di
elementi tutti dipendenti da un unico verbo («ripensò») e
tutti introdotti dalla congiunzione «e» (polisindeto).
Ahi! forse a tanto strazio
cadde lo spirto anelo,
e disperò; ma valida
venne una man dal cielo,
e in più spirabil aerei
pietosa il trasportò; |
Forse, di fronte allo strazio provocatogli da quella ressa di
ricordi, il suo animo non resse e disperò, ma
provvidenzialmente intervenne la mano di Dio a risollevarlo.
Proprio nel momento in cui è più solo e sta per sprofondare
nell'abisso della disperazione, Napoleone ritrova la Fede e si
salva. Attraverso il dolore e la sofferenza, insomma,
Napoleone si purifica e si redime e a lui, uomo immeritevole,
Dio, nella sua infinita misericordia, concede il conforto
della Fede, ulteriormente dimostrando come l'uomo Napoleone
non sia altro che l'elemento puntuale di un vasto progetto
provvidenziale. Di fatto, da questo punto, nell'ode, Napoleone
scompare come protagonista e al suo posto si accampa, vera e
propria protagonista di tutto il componimento, la Provvidenza
che, come si è servita di Napoleone quale strumento per la
realizzazione dei propri imperscrutabili disegni, così ora lo
salva, ribadendo il proprio ruolo nella storia umana. Perciò,
questa strofa può veramente considerarsi il centro ideale
dell'ode, evidenziando in modo netto quel confluire dell'umano
nel divino e quell'ammissione della fragilità e caducità
dell'uomo che solo Dio può riscattare e vivificare che
costituisce il tema fondamentale della visione cristiana di
Manzoni.
e l'avviò, pei floridi
sentier della speranza,
ai campi eterni al premio
che i desidéri avanza,
dov'è silenzio e tenebre
la gloria che passò. |
Dio, una volta accorso in aiuto di Napoleone, lo guidò,
attraverso i sentieri della speranza, cioè risvegliando in lui
la fede in un mondo migliore, verso la vera vita, verso la
vita eterna del Paradiso, in cui ogni uomo potrà trovare un
premio che supera ogni umano desiderio e dove la gloria
terrena non ha alcun senso. Per il cristiano Manzoni, dunque,
la vera vita e la vera gloria toccano all'uomo solo quando
questi, dopo aver definitivamente ripudiato se stesso, si
abbandona alla Fede e si lascia guidare da Dio verso il
raggiungimento di quella pace che si nutre di affetti e
speranze non più legati alle cose e ai fatti della terra e si
proietta invece nell'eterno. Tutti gli elementi che compaiono
in questa strofa per caratterizzare la nuova condizione
spirituale di Napoleone sono in potente contrasto con
espressioni delle strofe precedenti, volte a sottolineare,
invece, la sua condizione di uomo ancora legato ai valori
terreni: così i «floridi sentier» che portano alla salvezza
richiamano per contrasto il paesaggio desolato di Sant'Elena e
lo scenario burrascoso del mare dei vv. 61-66; la «speranza»
che ora anima l'uomo Napoleone è in evidente rapporto con
«disperò» del v. 87; «il premio / che i desidéri avanza»
richiama il «premio / ch'era follia sperar» dei vv. 41-42 e
«la gloria che passò» richiama «la gloria / maggior dopo il
periglio» dei vv. 43-44.
Bella Immortal! benefica
fede ai trionfi avvezza !
scrivi ancor questo, allegrati;
ché più superba altezza
al disonor del Golgota
giammai non si chinò. |
O Fede, tu che sei abituata ai trionfi, annovera tra le tue
vittorie anche questa, che è certamente la più grande, dal
momento che mai potenza terrena più superba si è piegata di
fronte alla Croce del Cristo. La strofa traduce la gioia per
la vittoria ottenuta dalla Fede su un personaggio eccezionale
come Napoleone. L'intonazione freddamente oratoria di tutta
l'apostrofe e la retorica superficialità di certe espressioni
sminuiscono l'efficacia di questa strofa, che pure trova in
«disonor del Golgota» un'immagine di rara pregnanza,
giustamente celebre per l'intensità dell'emozione religiosa
che ispira. Quest'ultima espressione, infatti, derivata da S.
Paolo e dai grandi predicatori francesi del '700, è in questa
strofa l'unico momento in cui l'autore si libera dalla sua
retorica un po' troppo convenzionale, per proporre un'immagine
che pone la Croce, simbolo di vergogna diventato per il
credente simbolo di salvezza, in fecondo contrasto con
«superba altezza» del v. 100, in tal modo riproponendo la
propria concezione cristiana della vita e della storia come
rifiuto di ogni gloria e ambizione terrena e come
immedesimazione dell'uomo con il Cristo sofferente e vittima.
Tu dalle stanche ceneri
sperdi ogni ria parola:
il Dio che atterra e suscita,
che affanna e che consola,
sulla deserta coltrice
accanto a lui posò. |
O Fede, disperdi lontano da quest'uomo, provato e redento
dalla sventura e dal dolore, ogni parola di odio e di
condanna: quest'uomo, infatti, accanto a sé, sul letto di
morte, ha avuto Dio, quel Dio che solleva e consola i giusti e
che punisce i malvagi. Alla misericordia di Dio, che ha
permesso a Napoleone di redimersi e di salvarsi, devono
accompagnarsi la pietà e la clemenza degli uomini per
Napoleone: gli uomini, infatti, devono rendersi conto che
nella vita di quest'uomo, riscattata dalla sconfitta e
dall'umiliazione, si è realizzato il disegno divino.. |