Lontano dalla comprensione dei motivi più alti del
romanticismo e del neoclassicismo che sapeva satireggiare solo
nei loro margini inferiori di ridicola fantasticheria o di
ridicola pedanteria, e semmai aperto alle forme più civili del
romanticismo di scuola manzoniana nell'amore più semplice del
concreto e del naturale, il Giusti dispose, sulla salda base
di una umanità schietta e sicura, di una adeguata cultura
letteraria e di una tecnica tutt'altro che da dilettante.
Palazzeschi parlò con naturale simpatia di «perfezione
tecnica» ed uno dei punti che più si debbono segnalare
all'attivo del Giusti è proprio l'incontro fra una genuina
ispirazione di satira del «buon senso», ricca d'estro e di
musicale felicità ed una tecnica formata su di un'abilissima
scelta di una tradizione, a suo modo compatta e utilizzata per
ottenere una fluidità, una capricciosa e pure organizzata
letizia di ritmo, di modi e immagini che pare a volta
improvvisazione ed è invece riconquista paziente.
Disse il Giusti esprimendo la sua simpatia per la Chiocciola:
«ha un ritmo gaio e lesto come un ragazzo» e poche volte un
autore aggiustò così bene un rilievo critico sulla sua poesia,
dette un'indicazione particolare che collima con l'impressione
generale del lettore moderno: quegli «scherzi» in cui
ispirazione e tecnica collaborano in accordo con il fondo più
vero dell'animo giustiano, funzionando nel rilievo di
situazioni ridicole là dove l'esperienza e la forza del Giusti
eran veramente efficaci e intonate, sono i veri risultati
della sua personalità. Dalla Ghigliottina alla Chiocciola, dal
Brindisi di Girella, al Re Travicello e, in parte, al Papato
di Prete Pero, a Gingillino, il Giusti trovò il pieno impiego
delle sue limitate qualità, della sua fantasia bonariamente
estrosa, della sua inventività di immaginette, di caricature,
di situazioni rapidamente delineate senza volontà di indugi e
di scavo, e soprattutto di ritmi festosi e pungenti in cui
compiutamente si esprime lo sdegno e il sorriso di chi vede
dal suo punto di vista di fiducioso «buon senso» tante
storture e tante viltà così sciocche e così antistoriche (e
c'era l'orgoglio della borghesia liberale contro i vecchi
cadenti regimi) che lo sdegno non può mai essere scompagnato
dal riso. Si pensi soprattutto al vivacissimo svolgersi quasi
di «moto perpetuo» del Brindisi di Girella in cui l'arruffato
e brillante ditirambo del voltagiubba di professione si libera
in un comico, inesauribile caleidoscopio di trovate, di
fulminei accostamenti di parole in contrasto (Loreto e la
Repubblica francese!) di nomi bizzarramente accoppiati (Luigi,
l'Albero, Pitt, Robespierre, Napoleone, Pio sesto e settimo,
Murat, Fra Diavolo, Mosca e Marengo e me ne tengo) con rilievi
su cui non ci si può fermare, travolti da questo estro che
rialza anche le immagini più sbiadite e le parole più comuni
con movimenti sinuosi ed elastici, con subite impennate e
cadute per nuovi slanci che non sono il semplice brio di un
ritmo di accompagnamento esterno come parve troppo facilmente
al Croce nella sua definizione di poesia prosastica.
Negli scherzi migliori, pur non dimenticando il limitato
ambito spirituale da cui nascono, i modesti ma sicuri ideali
in nome dei quali si scatenano, si può apprezzare un valore
che resiste e che, se per essere inteso davvero va ricollocato
nelle condizioni storiche in cui si è formato, vale però in sé
e per sé, non cade - come temeva il Giusti - con l'effimera
vita a cui si rivolse. E resistono le figure create dal Giusti
per il piacere dei suoi contemporanei (i birri e la
birrocrazia, l'ateo-salmista, l'arrivista forcaiolo e
collotorto, l'ipocrita senza scrupoli, i preti idrofobi, il
timido beato nel suo vile «particolare») non per una sorta di
evidenza plastica e drammatica (i bulli del Belli), ma per il
rapido lampeggiare di tratti e di epiteti, fusi dentro un
ritratto essenzialmente suggerito dal ritmo comico ed
umoristico. Così nel Re Travicello la figura del monarca senza
bene né male, nella sua comica leggerezza e frivolezza, è
soprattutto affidata alla comica musichetta che si svolge
pausata e leggera,
(Là, là per la reggia
dal vento portato
tentenna, galleggia,
né mai dello stato
non pesca nel fondo;
che scienza di mondo!
Che re di cervello
è un re Travicello!...)
e nel finale del Papato di Prete Pero (l'illusione del papa
liberale in cui pure cadde poi lo stesso Giusti!) la rapida
visione della riunione dei re della Santa Alleanza si realizza
in un rapido svolgimento tra un accordo vivacissimo di parole
che creano fulminee un ritratto («dolce come un istrice») e un
inizio di discorso così spigliato e deciso, un crescendo di
toni e parole sempre più grosse e gustose e un taglio forale
vibrante come uno squillo tragicomico.
No, dicea, non va lasciato
questo papa spiritato,
che vuol far l'apostolo.
Ripescare in pro del cielo
colle reti del vangelo
pesci che ci scappano?
Questo è un papa in buona fede,
un papaccio che ci crede,
diamogli l'arsenico!
E in Gingillino il ritratto dell'apprendista furfante risulta
magnificamente mediante una sequenza di versi ammiccanti e
ricchi di accenti e di mosse interne, disinvolti ed eccitati,
dinoccolati e fluenti, pieni di rapide allusioni quasi da
gergo furbesco, di improvvise fratture.
Piglia quel su e giù del saliscendi;
quell'occhio del ti vedo e non ti vedo;
quel tentennio, non so se tu m'intendi:
che dice si e no, credo e non credo;
e piglia quel sapor di dolce e forte,
che s'usa dal bargel fino alla corte ...
...Andò, si scappellò, s'inginocchiò,
si strisciò, si fregò, si strofinò,
e soleggiato, vagliato, stacciato,
abburattato da Erode a Pilato,
fatta e rifatta la storia medesima,
ricevuto il battesimo e la cresima,
di vile e di furfante di tre cotte,
lo presero nel branco e buona notte.
Fuori di questo periodo singolarmente-propizio, di questa
condizione particolare, invano cercò il Giusti di superare i
suoi migliori risultati, dopo gli anni felici fin verso il
'45. Cercò di allargare la struttura delle sue poesie o nel
tipo quasi novellistico del Sortilegio o in brevi abbozzi di
commediola a dialogo (I discorsi che corrono, Le piaghe del
giorno, La guardia civica) che sembrano preludere al Fucini e
soprattutto (riuscendovi solo in parte nel Sant'Ambrogio, dove
la misura di toni fra serio e comico, fra sentimentale e
burlesco limita quanto vi è pur di fiacco nell'andamento
generale) il Giusti cercò di adeguare con modi meno brillanti,
più riposati, e quasi solenni la nuova situazione del suo
animo che si veniva aprendo a una speranza più facile, ad una
certa euforia tipica di quell'epoca di generoso e generico
emhrassons-nous: guardia civica, costituzione, principi
improvvisamente liberali, papa liberale, largo ottimismo e
persino la speranza del S. Ambrogio di un abbraccio fraterno
con gli oppressori-oppressi e con tutti gli stranieri una
volta allontanati dall'Italia.
E contemporaneamente la sua poetica della naturalezza e della
semplicità che sempre più era suggestionata dalla sua
somiglianza in chiave minore, con la grande scuola del
Manzoni, esagerava la sua punta verso una facilità discorsiva
(L'amor pacco), piacevole, ma senza il piglio, il fervore che
negli Scherzi precedenti, se poteva anche a volte sbrigliarsi
a vuoto, era spesso capace di sollevare la poesia del buon
senso ad autentico estro. Estro che riaffiora in certi avvii
(Su, Don Abbondio, è morto Don
Rodrigo,
sbuca del guscio delle tue paure ...)
o esplode nel finale di Delenda Carthago mediante la ripresa e
l'acceleramento finale di un ritornello incisivo.
(Scriva: vogliam che ogni figlio di
Adamo,
conti per uno: e non vogliam, Tedeschi;
vogliamo i capi col capo; vogliamo
leggi e governo: e non vogliam Tedeschi.
Scriva: vogliamo tutti quanti siamo,
l'Italia, Italia e non vogliam Tedeschi.
Vogliam pagare di borsa e di cervello:
e non vogliamo Tedeschi e a rivedello...)
ma che in genere dal S. Ambrogio in là, è appesantito in una
poesia più lenta e senza fuoco, meditata e seria, ma ispirata
da un animo meno fresco e meno pungente, meno festosamente
combattivo...
Ciò che non riuscì al Giusti nella sua poesia di questo
secondo periodo riuscì invece, su piano nettamente inferiore
agli Scherzi, nella prosa di quel singolare libretto
incompiuto che è la Cronaca dei fatti di Toscana dal 1845...
Qui il Giusti toccava di nuovo il suo terreno, si rinchiudeva
nel suo cerchio limitativo e fecondo e proprio il titolo
stesso (con qualche aria fra Compagni e Guicciardini) indica
bene l'interesse particolare, il limite geografico e il limite
di prospettiva anche volontario: cronaca e fatti. E questa
vicenda di fatti e fatterelli (non la cultura di quegli anni,
non le idee e non una prospettiva italiana ed europea verso la
quale il suo occhio consapevole della propria intensità non si
volgeva) trova di nuovo un legame, un ritmo minuto e certo più
angusto di quello più arioso e fresco degli scherzi migliori,
ma tale da fare fluire con continuità piacevole questa prosa
appuntita, piena di rapide scenette, di ritrattini pungenti,
di allusioni e di brevi lampi di sdegno in una specie di
raccorciamento gustoso in tempi brevi, in agili trapassi. |