CRITICA: LETTERATURA MINORE

 GIUSEPPE GIUSTI

 AUTORE: Walter Binni         TRATTO DA: Giuseppe Giusti scrittore

 

Lontano dalla comprensione dei motivi più alti del romanticismo e del neoclassicismo che sapeva satireggiare solo nei loro margini inferiori di ridicola fantasticheria o di ridicola pedanteria, e semmai aperto alle forme più civili del romanticismo di scuola manzoniana nell'amore più semplice del concreto e del naturale, il Giusti dispose, sulla salda base di una umanità schietta e sicura, di una adeguata cultura letteraria e di una tecnica tutt'altro che da dilettante. Palazzeschi parlò con naturale simpatia di «perfezione tecnica» ed uno dei punti che più si debbono segnalare all'attivo del Giusti è proprio l'incontro fra una genuina ispirazione di satira del «buon senso», ricca d'estro e di musicale felicità ed una tecnica formata su di un'abilissima scelta di una tradizione, a suo modo compatta e utilizzata per ottenere una fluidità, una capricciosa e pure organizzata letizia di ritmo, di modi e immagini che pare a volta improvvisazione ed è invece riconquista paziente.
Disse il Giusti esprimendo la sua simpatia per la Chiocciola: «ha un ritmo gaio e lesto come un ragazzo» e poche volte un autore aggiustò così bene un rilievo critico sulla sua poesia, dette un'indicazione particolare che collima con l'impressione generale del lettore moderno: quegli «scherzi» in cui ispirazione e tecnica collaborano in accordo con il fondo più vero dell'animo giustiano, funzionando nel rilievo di situazioni ridicole là dove l'esperienza e la forza del Giusti eran veramente efficaci e intonate, sono i veri risultati della sua personalità. Dalla Ghigliottina alla Chiocciola, dal Brindisi di Girella, al Re Travicello e, in parte, al Papato di Prete Pero, a Gingillino, il Giusti trovò il pieno impiego delle sue limitate qualità, della sua fantasia bonariamente estrosa, della sua inventività di immaginette, di caricature, di situazioni rapidamente delineate senza volontà di indugi e di scavo, e soprattutto di ritmi festosi e pungenti in cui compiutamente si esprime lo sdegno e il sorriso di chi vede dal suo punto di vista di fiducioso «buon senso» tante storture e tante viltà così sciocche e così antistoriche (e c'era l'orgoglio della borghesia liberale contro i vecchi cadenti regimi) che lo sdegno non può mai essere scompagnato dal riso. Si pensi soprattutto al vivacissimo svolgersi quasi di «moto perpetuo» del Brindisi di Girella in cui l'arruffato e brillante ditirambo del voltagiubba di professione si libera in un comico, inesauribile caleidoscopio di trovate, di fulminei accostamenti di parole in contrasto (Loreto e la Repubblica francese!) di nomi bizzarramente accoppiati (Luigi, l'Albero, Pitt, Robespierre, Napoleone, Pio sesto e settimo, Murat, Fra Diavolo, Mosca e Marengo e me ne tengo) con rilievi su cui non ci si può fermare, travolti da questo estro che rialza anche le immagini più sbiadite e le parole più comuni con movimenti sinuosi ed elastici, con subite impennate e cadute per nuovi slanci che non sono il semplice brio di un ritmo di accompagnamento esterno come parve troppo facilmente al Croce nella sua definizione di poesia prosastica.

Negli scherzi migliori, pur non dimenticando il limitato ambito spirituale da cui nascono, i modesti ma sicuri ideali in nome dei quali si scatenano, si può apprezzare un valore che resiste e che, se per essere inteso davvero va ricollocato nelle condizioni storiche in cui si è formato, vale però in sé e per sé, non cade - come temeva il Giusti - con l'effimera vita a cui si rivolse. E resistono le figure create dal Giusti per il piacere dei suoi contemporanei (i birri e la birrocrazia, l'ateo-salmista, l'arrivista forcaiolo e collotorto, l'ipocrita senza scrupoli, i preti idrofobi, il timido beato nel suo vile «particolare») non per una sorta di evidenza plastica e drammatica (i bulli del Belli), ma per il rapido lampeggiare di tratti e di epiteti, fusi dentro un ritratto essenzialmente suggerito dal ritmo comico ed umoristico. Così nel Re Travicello la figura del monarca senza bene né male, nella sua comica leggerezza e frivolezza, è soprattutto affidata alla comica musichetta che si svolge pausata e leggera,


(Là, là per la reggia
dal vento portato
tentenna, galleggia,
né mai dello stato
non pesca nel fondo;
che scienza di mondo!
Che re di cervello
è un re Travicello!...)



e nel finale del Papato di Prete Pero (l'illusione del papa liberale in cui pure cadde poi lo stesso Giusti!) la rapida visione della riunione dei re della Santa Alleanza si realizza in un rapido svolgimento tra un accordo vivacissimo di parole che creano fulminee un ritratto («dolce come un istrice») e un inizio di discorso così spigliato e deciso, un crescendo di toni e parole sempre più grosse e gustose e un taglio forale vibrante come uno squillo tragicomico.


No, dicea, non va lasciato
questo papa spiritato,
che vuol far l'apostolo.
Ripescare in pro del cielo
colle reti del vangelo
pesci che ci scappano?
Questo è un papa in buona fede,
un papaccio che ci crede,
diamogli l'arsenico!



E in Gingillino il ritratto dell'apprendista furfante risulta magnificamente mediante una sequenza di versi ammiccanti e ricchi di accenti e di mosse interne, disinvolti ed eccitati, dinoccolati e fluenti, pieni di rapide allusioni quasi da gergo furbesco, di improvvise fratture.


Piglia quel su e giù del saliscendi;
quell'occhio del ti vedo e non ti vedo;
quel tentennio, non so se tu m'intendi:
che dice si e no, credo e non credo;
e piglia quel sapor di dolce e forte,
che s'usa dal bargel fino alla corte ...
...Andò, si scappellò, s'inginocchiò,
si strisciò, si fregò, si strofinò,
e soleggiato, vagliato, stacciato,
abburattato da Erode a Pilato,
fatta e rifatta la storia medesima,
ricevuto il battesimo e la cresima,
di vile e di furfante di tre cotte,
lo presero nel branco e buona notte.



Fuori di questo periodo singolarmente-propizio, di questa condizione particolare, invano cercò il Giusti di superare i suoi migliori risultati, dopo gli anni felici fin verso il '45. Cercò di allargare la struttura delle sue poesie o nel tipo quasi novellistico del Sortilegio o in brevi abbozzi di commediola a dialogo (I discorsi che corrono, Le piaghe del giorno, La guardia civica) che sembrano preludere al Fucini e soprattutto (riuscendovi solo in parte nel Sant'Ambrogio, dove la misura di toni fra serio e comico, fra sentimentale e burlesco limita quanto vi è pur di fiacco nell'andamento generale) il Giusti cercò di adeguare con modi meno brillanti, più riposati, e quasi solenni la nuova situazione del suo animo che si veniva aprendo a una speranza più facile, ad una certa euforia tipica di quell'epoca di generoso e generico emhrassons-nous: guardia civica, costituzione, principi improvvisamente liberali, papa liberale, largo ottimismo e persino la speranza del S. Ambrogio di un abbraccio fraterno con gli oppressori-oppressi e con tutti gli stranieri una volta allontanati dall'Italia.
E contemporaneamente la sua poetica della naturalezza e della semplicità che sempre più era suggestionata dalla sua somiglianza in chiave minore, con la grande scuola del Manzoni, esagerava la sua punta verso una facilità discorsiva (L'amor pacco), piacevole, ma senza il piglio, il fervore che negli Scherzi precedenti, se poteva anche a volte sbrigliarsi a vuoto, era spesso capace di sollevare la poesia del buon senso ad autentico estro. Estro che riaffiora in certi avvii


(Su, Don Abbondio, è morto Don Rodrigo,
sbuca del guscio delle tue paure ...)



o esplode nel finale di Delenda Carthago mediante la ripresa e l'acceleramento finale di un ritornello incisivo.


(Scriva: vogliam che ogni figlio di Adamo,
conti per uno: e non vogliam, Tedeschi;
vogliamo i capi col capo; vogliamo
leggi e governo: e non vogliam Tedeschi.
Scriva: vogliamo tutti quanti siamo,
l'Italia, Italia e non vogliam Tedeschi.
Vogliam pagare di borsa e di cervello:
e non vogliamo Tedeschi e a rivedello...)



ma che in genere dal S. Ambrogio in là, è appesantito in una poesia più lenta e senza fuoco, meditata e seria, ma ispirata da un animo meno fresco e meno pungente, meno festosamente combattivo...

Ciò che non riuscì al Giusti nella sua poesia di questo secondo periodo riuscì invece, su piano nettamente inferiore agli Scherzi, nella prosa di quel singolare libretto incompiuto che è la Cronaca dei fatti di Toscana dal 1845... Qui il Giusti toccava di nuovo il suo terreno, si rinchiudeva nel suo cerchio limitativo e fecondo e proprio il titolo stesso (con qualche aria fra Compagni e Guicciardini) indica bene l'interesse particolare, il limite geografico e il limite di prospettiva anche volontario: cronaca e fatti. E questa vicenda di fatti e fatterelli (non la cultura di quegli anni, non le idee e non una prospettiva italiana ed europea verso la quale il suo occhio consapevole della propria intensità non si volgeva) trova di nuovo un legame, un ritmo minuto e certo più angusto di quello più arioso e fresco degli scherzi migliori, ma tale da fare fluire con continuità piacevole questa prosa appuntita, piena di rapide scenette, di ritrattini pungenti, di allusioni e di brevi lampi di sdegno in una specie di raccorciamento gustoso in tempi brevi, in agili trapassi.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis