Il disegno delle Confessioni era straordinariamente grandioso.
Raccogliere intorno al filo d'una immagine autobiografica, una
raffigurazione della vita italiana che, dal piccolo mondo
feudale del Settecento, si volge agli ideali di libertà, prima
in Venezia, poi nelle effimere repubbliche romana e
partenopea, fino all'epoca, torbida e sconsolata, delle
congiure e degli esili. Tutto ciò, non già visto dal ristretto
angolo d'una prospettiva paesana; ma scorrazzando per lungo e
per largo la penisola, e spingendosi, in ultimo, tra le nebbie
londinesi; muovendo e facendo parlare personaggi a dozzine, e
introducendo, come negli episodi, per verità meno riusciti,
del padre reduce di Turchia e dell'incognita sorella Aglaura,
spunti d'un gusto quasi picaresco. Il romanzo era scritto
prima che il Nievo partisse con la spedizione dei Mille. E
considerata la giovinezza dell'autore e la mole e complessità
dell'assunto, è soltanto ovvio che si debba prendere atto
delle sue discontinuità e imperfezioni.
Superfluo dire che mai il Nievo compone a freddo o d'accatto.
Ed anche nelle parti della trama meno convincenti, la
fantasia, la lingua, il dono di penetrazione morale, sanno
riscattarsi con continue sorprese. La inesauribile felicità di
temperamento del narratore, irradia situazioni che parrebbero
quasi disperate. Con tutto ciò, dopo il capitolo decimo,
l'edificio più e più traballa con brusche oscillazioni.
Cos'è più gustosa, specie in rapporto al tempo nel quale fu
dettata, di quella descrizione di Bologna al capitolo
decimottavo a Spregiudicata, d'una sensualità tinta
d'umorismo, come potrebbe essere in un odierno fantasista;
laddove, per esempio, nei due precedenti capitoli i fatti
d'arme di Velletri e di Bisceglie sono spennelleggiati con
l'irruenza banale e un po' spaccona ch'è nei bozzetti di un
Sanesi, d'un Pollastrim, d'un Ussi ed altri «battaglisti» di
metà secolo, che appunto s'erano accodati agli scrittori di
romanzo. Al modo stesso che l'episodio della Pisana, che a
Londra va attorno chiedendo l'elemosina per Carlino diventato
cieco, sembra concepito in gara, con le lacrimosità del
romanticismo nordico. E precede soltanto di poche pagine la
morte della Pisana, per dolcezza di stile e arditezza di
affetti, tra le cose più insigni che uscirono dalla penna del
Nievo.
Su questo giuoco d'alti e bassi sarebbe facile trattenersi a
lungo; ciò che infine riuscirebbe pedantesco. Talune mende
sarebbero certamente sparite se, dopo la campagna di Sicilia,
il Nievo avesse potuto riprendere il suo manoscritto. Ma è da
temere che, nella rielaborazione dell'insieme, e sotto il
minuzioso lavoro della lima, in parte avrebbe finito anche col
perdersi qualcosa di essenziale: quell'ineffabile trepidità,
quell'arcana lievitazione, quel senso di entusiasmo che fanno
delle Confessioni, incomparabilmente, il più bel poema di
giovinezza della letteratura italiana. Non per nulla l'autore
di questo poema fu con Garibaldi a Varese, a Calatafimi, a
Palermo. E a trent'anni, quando gli altri incominciano a
vivere e a scrivere, ebbe già fornito l'opera e la vita...
Per colorire le altre figure, potevano bastare al Nievo il
gagliardo talento, la virtù naturale dell'osservazione e
dell'espressione, la versatile oggettività nello sceverare
cause ed effetti delle azioni morali: tutte doti che, sebbene
possedute ad un grado e in una fusione così singolari, non
però hanno in sé troppo di misterioso e meraviglioso. La
meraviglia e il mistero cominciano ogni volta che entra in
scena la Pisana. Come per il fascino di una presenza che lo
esalta e trasfigura, il Nievo acquista nuovo potere. E direi
quasi che parla con una nuova voce.
Altrove si esprime in prosa, ma qui si esprime in poesia.
Altrove ritrae, descrive, commenta; ma qui crea, come soltanto
creano i veri poeti. Ed altrove si può parlare d'ingegno, di
talento, di gusto. Ma qui, e non sembri parola eccessiva: qui
occorre parlare di genio. D'un genio saltuario, non chiarito a
se stesso; ma ben riconoscibile nelle sue operazioni. Altrove
il Nievo è tuffato e invischiato nel proprio tempo. Ma quando
la Pisana lo piglia per mano e conduce, la servitù al tempo si
scioglie; e sbocciano nel libro superbe anticipazioni.
Anticipazioni anche per il giorno d'oggi: dopo che tanti
sudori ed inchiostri furono sparsi in Italia sugli amori
infantili e le dolci ebefrenie, e sugli altri amori che
spesso, pur troppo, diventavano bigottamente insipidi o
intellettualmente frigidi per paura di riuscire volgarmente o
preziosamente sensuali.
Che con i suoi capricci, i suoi inganni, la sua amoralità, la
Pisana, oltre che tremendamente viva e vera, sia una figura
talmente adorabile, ed inviti ad una confidenza grave, casta,
profondamente umana, è tra i più galanti e misteriosi trionfi
della poesia di qualunque tempo. Paragonatela, bambina, alle
bambine del Dossi; ed esse vi parranno fiorellini malati,
nevrasteniche scimmiette. Paragonatela, amante, alle donne del
D'Annunzio; e non soltanto vi parranno infinitamente meno
carnali e desiderabili, ma psicologicamente quasi ottuse;
congenitamente incapaci a investirsi d'una così armonica
molteplicità di sentimenti, significati e contraddizioni. Che
or è un secolo, sia stato possibile, a uno scrittore talmente
giovane, spirare tanta originalità di vita e di sentimento in
questa figura di donna, resterà sempre uno dei fatti più
portentosi e imperscrutabili di tutta la nostra storia
letteraria.
Non si diminuisce il pregio delle Confessioni, riconoscendo il
loro spirito più inedito e vigoroso nel personaggio della
Pisana. E' piuttosto da ammettere che questo italianissimo
personaggio, non è stato ancora studiato ed amato dai critici,
quanto sarebbe degno: che in parte può essere una conseguenza
della sua straordinaria novità. Dalla migliore comprensione
della splendida figura, si avvantaggerebbe certo anche la
nostra presente arte narrativa; che talvolta va a cercarsi
modelli di qua e di là, fino agli antipodi e a casa al
diavolo: ma non vi troverà mai il cordiale sorriso, la grazia
amorevole e ardita, l'anima di fuoco d'un'altra Pisana. |