«Ieri alla fine ho terminato il mio romanzo; son proprio
contento di riposarmi. Fu una confessione assai lunga». Con
queste ormai famose parole, del 17 agosto 1858, Ippolito Nievo
annunciava d'aver compiuto Le Confessioni d'un Italiano, il
grande romanzo che è il suo capolavoro e l'ultima sua, opera
di narratore. V'è in queste parole il senso di chi s'alza
finalmente da tavolino dopo una lunga estenuante fatica che
l'abbia tenuto prigioniero, legato con la mente e col cuore in
un continuo sforzo, per una intensa giornata, durata ben otto
mesi. Un periodo di tempo che è parso a tutti troppo breve per
un romanzo di tanta mole, così ricco di personaggi, di casi e
di avventure diversi, che abbraccia la storia veneta,
lombarda, napoletana, ligure, italiana infine, dal 1775 al
1855, quasi un secolo, pressoché tutta la vita del
protagonista, l'ottuagenario italiano Carlo Altoviti.
Eppure tanto furore di lavoro non fu eccezionale nel Nievo :
eccezionale, se mai, il risultato. Direi quasi che non v'è
scrittore italiano che abbia compiuto e abbozzato nel giro di
trent'anni tanta dovizia di opere, pur non negandosi la vita,
cioè gli affetti familiari, l'amore, lo studio, le amicizie,
le passeggiate, il combattimento politico e guerresco. Chiusa
in una rapida e intensa stagione, la vita del Nievo ha sempre
attratto per la sua nitidezza: non una menda si può trovare in
essa; nulla che dispiaccia nell'uomo, sorridente e discreto
propugnatore di ideali per i quali era egli stesso il primo
pronto al sacrificio, devoto ad una religione del lavoro
ravvivata da una calda fiducia nell'umanità, amante
appassionato e gentile. Veramente, di fronte all'uomo
risentiamo lo stupore dell'Abba che lo vide sfolgorante
d'ingegno, diverso dagli altri uomini in tutta la persona,
guardare i monti della Conca d'Oro nell'impresa garibaldina, o
la soggezione che già provò il Croce innanzi ai pensieri, alle
parole e agli atti di quel giovane.
Quella gran corsa ad una splendente maturità che con
entusiasmo seguiamo nella sua vita, non la ritroviamo altresì
corrispondente nella forma del suo operare letterario. Tutta
l'opera del Nievo è protesa verso le Confessioni d'un
Italiano, ma esse lasciano ben addietro i romanzi, i racconti,
le liriche, le tragedie che a loro fanno corona; e nell'Angelo
di Bontà, nel Conte Pecoraio, nelle Lucciole, negli Amori
Garibaldini, nei Capuani, nello Spartaco ritroviamo, ancora
più gravi, i difetti che fanno delle Confessioni un grande
romanzo, ma un romanzo disuguale. Eppure senza quei tentativi,
senza quelle opere mancate (per tanti versi interessanti e non
prive di pagine vive e poetiche) senza quella diuturna fatica
di scrittore che, iniziata imberbe giovinetto, lo addestrò
all'arte dello scrivere, al cercare dentro di sé e nei ricordi
altrui e nella natura e nella storia, i sentimenti i fatti che
meglio parlavano alla sua immaginazione fervida e seria,
ironica e morale, senza quei tentativi non sarebbero nate da
un giovane ventisettenne le Confessioni. Per questo, nella
nostra edizione non abbiamo voluto dimenticare le opere
minori; dimenticarle sarebbe stato indulgere ad un gusto
romantico che fu già di uomini del passato che vollero vedere
nelle Confessioni d'un Italiano come un'improvvisa apertura,
la rivelazione d'uno scrittore giovane d'anni e di esperienze,
un esordio alla grande arte subito troncato, anziché una
conclusione; ed esagerarono nel crederle scritte «di getto».
Dimenticarle avrebbe anche significato credere o voler far
credere ad uno «strappo» tra le opere minori e la grande
ultima opera; invece nelle pagine che l'hanno preceduta il
lettore troverà le prime fonti del mondo poetico delle
Confessioni, e i primi toni d'un linguaggio e d'una morale
fantasia che già sono singolarmente nieviani.
Angelo di Bontà, scritto tra i primi mesi e l'agosto del 1855,
manifesta già la preoccupazione dello scrittore di creare
intorno ai Personaggi un ambiente, di fedelmente ricostruire
un periodo della storia veneziana: gli anni della decadenza
avanti la caduta della Repubblica. Egli si avvalse e degli
studi eruditi degli storici - e ben sapeva servirsene, con una
padronanza del senso storico non inferiore a quella manzoniana
- e dei ricordi del nonno materno, il nobile veneziano Carlo
Marin, presente, ventiduenne, alle ultime sedute del Maggior
Consiglio. Di più: volle entrare nell'intimo di quella
società, ridonarcela anche attraverso il linguaggio, fosse
pure a discapito dell'arte. Non aveva scritto, parlandone col
Fusinato, ancor sotto il calore del primo progetto, che per
iscriver bene un romanzo bisogna esser botanici, paesisti,
filosofi, economisti, filologi e per di più poeti? E tutto ciò
egli vorrà essere, con il «per di più» sempre più presente,
nelle Confessioni. Così difendeva il linguaggio di Angelo di
Bontà, la prima grande prova, di fronte alle critiche
dell'amico Andrea Cassa, nel novembre del '57 (il romanzo era
uscito a Milano nel 1856): «Ricordo che parlando del mio
Angelo di Bontà ne appunti lo stile di sdolcinatura soverchia,
dicendo che a te forse sembra più grave un tal difetto per
essere da gran tempo disavvezzo alla musica dei dialoghi
veneziani. Capisco per altro come a te, bresciano, rivolti lo
stomaco quel vezzeggiare continuo, ma non capisco come a te,
scrittore e poeta, sfugga la necessità di adoperarlo come
colore attissimo a rappresentare la vita veneziana massime dei
tempi dei quali mi piacque discorrere». Tali intenti
documentari possono non giovare all'arte, e difatti non
giovarono all'Angelo di Bontà, in cui i personaggi rimangono
soffocati e deformati dentro la cornice storica, ed essa
cornice è talvolta forzata a soggiacere alla vicenda: come se
di quando in quando lo scrittore cambiasse registro, incerto
se dar maggior peso alla parte di più pura fantasia o alla
parte ricostruttiva. La fedeltà al linguaggio del tempo è, in
fondo, propugnata ma non affrontata, la grazia del dialetto
non si avverte; pesa anzi una certa prolissità e sdolcinatura;
ma è già presente l'abbondanza del periodo, quel distendersi
lungo e ampio dell'immagine e della frase, che è tanto veneto
e tanto nieviano.
Le Confessioni porteranno poi a maturazione lo stile ancora
impacciato dell'Angelo di Bontà, scompariranno in esse le
incertezze del linguaggio ora infarcito di richiami dialettali
veneti e lombardi, ora legato ad accattati modi toscani, ora
indulgente a modi eccessivamente discorsivi, di prosa parlata.
Così quell'amore ancora municipale per Venezia, apparso già in
una lettera del Nievo quasi ventenne a Matilde Ferrari, vive e
alimenta la tragica visione veneziana dell'Angelo di Bontà, ed
è già pronto a cedere di fronte al più grande amore nazionale
per l'Italia: sembra che il Nievo scrittore, del 1850 del
1855, del 1858, l'anno delle Confessioni, abbia ripercorso le
tappe del sentimento patriottico del suo Carlino Altoviti; in
questo le Confessioni sono autobiografiche. Quando Ippolito
nacque a Padova il 30 Novembre 1831, non erano ancor quarant'anni
che la millenaria Repubblica di Venezia era caduta sotto i
colpi infertile dall'Impero asburgico e dal Bonaparte, uniti,
dopo tanta guerra sul suo territorio, nella comune decisione
di spegnerne la sovranità; ed egli vide la luce nell'anno dei
moti di Romagna. Quando nacque alla vita politica e all'arte,
vide la lotta di Venezia del '48--'49, l'errore di restaurare
il simulacro della vecchia Repubblica e l'antico grido di San
Marco; più tardi le impiccagioni di Belfiore lo scossero fin
nel profondo. Patriota formatosi nei dolori del primo
Risorgimento, conservò gli slanci generosi del '48, le istanze
progressive della Rivoluzione di quell'anno, la ferma
convinzione che il Risorgimento dovesse essere concretamente
risorgimento di popolo. Vissuto tra moderati, non lo fu mai:
più mazziniano dei mazziniani, più democratico dei
democratici. Scrittore senza crisi, senza complicazioni
intellettuali, volle essere scrittore popolare e nazionale, e
nei pensieri e nella lingua. Romanticamente pensava che i suoi
romanzi e i suoi racconti campagnoli potessero essere letti a
veglia nelle stalle. |