CRITICA: LETTERATURA MINORE

 LA CULTURA DEL NIEVO

 AUTORE: Iginio De Luca         TRATTO DA: Introduzione a I. Nievo

 

L'atteggiamento di Ippolito Nievo di fronte ai problemi della cultura contemporanea è dal primo momento ben preciso. Gli Studi sulla poesia popolare e civile massimamente in Italia ci dànno l'ideale di poesia e insieme il ritratto morale del giovane Ippolito. Il quale, facendo qui il suo primo esame di coscienza, trova nel concetto o ideale di poesia popolare un punto di appoggio e di orientamento per superare quello stato di «inerzia e sconforto» di cui parla il Tenca, per saldare la frattura aperta fra letteratura e vita sociale e civile.
In questi sei capitoletti, tracciati con penna svelta e in linee essenziali, troviamo naturalmente temi di cultura del tempo e in fondo la stessa linea dello scritto di Carlo Tenca (il concetto letterario non disgiunto dallo spirito pubblico), con la stessa attenzione alle correnti poetiche d'Europa e ai loro nessi con quelle d'Italia, quantunque questa linea sia sviluppata in senso più strettamente civile e popolare, più aderente cioè al «movimento progressivo delle classi meno elevate attraverso le varie età» («l'ignoranza in cui vegetano quelle classi e più ancora la secolare noncuranza dei dotti a loro riguardo lasciano negli annali delle lunghe e lagrimevoli lacune»). Ma pure - ed è ciò che più importa - abbiamo una presa di posizione propria, un fermento e una libera scelta di motivi ai quali il Nievo resterà fedele nel corso della sua esistenza di uomo e di scrittore. Abbiamo qui motivi e temi vichiani, foscoliani e romantici in genere. Il concetto di poesia popolare viene a coincidere con quello di poesia primitiva, della «poesia eroica» dei primi tempi dell'umanità («in questo periodo primitivo comparisce gemella per così dire del linguaggio articolato, e la sua storia si confonde coll'istoria filosofica del linguaggio stesso»). Ma nel concetto estetico (per cui la poesia popolare si identifica con la poesia primitiva, identificata questa a sua volta con la vera e genuina poesia) confluisce pure il concetto civile e nazionale e insieme quello morale della poesia. La quale così è intesa non solo come «espressione d'una intera società» ma come «miglioramento morale», «rigenerazionedelle classi popolari», strumento necessario per il «progredimento civile della nazione, fine santo e sublime senza cui la poesia è una sfarzosa vacuità o un sogno brillante e inefficace».
Ma questi temi romantici del Nievo non restano simboli astratti, vuoti schemi mentali, ripetizioni di formule generiche. Nel suo sforzo di chiarificazione interiore egli porta pure una sua tensione morale, un impegno di azione diretta che lo spingono decisamente oltre i limiti del romanticismo. Per questo, se la letteratura è «espressione di un'intera società», il poeta non può rimanere distante dalla stessa società, non può chiudersi nella sterile formula dell'arte per l'arte, non può ignorare i problemi, le ansie, le aspirazioni del popolo di cui deve farsi il portavoce, non può cioè non impegnarsi direttamente in quella «rigenerazione delle classi popolari» che è lo scopo primo della vera poesia. Il resto è vana letteratura, accademia.

Così il Nievo, sviluppando fino in fondo certe premesse del romanticismo, è portato a celebrare la poesia dialettale (il Porta specialmente, e poi lo Zorutti e il Meli) e il dialetto come strumento di poesia nazionale («quello spirito cosmopolita che i romanzieri francesi vanno smerciando sui mercati letterari di tutta Europa non si trova a suo agio nelle rustiche spoglie del vernacolo»). I rapporti dei vari dialetti italiani con la lingua letteraria sono guardati da lui con occhio nuovo, senza gli esclusivismi conservatori degli scrittori di tradizione umanistica e classicistica, senza pure le riserve del Manzoni e dei suoi seguaci (Gioberti, Tenca, Carcano, Bonghi). Il Nievo insiste sugli « effetti buoni » dei dialetti « ove si consideri la maggiore originalità che ne desumono le diverse regioni della penisola, e il grande vantaggio che insensibilmente perverrà alla lingua scritta dalla fusione che di questi immensi materiali parlati si verrà operando sotto la pressura unificatrice del tempo ». Di qui le caratteristiche venature dialettali del suo linguaggio, scaturite necessariamente da una adesione viva alle esigenze del popolo, massime di quella parte del popolo, il volgo campagnuolo, che era stata ignorata o cacciata in margine proprio dalla cultura e dalla società del romanticismo.

Il Nievo ha coscienza di essere già fuori del romanticismo. Il suo equilibrio spirituale, l'aspirazione costante a quella «armonia suprema e morale» che egli celebra nel poeta popolare di Guascogna, Jasmin («le sue ispirazioni veramente popolari emanano immediatamente da quella vita di perenni contrasti in cui si agita il povero popolo: e fra questi contrasti, da lui provati e descritti, con uno sforzo sublime egli tenta sempre stabilire un'armonia suprema e morale»), lo staccano completamente da certe esagerazioni dei romantici («nella loro fede morale il dolore si traduce in accasciamento, la speranza in inerte aspettazione, l'idea in sogno, l'amore in mistica stravaganza»), da quelle loro malattie che non potevano intaccare la naturale sanità del popolo (non avevano indovinato «nel popolo che li circondava quella fibra elastica e robusta che non si spezza al primo urto, ma che risponde invece alla percossa con una pronta reazione e si acuisce perciò nella lotta anziché ottundersi») dal delirio dei più deboli («delirio che finì sovente col suicidio: suicidio comico talora, perché false le cause che lo inducevano»). Si capisce allora come egli saluti nel Parini il «vero patriarca» della nuova letteratura, risorta dopo secoli di decadenza. Il Parini che nelle Odi rinnova la poesia «morale e civile», e più ancora il poeta che punge il giovi signore («egli primo volse l'occhio sdegnoso sull'ozio corrotto e ignorante del grasso patriziato lombardo o meglio italiano d'allora, e ne stigmatizzò i vizi putridi, e le vergognose inezie con quella satira tremenda»), non il maestro di classicismo (l'uso delle immagini mitologiche è «vaghissima costumanza nel caso suo, avendole egli introdotte a mio credere avvertitamente perché ragguagliata a rimembranze di tempi eroici e semidivini più ridicola e pigmea ne apparisce la personcina del suo eroe»). Si capisce come la lezione del Parini per lui sia presente nell'opera del Manzoni («né altrimenti io credo il Parini stesso avrebbe narrato la storia di Renzo e di Lucia, poiché quell'amore della vita semplice e casalinga, e delle bellezze e delle nature agresti, nonché quello studio amichevole delle indoli popolari e quel linguaggio tra il famigliare e l'elegante sono a colpo sicuro suppellettile sua»). E si capisce, in fondo, l'eccessiva esaltazione della «severa musa» del Giusti («il suo ingegno veramente dantesco si nutrì col sangue più sostanzioso della Divina Commedia, e veramente la collana delle sue satire è lo specchio dei vizi e delle corruzioni del nostro secolo, come le cantiche del Sommo Poeta sono il ritratto delle disarmonie civili del Trecento»). Parini, Manzoni, Giusti resteranno, in quello che hanno di veramente «popolare» , costanti punti di riferimento nello sviluppo dell'opera letteraria del Nievo.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis