Gli scritti di critica letteraria stanno, per così dire, al
margine dell'opera di Carlo Cattaneo, che in altri problemi,
economici, linguistici, storici, politici, si sentì più
personalmente impegnato: non si possono però considerare -
nemmeno quelli di carattere prevalentemente informativo - come
scritti d'occasione, estranei a quel pensiero che altrove ha
il suo centro, ma che si riflette anche in queste pagine e in
esse ci richiama più di una volta qualcuno dei suoi motivi
prediletti. Ed anche nella critica letteraria si riconosce, se
pur con rilievo non così forte come in altre parti della sua
opera, la fisionomia caratteristica del pensatore lombardo nel
suo originale contemperamento di tendenze diverse e talora
opposte, per cui egli ha un posto a sé, ben distinto, nella
vita culturale e politica dell'età sua.
Perché, si sa, nel Risorgimento romantico e spiritualista,
cattolicamente o razionalisticamente spiritualista, il
Cattaneo ama richiamarsi alla tradizione del secolo
decimottavo e rivendicarne il valore umano e speculativo
contro i correnti giudizi dispregiativi: discepolo del
Romagnosi, ha parole severe per le «nebbie dell'idealismo» e
si appella come a maestro al Locke, il «filosofo» per
eccellenza dei dotti e degli indotti del Settecento, e, con
lui, a Bacone, celebrato dagli enciclopedisti come
l'iniziatore della nuova, della «vera» filosofia. Avverso al
Rosmini, con cui ebbe un'aspra polemica, e parimenti ostile al
Gioberti, rimane insensibile al verbo del Mazzini e in genere
ai miti dell'età sua, come quelli del «primato» e della
«missione» dei popoli, che egli critica e a cui oppone
l'ideale di un compito comune da perseguire da ciascuno
nell'ambito della propria nazione, «nella patria che abbiamo»
«colla lingua che parliamo», quello di «accrescere il dominio
delle intelligenze» sulla terra e di «detrarre quanto si può
alla rozzezza originaria che forma dappertutto il fondo delle
nazioni». Pensiamo a un rinnovato e affinato illuminismo, e lo
diremmo della famiglia di Pietro Verri, da lui celebrato coi
migliori dell'età sua nel magnifico elogio della Lombardia
settecentesca che si legge nell'Introduzione alle Notizie
naturali e civili sulla Lombardia («Pompeo Neri, Rinaldo Carli,
Cesare Beccaria, Pietro Verri, non sono nomi egualmente noti
in Europa, ma tutti egualmente sacri nella memoria dei
cittadini. La filosofia era stata legislatrice nei
giureconsulti romani; ma fu quella la prima volta che sedeva
amministratrice di finanze e d'annona e d'aziende comunali; e
quell'unica volta degnamente rispose a una nobile fiducia») :
ad un tempo riconosciamo in lui per la sua insistente polemica
antimetafisica, anzi antifilosofica, per il suo richiamo
costante ai fatti, per l'esaltazione delle scienze
sperimentali che vengono ad assumere nel suo pensiero una
parte essenziale nella storia dell'incivilimento e alla cui
fecondità egli contrappone la sterilità delle discussioni
filosofiche, un precursore del positivismo, o meglio il primo
positivista italiano. Già in lui è la concezione della
filosofia come il «nesso comune di tutte le scienze»,
l'«espressione più generale di tutte le varietà», il riassunto
o la conclusione dei risultati delle altre discipline, e si
delinea più che un abbozzo di sociologia, come si accennano
non pochi motivi particolari della cultura positivistica (nel
campo del diritto penale ad esempio).
Eppure il «positivista», l'«illuminista», che ci parla dalle
pagine del Politecnico è tutto penetrato di pensiero storico:
lo scrittore attento a tutti i ritrovati della tecnica, vede
sempre dietro i procedimenti tecnici l'uomo che li ha creati e
che sa farne uso, con le idee e le passioni che lo ispirano e
la tradizione a cui si appoggia, ed, economista, proclama il
pensiero ossia l'intelligenza e la volontà, principio
d'economia pubblica («Nulla accade nella sfera delle ricchezze
che non riverberi in essa dalla sfera delle idee»); lo
studioso di scienze naturali che suole premettere ai suoi
schizzi storici descrizioni geologiche e geografiche
accuratissime, non attribuisce mai un valore causale a quelle
che sono soltanto le condizioni e gli strumenti dell'azione
umana e non si stanca di ricondurre la considerazione del
lettore da tutti quei presunti «fattori» al protagonista vero
della storia, l'uomo, con una coerenza che molti idealisti
potrebbero invidiargli. Così il Cattaneo nega che la storia di
un popolo sia determinata dalla configurazione o dalla qualità
del suolo («Il corso della istoria, anziché prendere
immantinenti forma dalla qualità naturale dei paesi, come
volle Herder, procede affatto inversamente alla sua
dottrina»), o che istituzioni umane possano essere spiegate
con una causa naturale come il clima; ed anche rifiuta le
spiegazioni fondate su presunti caratteri permanenti dei
popoli, che abbassano pur esse la storia a natura. Al di là
degli schemi delle singole scienze sempre egli coglie nella
sua complessità la realtà della storia avverte ad esempio, nel
campo della linguistica, che egli fu il primo in Italia a
coltivare con metodi moderni, l'indebito procedimento di
coloro che dalla constatazione dell'unità linguistica
indoeuropea inferiscono l'unità originaria dei popoli che
parlano quei linguaggi, e fantasticano di una migrazione in
massa di quell'unico popolo da cui sarebbero discese le
diverse popolazioni dell'Europa e, sempre nello stesso ordine
di studi, si dichiara inappagato da una scienza che tenga
conto unicamente delle somiglianze delle lingue per risalire
all'unità primitiva e trascuri invece le «dissomiglianze», i
caratteri differenziali delle singole lingue. Quei caratteri
da parte sua, egli spiega con la reazione e la persistenza
dell'elemento indigeno nel linguaggio divenuto dominante,
precorrendo la nota teoria dell'Ascoli del «sostrato»; e con
la commozione di uno storico, a cui la scoperta di nuovi
documenti dischiuda una nuova prospettiva sul passato,
riconosce nei dialetti europei «l'unica memoria di. quella
prisca Europa che non ebbe istoria e non lasciò monumenti».
La storia è veramente il mondo del suo pensiero: se nel
discorrere di filosofia si lascia riprendere dall'abito
antistorico dell'illuminismo e giunge ad affermare che lo
studio dei filosofi del passato è inutile (che giova studiare
ciò che è stato trovato falso?) e che la storia della
filosofia non può mostrarci se non «passi sparsi per vie che
non conducono al vero», tali relitti scompaiono nella
considerazione della storia politica e civile, di cui egli
intende la razionalità, non sgomento da quelli che sembrano
gli aspetti negativi e che maggiormente contrastano coi suoi
ideali umanitari, non mai rinnegati. Non indarno egli ha letto
il Vico, e del Vico ha ammirato sopra tutto la «sublime
dottrina, la quale sola riconcilia la dura ragione di stato
coi voti dell'astratta giustizia e umanità, o, come dice altra
volta, «fonde la dottrina degli interessi come campeggia nel
Machiavelli, con la dottrina della ragione, additata da Grozio»:
agli «interessi», alla «forza» si affisa anch'egli nella sua
opera di storico come al momento ineliminabile dello
svolgimento dell'umanità, e a un tempo sa vedere come dal
conflitto degli interessi particolari scaturisca una realtà
che li trascende e nella quale si affermano nuovi valori. E
vivissimo in lui è il senso della condizionalità di ogni opera
umana, della presenza della storia, di tutta la storia in ogni
nostro atto; vivissimo, il senso e il gusto dell'individualità
di ogni creazione storica, istituzioni, civiltà, personaggi, e
bene tale gusto si rivela nello stile, che, senza compiacersi
mai nel pittoresco per se stesso, sa delineare con singolare
concisione e potenza la fisionomia di un individuo, di un
popolo, di un'età, la civiltà dei Celti o il Medioevo spagnolo
o, in poche righe del saggio sul Filippo e sul Don Carlos, la
figura e la missione di Carlomagno. Si direbbe perciò che il
suo atteggiamento di «illuminista» e di «positivista» di
fronte alla sua età, della quale egli accoglie il frutto
migliore, il pensiero storico, abbia un valore come di difesa
contro una troppo facile accettazione dei concetti e dei miti
del tempo suo, oltreché, s'intende, di una riaffermazione di
quegli ideali cari al secolo precedente, di cui il nuovo
secolo pareva talora fare troppo incautamente getto: ce ne
accorgiamo, direi, dallo stesso suo stile, che vibra di una
poetica commozione, ignota ad illuministi e a positivisti, nel
discorrere di opere e di monumenti della storia umana, e,
nello stesso tempo, contiene quella commozione entro quelle
linee di un discorso austeramente scientifico e classicamente
sostenuto - il caratteristico discorso del Cattaneo, che ne fa
uno dei più originali prosatori del nostro Ottocento. |