CRITICA: LETTERATURA MINORE

 CARLO CATTANEO

 AUTORE: Mario Fubini         TRATTO DA: Gli scritti letterari del Cattaneo

 

Gli scritti di critica letteraria stanno, per così dire, al margine dell'opera di Carlo Cattaneo, che in altri problemi, economici, linguistici, storici, politici, si sentì più personalmente impegnato: non si possono però considerare - nemmeno quelli di carattere prevalentemente informativo - come scritti d'occasione, estranei a quel pensiero che altrove ha il suo centro, ma che si riflette anche in queste pagine e in esse ci richiama più di una volta qualcuno dei suoi motivi prediletti. Ed anche nella critica letteraria si riconosce, se pur con rilievo non così forte come in altre parti della sua opera, la fisionomia caratteristica del pensatore lombardo nel suo originale contemperamento di tendenze diverse e talora opposte, per cui egli ha un posto a sé, ben distinto, nella vita culturale e politica dell'età sua.

Perché, si sa, nel Risorgimento romantico e spiritualista, cattolicamente o razionalisticamente spiritualista, il Cattaneo ama richiamarsi alla tradizione del secolo decimottavo e rivendicarne il valore umano e speculativo contro i correnti giudizi dispregiativi: discepolo del Romagnosi, ha parole severe per le «nebbie dell'idealismo» e si appella come a maestro al Locke, il «filosofo» per eccellenza dei dotti e degli indotti del Settecento, e, con lui, a Bacone, celebrato dagli enciclopedisti come l'iniziatore della nuova, della «vera» filosofia. Avverso al Rosmini, con cui ebbe un'aspra polemica, e parimenti ostile al Gioberti, rimane insensibile al verbo del Mazzini e in genere ai miti dell'età sua, come quelli del «primato» e della «missione» dei popoli, che egli critica e a cui oppone l'ideale di un compito comune da perseguire da ciascuno nell'ambito della propria nazione, «nella patria che abbiamo» «colla lingua che parliamo», quello di «accrescere il dominio delle intelligenze» sulla terra e di «detrarre quanto si può alla rozzezza originaria che forma dappertutto il fondo delle nazioni». Pensiamo a un rinnovato e affinato illuminismo, e lo diremmo della famiglia di Pietro Verri, da lui celebrato coi migliori dell'età sua nel magnifico elogio della Lombardia settecentesca che si legge nell'Introduzione alle Notizie naturali e civili sulla Lombardia («Pompeo Neri, Rinaldo Carli, Cesare Beccaria, Pietro Verri, non sono nomi egualmente noti in Europa, ma tutti egualmente sacri nella memoria dei cittadini. La filosofia era stata legislatrice nei giureconsulti romani; ma fu quella la prima volta che sedeva amministratrice di finanze e d'annona e d'aziende comunali; e quell'unica volta degnamente rispose a una nobile fiducia») : ad un tempo riconosciamo in lui per la sua insistente polemica antimetafisica, anzi antifilosofica, per il suo richiamo costante ai fatti, per l'esaltazione delle scienze sperimentali che vengono ad assumere nel suo pensiero una parte essenziale nella storia dell'incivilimento e alla cui fecondità egli contrappone la sterilità delle discussioni filosofiche, un precursore del positivismo, o meglio il primo positivista italiano. Già in lui è la concezione della filosofia come il «nesso comune di tutte le scienze», l'«espressione più generale di tutte le varietà», il riassunto o la conclusione dei risultati delle altre discipline, e si delinea più che un abbozzo di sociologia, come si accennano non pochi motivi particolari della cultura positivistica (nel campo del diritto penale ad esempio).

Eppure il «positivista», l'«illuminista», che ci parla dalle pagine del Politecnico è tutto penetrato di pensiero storico: lo scrittore attento a tutti i ritrovati della tecnica, vede sempre dietro i procedimenti tecnici l'uomo che li ha creati e che sa farne uso, con le idee e le passioni che lo ispirano e la tradizione a cui si appoggia, ed, economista, proclama il pensiero ossia l'intelligenza e la volontà, principio d'economia pubblica («Nulla accade nella sfera delle ricchezze che non riverberi in essa dalla sfera delle idee»); lo studioso di scienze naturali che suole premettere ai suoi schizzi storici descrizioni geologiche e geografiche accuratissime, non attribuisce mai un valore causale a quelle che sono soltanto le condizioni e gli strumenti dell'azione umana e non si stanca di ricondurre la considerazione del lettore da tutti quei presunti «fattori» al protagonista vero della storia, l'uomo, con una coerenza che molti idealisti potrebbero invidiargli. Così il Cattaneo nega che la storia di un popolo sia determinata dalla configurazione o dalla qualità del suolo («Il corso della istoria, anziché prendere immantinenti forma dalla qualità naturale dei paesi, come volle Herder, procede affatto inversamente alla sua dottrina»), o che istituzioni umane possano essere spiegate con una causa naturale come il clima; ed anche rifiuta le spiegazioni fondate su presunti caratteri permanenti dei popoli, che abbassano pur esse la storia a natura. Al di là degli schemi delle singole scienze sempre egli coglie nella sua complessità la realtà della storia avverte ad esempio, nel campo della linguistica, che egli fu il primo in Italia a coltivare con metodi moderni, l'indebito procedimento di coloro che dalla constatazione dell'unità linguistica indoeuropea inferiscono l'unità originaria dei popoli che parlano quei linguaggi, e fantasticano di una migrazione in massa di quell'unico popolo da cui sarebbero discese le diverse popolazioni dell'Europa e, sempre nello stesso ordine di studi, si dichiara inappagato da una scienza che tenga conto unicamente delle somiglianze delle lingue per risalire all'unità primitiva e trascuri invece le «dissomiglianze», i caratteri differenziali delle singole lingue. Quei caratteri da parte sua, egli spiega con la reazione e la persistenza dell'elemento indigeno nel linguaggio divenuto dominante, precorrendo la nota teoria dell'Ascoli del «sostrato»; e con la commozione di uno storico, a cui la scoperta di nuovi documenti dischiuda una nuova prospettiva sul passato, riconosce nei dialetti europei «l'unica memoria di. quella prisca Europa che non ebbe istoria e non lasciò monumenti».

La storia è veramente il mondo del suo pensiero: se nel discorrere di filosofia si lascia riprendere dall'abito antistorico dell'illuminismo e giunge ad affermare che lo studio dei filosofi del passato è inutile (che giova studiare ciò che è stato trovato falso?) e che la storia della filosofia non può mostrarci se non «passi sparsi per vie che non conducono al vero», tali relitti scompaiono nella considerazione della storia politica e civile, di cui egli intende la razionalità, non sgomento da quelli che sembrano gli aspetti negativi e che maggiormente contrastano coi suoi ideali umanitari, non mai rinnegati. Non indarno egli ha letto il Vico, e del Vico ha ammirato sopra tutto la «sublime dottrina, la quale sola riconcilia la dura ragione di stato coi voti dell'astratta giustizia e umanità, o, come dice altra volta, «fonde la dottrina degli interessi come campeggia nel Machiavelli, con la dottrina della ragione, additata da Grozio»: agli «interessi», alla «forza» si affisa anch'egli nella sua opera di storico come al momento ineliminabile dello svolgimento dell'umanità, e a un tempo sa vedere come dal conflitto degli interessi particolari scaturisca una realtà che li trascende e nella quale si affermano nuovi valori. E vivissimo in lui è il senso della condizionalità di ogni opera umana, della presenza della storia, di tutta la storia in ogni nostro atto; vivissimo, il senso e il gusto dell'individualità di ogni creazione storica, istituzioni, civiltà, personaggi, e bene tale gusto si rivela nello stile, che, senza compiacersi mai nel pittoresco per se stesso, sa delineare con singolare concisione e potenza la fisionomia di un individuo, di un popolo, di un'età, la civiltà dei Celti o il Medioevo spagnolo o, in poche righe del saggio sul Filippo e sul Don Carlos, la figura e la missione di Carlomagno. Si direbbe perciò che il suo atteggiamento di «illuminista» e di «positivista» di fronte alla sua età, della quale egli accoglie il frutto migliore, il pensiero storico, abbia un valore come di difesa contro una troppo facile accettazione dei concetti e dei miti del tempo suo, oltreché, s'intende, di una riaffermazione di quegli ideali cari al secolo precedente, di cui il nuovo secolo pareva talora fare troppo incautamente getto: ce ne accorgiamo, direi, dallo stesso suo stile, che vibra di una poetica commozione, ignota ad illuministi e a positivisti, nel discorrere di opere e di monumenti della storia umana, e, nello stesso tempo, contiene quella commozione entro quelle linee di un discorso austeramente scientifico e classicamente sostenuto - il caratteristico discorso del Cattaneo, che ne fa uno dei più originali prosatori del nostro Ottocento.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis