Monti era morto nel 1827; e nel I830, avresti detto che vent'anni
fossero passati sul suo sepolcro. Ei non aveva avuto
successore. a scuola di Poesia ch'egli aveva capitanato era
rapidamente caduta, seta lotta o protesta, come chi sente
finita la propria missione. E cadendo, essa avea trascinato
con sé, quasi testimonianza della propria vita, gli ultimi
avanzi di quella vuota, sterile, servile Accademia, combattuta
acerbamente da Monti e rovesciata dal primo apparire del
Romanticismo. Nato mentre Cesarotti, Alfieri e Parini avevano
infuso un alito rinnovatore in ogni ramo di letteratura,
cresciuto poeta di mezzo a quelle tendenze rivoluzionarie che
in Italia strapparono poche riforme ai re, in America crearono
la libertà, in Francia conquistavano tacitamente terreno per
rivelarsi poco dopo tremendamente distruggitrici, Monti si
cacciò sull'arena poetica con tutte le audacie del novatore.
Ei contribuì largamente all'emancipazione letteraria; scosse
la dittatura delle Accademie e la servile obbedienza di quella
Scuola pretesa classica che fraintendeva i Maestri, che non
osando affisarsi in essi, imitava gli imitatori, e che aveva
arbitrariamente dettato canoni pedanteschi per ogni poeta e
per ogni soggetto possibile. Monti ebbe stile chiaro, potente,
libero d'affettazione; e provò coll'esempio che il linguaggio
della poesia poteva innalzarsi per forza propria e senza
salire sui trampoli. Inoltre, adattando lo stile al soggetto,
ei mostrò come ad ogni pensiero corrisponda una data forma.
Come Manfredi, Rolli, Lazzarini, Zanotti ed altri aveva
chiesto una ispirazione di rinnovamento nell'espressione
poetica al Petrarca, ei chiese ispirazioni per lo stesso fine
a Dante e ne derivò tanto da infonderle energia, vigore, senso
d'immagini e vita. Ma per l'idea, per lo spirito, per la
sostanza poetica ci fece pochissimo. Servo più di sensazioni
che di vera sensibilità, potente d'immagini più che di scienza
del core, d'indole fiacca e indecisa, diseredato ugualmente di
profondi concetti nell'intelletto e di pura e santa fede
nell'anima, egli afferrò un lato solo nella vita, il lato
obbiettivo. Abbandonò l'arte ai sensi e alla fantasia, e la
ridusse a specchio nel quale vennero l'un dopo l'altro a
riflettersi, rivestiti di splendide tinte, ma senza vincolo
d'unione o affinità, gli oggetti che le circostanze gli
ponevano innanzi. Accolse ubbidiente tutte le ispirazioni
venute a lui dal mondo esterno, qualunque fosse l'indole loro
o il punto donde movevano. Dipinse la natura, senza mai
trasformarla o innalzarla all'ideale: disegnò forme e credette
d'avere scolpito esseri umani e viventi. I personaggi de' suoi
poemi hanno tutti sembianza d'ombre: mancano d'anima, di
carattere determinato, di quell'impronta che costituisce
l'individuo. Or che mai è la poesia, se non ci presenta tipi
individuali o verità generali feconde d'applicazioni? Monti
non rinnovò quindi la poesia: per lui la forma ringiovanì, ma
senza soffio di vera vita. Ritmo, colorito, armonia, gli
procacciarono fama, non potenza di giovare all'Umanità o di
raggiungere un nobil fine sociale. L'Arte gli fu, non mezzo,
ma fine. E mezzo, non fine, fu l'Arte a Dante ch'ei pur
chiamava maestro; e la stanza di Manzoni
Salve, o divino a cui largì natura
il cor di Dante e del suo duca il canto;
questo fia il grido dell'età futura;
ma l'età che fu tua tel dice in pianto
suona amara ironia anziché meditato giudizio. Dante non
avrebbe successivamente adulato al Papa e all'Imperatore,
all'Austria e alla Rivoluzione. Dante non avrebbe sagrificato
l'arte ai sensi esterni; ei l'adorava com'angiolo sulle cui
ali ci si levava in cielo per riportarne verità utili a' suoi
fratelli esuli con lui sulla terra. Dante fondava una Scuola
che conta in oggi rari seguaci, ma che splenderà auspice e
guidatrice quando l'Italia di popolo si farà, sorgendo,
Nazione. Eccetto poche ispirazioni di lirica spontaneità nel
concetto, alcuni frammenti splendidi per finezza di forma e
uno o due canti della Mascheroniana, a Monti non rimarrà tra i
posteri che la fama di un Trovatore brillante. |