CRITICA: NEOCLASSICISMO E MONTI

 MONTI TRADUTTORE

 AUTORE: Manara Valgigli    TRATTO DA: V. Monti: Opere

 

Che il Monti sapesse di greco più o meno; che alla intelligenza del greco avesse avuto luce e suggerimenti da traduzioni letterali e soprattutto da amici eruditi come il Mustoxidi e il Visconti; è cosa che può interessare questa o codesta ricerca parziale, e soddisfare a questa o quella parziale curiosità: qui non ha sua ragione. Una espressione che il Monti abbia raccolta e preferita perché più esatta relativamente al testo greco, vale non in quanto più esatta, ma in quanto abbia conservata o riacquistata coerenza col generale tono della traduzione e della poesia: se non è così, se si avverte come isolata e staccata, se non risponde coerentemente allo spirito nuovo dell'insieme, se non è immersa e fusa nella nuova unità, codesta espressione, ancorché esattissima, è difetto non pregio, è vizio e non è virtù.

E quale è e che cosa è questa unità Il Monti è poeta letterato. Già aveva letta in qualche versione l'Iliade, fino da giovinetto presso l'Università di Ferrara; la rilesse, in qualche più recente e meglio approvata versione, a Roma; ne sentì parlare e disputare da suoi amici eruditi, filologi e archeologi, da E. Q. Visconti massimamente, in quel magnifico rinascere e rifiorire degli studi antichi, quando e dove tuttavia duravano l'eco e la fortuna del grandissimo Winckelmann e (Alfieri aveva proposto di istituire l'ordine dei cavalieri di Omero. Ai suoi occhi Omero in espressione raccolta e compiuta, era la bella antichità, la bella mitologia, la bella letteratura, la bella immaginazione, la bella eloquenza; ed egli pensò e ricominciò a tradurre l'Iliade.
Disse Leopardi che il Monti non è poeta, ma squisitissimo traduttore; diciamo che è poeta in quanto è, essenzialmente poeta traduttore. Qui, veramente il suo poetare non ha scorie o residui; o assai meno che altrove: di fronte a Omero egli è veramente pieno di Apollo. Un largo sentimento fantastico, immaginoso, luminoso, lo penetra e occupa intimamente; che è l'impressione di un Omero veduto un poco dall'alto, udito un poco da lungi, non verso per verso e nemmeno canto per canto, bensì in una sua totalità piena che ne adegua ogni avvallamento e ne pareggia e nasconde ogni connessa giuntura: come a un profano - e giova talvolta esser profani più che non paia - il quale una gran cattedrale veda nel suo insieme, con quel soffice velo onde il tempo ne ha ricoperti e fusi e confusi gli strati diversi di formazione; non come a un erudito che codesti strati ed elementi, e le età e gli artefici, discopre e isola e distingue. Egli ha dinanzi a sé un antico mondo eroico animato e avvivato dal suo stesso desiderio di amarlo e di possederlo; e vuole possederlo intiero; e Omero gli dà il modo e il senso di questa possibilità nella pienezza del racconto e del mito. Da codesto mondo l'Alfieri distacca alcune figure, le investe del suo spirito violento, le pone a fronte, cozzanti e dure, su la scena; e ne fa azione, dramma, contrasto. Il Monti più che raffigurare e rappresentare ama raccontare e cantare; più che senso plastico drammatico, ha senso narrativo e musicale: e l'epos omerico lo seduce e lo abbaglia come una grande onda voluminosa, abbondante e lucente, sonora e solenne; il mito e il racconto epico gli si gonfiano nell'animo col calore e col lievito di una orazione eloquente. A ciò egli ha pronto e sicuro, addestrato e affinato da una consapevole tradizione classica italiana e latina, lo strumento del suo stile; e il congegno mirabile, leggero e saldo, snodato e compatto, del suo endecasillabo. E così tutta la Iliade, dal primo verso,

Cantami, o diva, del Pelíde Achille

è una meravigliosa espressione di cantata eloquenza.

Ebbene, in codesto tono e suono, certe che, raffrontate col testo omerico, potrebbero parere inutili giunte, si addicono naturalmente: e non già per compimento di verso, bensì per finitezza di immagine e insieme per ampliamento e arrotondamento di frase c di ritmo e periodo poetico, che qui è anche ritmo e periodo oratorio. E la più parte, anche in sé stesse, sono giunte eccellenti. Vedete il famoso cenno di Giove (I, 700 sgg.):

Disse; e il gran figlio di Saturno i neri sopraccigli inchinò.

Quel «grande» non è nel testo; ma subito ci prepara mirabilmente, esaltando la figura del dio, alla solennità dell'atto tremendo. Dice Ettore ad Andromaca (VI, 588 sgg.): Né tanto mi accora il dolore del padre ecc.,

quando il crudele
tuo destino, se fio che qualche Acheo,
del sangue ancor de' tuoi lordo l'usbergo,
lacrimosa ti tragga in servitude.


Il penultimo verso, si può dire, è tutto del Monti: Omero dice solo Quando alcuno degli Achei vestiti di bronzo». Ma il Monti rivive nella immagine il dolore iroso di Ettore; e l'aggiunta è perfettamente a suo posto. Rispondendo all'ambasceria di Agamennone, nel suo discorso a Ulisse, che è una bellezza singolarissima tutto quanto, Achille dice tra l'altro (IX, 461 sgg.):

Sì, dimani vedrai, se te ne cale,
coll'aurora spiegar su l'Ellesponto
i miei legni le vele, ed esultanti
tutte di lieti remator le sponde.


«Spiegar le vele» non è nel testo; Omero dice «navigare»; e nemmeno «esultanti sponde» è nel testo. Con due tocchi il Monti ha creato quattro versi stupendi; dove l'immagine e il sentimento dell'immagine sono una cosa sola, in un eguale tono; alla luce dell'aurora, sul mare, quelle aperte vele sembrano anche come aprire e dilatare il respiro di Achille, e quasi colorire e illuminare del suo proposito di vendetta la soddisfazione gioconda. Quando Ettore restituisce ad Andromaca il figlio, il Monti dice (VI, 638 sgg.):

ed ella
con un misto di pianti almo sorriso
lo si raccoglie all'odoroso seno.


«Almo» non è in Omero; ed è aggettivo di sapore un po' arcaico e letterario; ma detto di una madre, e di Andromaca, e in quel punto, e con quell'accento che riecheggia dalla parola precedente, ammorbidisce e distende il verso, che è, dei versi del Monti, specialmente bellissimo.

In generale è stato notato, a biasimo, che troppo spesso il Monti usa modi e parole arcaiche, e dice, per esempio, prore e non navi, delubro e non tempio, destrieri e non cavalli, lieo e non vino; e dice fiata, sendo, renduto, e simili. Talvolta il biasimo è giusto: per esempio, la stessa parola «almo», che sta bene nel verso lodato sopra, non sta bene in II, 341, in quella parlata di Ulisse a Tersite, così tra giocosa e feroce. Ma una parola di tipo arcaico o letterario comunque ricercata o rara non è vizio per sé medesima, bensì se non intonata o male inserita al contesto; se vizio per sé medesima, parecchie cose della nostra letteratura dovremmo condannare, e bellissime: per esempio, molte delle Odi barbare del Carducci. Piuttosto non sempre e non tutte si addicono certe reminiscenze più direttamente letterarie, dal Petrarca da Dante dal Tasso: per esempio, nello stesso episodio di Tersite, le parole «pur d'auro hai fame» (II, 298) ; e così altre altrove, dove il colorito oratorio non è affatto commisurato, come qui, can la situazione rappresentata, e prevale inadatto e incomposto. Anche spiacciono certi movimenti e atteggiamenti melodrammatici di impostatura alfieriana: per esempio, I, 181, 236, 384 e simili. Ma bisogna riconoscere e dire che questi e quelle sfuggono il più delle volte, e si perdono e smorzano nella continuità del raccontare poetico; o non offendono duramente. Anche è stato notato che dove Omero ha più spesso proposizioni staccate o coordinate o comunque in eguale piano, e per ciò stesso con rilievi antitetici che conferiscono a una espressione più concitata e più mossa; il Monti meglio ama congiungere per subordinazione, accentuando e accentrando punti determinati, e dare insomma più ampio giro e come una lunghezza più flessuosa e rotonda alla frase e al periodo. Inutile cercare e recare esempi. Se non che, pur fatta ragione della diversità necessaria tra le due lingue, anche qui la maniera del Monti muove solitamente dalla sua ispirazione medesima, che è, come dissi, di tradizione letteraria classica e di colorito oratorio; e dunque, anche qui, dal di dentro, non dal di fuori. E come ciascun elemento, aggiunte di parole, ricercatezze verbali, e in ispecie compimenti e ampliamenti di frase e di immagine, sono suggeriti per istinto da questo fluire melodico che cerca per ogni insenatura modi e mezzi al suo appagamento e alla sua espressione compiuta; così a loro volta si immergono essi in questo fluire, e gli servono docili e lo accrescono e lo moltiplicano di mobili onde, componendosi l'un l'altro e annullandosi in compatta unità e armonia.

Della quale più sensibili testimonianze si potrebbero avere, chi esaminasse minutamente qualche episodio singolo. Il Monti non traduce, ma interpreta: che è pur l'unico modo di tradurre. Subito egli coglie di un episodio, di un personaggio, di un'azione, l'accento fondamentale; e a quello volge e piega il suo interpretare, che è il suo tradurre, e intona il suo canto. Non ha deviazioni o urti o arresti, come chi sia preoccupato di altro e ad altro intenda: come chi, per esempio, si affatichi su l'analisi verbale del testo, o si adoperi di seguir certo stile e di provocare e ottenere effetti voluti. Egli ha dentro una sua musica: e quella ode, e a quella obbedisce.

Vedete, per esempio, (episodio di Tersite. Subito dal principio sentite che la fantasia del Monti è già presa e immersa nella volgarità maligna e buffonesca della scena e della persona. Il lessico è volgare: «vomitava» è del Monti (II, z79) ; anche la parola «cerèbro» (v. 278), che a taluno può parere preziosità letteraria, è di tono volgare e realistico, come nel verso di Bertram da Bornio «partito porto il mio cerèbro» ecc. La figura di Tersite è animata in un rilievo netto; e come sbalzate a rilievo sono le parole stesse di questi versi, in quel loro martellare gremito di accenti (v. 283 sgg.):

Non venne a Troia di costui più brutto
ceffo; era guercio e zoppo, e di contratta
gran gobba al petto; aguzzo il capo, e sparso
di raro celo.


«Ceffo» è interpretazione bellissima del Monti, che nella figura dipinge l'animo: Omero ha solo uomo. Figura, animo, voce, hanno un che come di animalesco e di canino, di puntuto e di aguzzo: aguzzo è il capo e puntata la gobba, come stridula è la voce (v. 289). Anche «morder rabbioso», dove Omero ha «offendere», è del Monti (v. 288) ; e così più sotto «l'abbaiar di questo cane» (v. 358), «la frega di dar morso» (v. 360), sono in un tono di coerenza perfetta. Ed ecco la gran bastonatura di Ulisse, e il riso dagli Achei (v. 320 sgg.):

Gli fu sopra
reperite il figlio di Laerte,


ecc. Rivediamo il mostriciattolo piccolo zoppo gobbo pelato, che più piccolo si abbassa e si rannicchia; e sopra di lui il grande Ulisse, col bastone levato: e la «tempesta» dei colpi, e la «schiena rubiconda», e il tristo che si contorce e piange, e appena osa guardare di traverso, «obbliquo», e appena alzare la mano non per difendersi - una mano quasi abbandonata, «il dosso della mano» - ma per asciugarsi il pianto (v. 345 sgg.). Non si dice che il Monti compia dove Omero sia incompiuto; ché ognuno che traduce compie: e compie non la espressione altrui, della quale anzi taluni elementi o non accentua o tralascia, bensì la espressione propria, e cioè la propria interpretazione e visione. Perché questo solo è tradurre, dove tradurre è poesia.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis