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È questo il poema più maturo e meditato del Monti che vi dedicò tante cure e tanta sapienza stilistica dal 1784 al 1828, anno della sua morte, (e gli ultimi versi rimasero incompiuti), stendendovi a mano a mano che il suo spirito si allontanava dalla prima esuberanza più esaltata, una patina di delicatezza e di pensosità che noi abbiamo già trovato. nella poesia a Teresa Pikler. Questo poeta della letteratura e della mitologia, incapace di propri miti potenti quali un Goethe, uno Shelley, un Foscolo sapranno creare sulla materia classica, accanto alle poesie più fervide ed eloquenti era venuto creandosi una maniera in cui lo stimolo letterario era subordinato proprio alla poesia che per lui sorgeva dalla mitologia greca, non tanto per una nostalgia di epoche primitive e perfette come è nei più grandi romantici da Hólderlin al Leopardi, quanto per l'ingenua e letteraria fede di trovarvi una vita poetica già realizzata, un mondo già vivo in belle forme. Ingenuo e letterario, perché privo di profondi motivi personali e perché dotato di una fantasia senza proprio centro animatore, il Monti mentre si era servito della mitologia a puro scopo ornamentale nei poemi cortigiani, liberandosi solo a tratti in un vagheggiamento puro e semplice del mito, ma sempre inevitabilmente inquinandolo con i riferimenti occasionali e con l'intenzione glorificatrice e retorica, trovò in alcuni poemi più liberi come la Musogonia e la Feroniade libero sfogo ad una creazione poetica che trae la sua ispirazione unicamente dai bei miti pagani e si adagia in una musica meno eloquente, più segnata e disinteressata pur senza naturalmente perdere quella nativa disposizione a costruzioni grandiose e immaginose: ma una grandiosità e una immaginosità meno barocche, meno ad effetto, più miranti ad un suono continuo, senza rilievi improvvisi, ad una atmosfera di poesia omerica, dopo tanto vasta imitazione di Dante, Ossian, Milton. Omero e Virgilio gli offrono modelli di un sublime più familiare, di proporzioni più brevi e concrete, più adatte a frenare la sua fantasia esuberante e poco consistente, non regolata da una misura interna. Nascono così delle pagine certo più lente e pallide, meno focose ed accese di quelle che conosciamo nella Bellezza dell'Universo, e certo in definitiva più modeste e prudenti, ma anche più capaci di farsi gustare senza il continuo pericolo di salti nel vuoto, di stamburate fragorose, di colori chiassosi, accecanti. Ripetiamo che non c'è un vero superamento, un vero rinnovamento impossibile nell'ispirazione mondana, e che il Monti più genuino è sempre da cercarsi nelle prime poesie, ma v'è certamente un affinarsi del suo gusto, un ridursi provvidenziale delle sue pretese in limiti che permettono risultati sempre sostanzialmente letterari e più letterariamente sorvegliati, ma capaci di attrarci con maggiore pacatezza, quasi con maggiore intimità. La Feroniade fu iniziata anch'essa con uno spunto di occasione e di celebrazione: il poeta durante una partita di caccia del principe Braschi nei dintorni di Terracina aveva visto la fonte Feronia famosa per essere stata rammentata da Orazio (Sat. I, V, 24) e vi aveva subito collegato (intenzione di celebrare il prosciugamento delle paludi Pontine, ove tale fonte sorgeva, prosciugamento che papa Pio VI aveva intrapreso senza riuscire a portarlo a termine a causa delle vicende politiche sopravvenute con l'ingresso di Napoleone in Italia. Ma lo spunto occasionale è qui veramente trascurabile e l'argomento vero del poemetto (in 3 canti di complessivi 2422 versi) è la descrizione del mito della ninfa Feronia, amata da Giove e punita, malgrado l'immortalità concessale dal Padre degli Dei, da Giunone gelosa, con inondazioni, terremoti e incendi che devastano il suo regno nel Lazio meridionale, e costretta a fuggire e rifugiarsi nell'umile capanna di un pastore, dove Giove scende a prometterle nuovo regno e nuova felicità. |
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