CRITICA: NEOCLASSICISMO E MONTI

 LA BASSVILLIANA

 AUTORE: Carlo Muscetta    TRATTO DA: Introduzione a Vincenzo Monti

 

Il suo eroe [Bassville], teologo, letterato e pubblicista (tra l'altro aveva scritto i Mémoires de M.me de Varennes, continuazione dell'autobiografia di Rousseau), nei primi anni della Rivoluzione era stato cattolico e fautore della monarchia, poi, divenuto ardente repubblicano, era stato mandato come diplomatico a Napoli. In missione politica a Roma, fu accoltellato dalla plebaglia sanfedista, ma morì con tutti i conforti. Anzi il papa prese cura della sua famiglia e gli fece rendere a sue spese solenni onoranze, quasi ad ostentare la superiore capacità di perdono del mondo cattolico e contrapporla alle violenze giacobine. Il Monti frequentava gli ambienti liberaleggianti e pare che lo avesse conosciuto di persona. Si diceva (e lo ripeté anche il poeta in certi suoi versi scritti in atmosfera repubblicana) che il delitto era stato organizzato. La Convenzione protestò con una energica nota alla Segreteria di Stato. Quel sangue così vicino colpì il Monti come un ammonimento, lo commosse quel perdono papale. E si identificò a tal segno col suo eroe che, poco dopo il delitto, nel giro di pochi mesi scrisse quattro canti uno dopo l'altro. Benché dopo li abbia ritoccati (e arricchiti di interessanti note) sono rimasti così come furono scritti di getto. Il Monti concepì il poema come l'espiazione di Bassville, strappato all'inferno da un angelo che prima di accompagnarlo in purgatorio gli mostra l'inferno rivoluzionario della Francia da cui è stato provvidenzialmente salvato. Questa concezione lo portava a scegliersi Dante per modello. Venne fuori un Dante «ingentilito», come fu detto dal primo entusiasta critico della Bassvilliana. «Un Dante passato attraverso l'Arcadia», replicò il De Sanctis e, possiamo precisare, attraverso il Varano. A una cultura storica d'occasione, che il Monti s'era fatta valendosi dei libelli controrivoluzionari in circolazione a Roma, aggiungeva i ricordi delle sue letture giovanili.
Dalla famosa descrizione della peste di Messina del Varano (Visione V) trasse il motivo essenziale, come non mi sembra sia stato notato. Ma che differenza tra lo squallido modello e il suo magnifico imitatore! Ecco il Varano

Ogni tempio era infaustamente chiuso;
immoti i sacri bronzi, e alle notturne
lampade tolto di risplender l'uso:

le armoniose canne taciturne;
e senza l'immortal vittima, fare,
e senza nenie pie le squallide urne...



E leggete Monti:


Muto de' bronzi il sacro squillo, e mute
l'opre del giorno, e muto lo stridore
dell'aspre incudi e delle seghe argute;

sol per tutto un bisbiglio ed un terrore,
un domandare, un sogguardar sospetto,
una mestizia che ti piomba al core... !



Giustamente l'Angelini osserva che questi versi fanno pensare alla prosa manzoniana. E in verità se i poemi (e in genere tutti i versi del Monti) li leggiamo con umanistica attenzione a certe squisitezze formali, ci rendiamo conto del fascino che questo artista ha lungamente esercitato, e ci spieghiamo il coro di riconoscenza profonda che scrittori e poeti non hanno esitato a manifestare, confessandosi discepoli di tanta maestria. «Il cor di Dante e di Virgilio il canto»: questa del Manzoni non pare una frase di circostanza, dovuta alla conversione finale del Monti, ma un giudizio ben preciso e cosciente (e ne vedremo la vitale autorità nella storia della critica montiana). Vero è che il Manzoni aveva una disistima alquanto voltairiana per Dante. E il dantesco di Monti era pura sonorità. «Aveva Dante nell'orecchio, Virgilio nell'immaginazione», replicò il De Sanctis. Ecco un particolare. Osservate gli angeli della Bassvilliana quando scendono a salvare l'anima di Luigi dalle larve infernali degli scrittori «regicidi» dell'Enciclopedia, e confrontateli con quelli del Purgatorio (canto VIII) da cui sono imitati. In Dante il rapporto del colore e del disegno è immediatamente plastico: l'immagine fa corpo con l'oggetto. In Monti tutto l'ondeggiare delle chiome e del panneggio è così fragoroso e abbondante che non riesci neppure a cogliere l'immagine: tutto è impreciso, confuso rabbuffato. Quello sfoggio di imitazione in parte era dovuto alla fretta e al bisogno di ricorrere a frasi fatte e a luoghi comuni, in parte era un facile mezzo per garantirsi col ricordo letterario un effetto sicuro. Queste esigenze da improvvisatore e da propagandista divengono sfacciate, se si pensa al modo con cui insiste sulla morte di Luigi XVI, dipingendola con i colori del Vangelo e della Passione di Gesù. Monti racconta con una vigile attenzione a ogni artificio che possa colpire meglio l'immaginazione e inculcare in chi legge l'orrore per quella morte. Questo lo scopo della «pietosa visione» e ben dichiarato: «Sì ch'ogni ciglio a lacrimar costringa». Ecco come descrive la ghigliottina:

Cadean le teste, e dalle gole uscia
parole e sangue; per la polve il nome
di Gesù gorgogliando e di Maria.


Nel momento più drammatico, quando egli avrebbe dovuto rappresentare con parole sue quel fatto nuovo, l'inopportuna reminiscenza rivela di colpo la nullità del contenuto e il falso di quella pittura truculenta e agitatoria. Ciò che lascia più diffidenti (è stato detto benissimo dal Pompeati) è quell'accanito contrapporre di qua tutta la luce, di là le tenebre della barbarie», «il lato, insomma, ingenuo e fazioso del poema». Ingenuo non direi però il nostro scenografo dell'al di là, che trasfigurava Luigi XVI in Gesù Cristo, e che deformava un Voltaire e un Diderot in assassini, appena salvando Rousseau come il buon ladrone della «filosofia d'oltremonti». Il poema si chiudeva con un interrogativo: «Su chi propizie volgeran le sorti?» In Francia il nuovo regime si consolidava, e il Monti si preoccupava di avere scritto la Bassvilliana: egli, in fondo, si sentiva sempre un liberale. E confidandosi a Francesco Torti già si raccomandava di non esagerare troppo con le sue lodi del poema.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis