Il suo eroe [Bassville], teologo, letterato e pubblicista (tra
l'altro aveva scritto i Mémoires de M.me de Varennes,
continuazione dell'autobiografia di Rousseau), nei primi anni
della Rivoluzione era stato cattolico e fautore della
monarchia, poi, divenuto ardente repubblicano, era stato
mandato come diplomatico a Napoli. In missione politica a
Roma, fu accoltellato dalla plebaglia sanfedista, ma morì con
tutti i conforti. Anzi il papa prese cura della sua famiglia e
gli fece rendere a sue spese solenni onoranze, quasi ad
ostentare la superiore capacità di perdono del mondo cattolico
e contrapporla alle violenze giacobine. Il Monti frequentava
gli ambienti liberaleggianti e pare che lo avesse conosciuto
di persona. Si diceva (e lo ripeté anche il poeta in certi
suoi versi scritti in atmosfera repubblicana) che il delitto
era stato organizzato. La Convenzione protestò con una
energica nota alla Segreteria di Stato. Quel sangue così
vicino colpì il Monti come un ammonimento, lo commosse quel
perdono papale. E si identificò a tal segno col suo eroe che,
poco dopo il delitto, nel giro di pochi mesi scrisse quattro
canti uno dopo l'altro. Benché dopo li abbia ritoccati (e
arricchiti di interessanti note) sono rimasti così come furono
scritti di getto. Il Monti concepì il poema come l'espiazione
di Bassville, strappato all'inferno da un angelo che prima di
accompagnarlo in purgatorio gli mostra l'inferno
rivoluzionario della Francia da cui è stato provvidenzialmente
salvato. Questa concezione lo portava a scegliersi Dante per
modello. Venne fuori un Dante «ingentilito», come fu detto dal
primo entusiasta critico della Bassvilliana. «Un Dante passato
attraverso l'Arcadia», replicò il De Sanctis e, possiamo
precisare, attraverso il Varano. A una cultura storica
d'occasione, che il Monti s'era fatta valendosi dei libelli
controrivoluzionari in circolazione a Roma, aggiungeva i
ricordi delle sue letture giovanili.
Dalla famosa descrizione della peste di Messina del Varano
(Visione V) trasse il motivo essenziale, come non mi sembra
sia stato notato. Ma che differenza tra lo squallido modello e
il suo magnifico imitatore! Ecco il Varano
Ogni tempio era infaustamente chiuso;
immoti i sacri bronzi, e alle notturne
lampade tolto di risplender l'uso:
le armoniose canne taciturne;
e senza l'immortal vittima, fare,
e senza nenie pie le squallide urne...
E leggete Monti:
Muto de' bronzi il sacro squillo, e mute
l'opre del giorno, e muto lo stridore
dell'aspre incudi e delle seghe argute;
sol per tutto un bisbiglio ed un terrore,
un domandare, un sogguardar sospetto,
una mestizia che ti piomba al core... !
Giustamente l'Angelini osserva che questi versi fanno pensare
alla prosa manzoniana. E in verità se i poemi (e in genere
tutti i versi del Monti) li leggiamo con umanistica attenzione
a certe squisitezze formali, ci rendiamo conto del fascino che
questo artista ha lungamente esercitato, e ci spieghiamo il
coro di riconoscenza profonda che scrittori e poeti non hanno
esitato a manifestare, confessandosi discepoli di tanta
maestria. «Il cor di Dante e di Virgilio il canto»: questa del
Manzoni non pare una frase di circostanza, dovuta alla
conversione finale del Monti, ma un giudizio ben preciso e
cosciente (e ne vedremo la vitale autorità nella storia della
critica montiana). Vero è che il Manzoni aveva una disistima
alquanto voltairiana per Dante. E il dantesco di Monti era
pura sonorità. «Aveva Dante nell'orecchio, Virgilio
nell'immaginazione», replicò il De Sanctis. Ecco un
particolare. Osservate gli angeli della Bassvilliana quando
scendono a salvare l'anima di Luigi dalle larve infernali
degli scrittori «regicidi» dell'Enciclopedia, e confrontateli
con quelli del Purgatorio (canto VIII) da cui sono imitati. In
Dante il rapporto del colore e del disegno è immediatamente
plastico: l'immagine fa corpo con l'oggetto. In Monti tutto
l'ondeggiare delle chiome e del panneggio è così fragoroso e
abbondante che non riesci neppure a cogliere l'immagine: tutto
è impreciso, confuso rabbuffato. Quello sfoggio di imitazione
in parte era dovuto alla fretta e al bisogno di ricorrere a
frasi fatte e a luoghi comuni, in parte era un facile mezzo
per garantirsi col ricordo letterario un effetto sicuro.
Queste esigenze da improvvisatore e da propagandista divengono
sfacciate, se si pensa al modo con cui insiste sulla morte di
Luigi XVI, dipingendola con i colori del Vangelo e della
Passione di Gesù. Monti racconta con una vigile attenzione a
ogni artificio che possa colpire meglio l'immaginazione e
inculcare in chi legge l'orrore per quella morte. Questo lo
scopo della «pietosa visione» e ben dichiarato: «Sì ch'ogni
ciglio a lacrimar costringa». Ecco come descrive la
ghigliottina:
Cadean le teste, e dalle gole uscia
parole e sangue; per la polve il nome
di Gesù gorgogliando e di Maria.
Nel momento più drammatico, quando egli avrebbe dovuto
rappresentare con parole sue quel fatto nuovo, l'inopportuna
reminiscenza rivela di colpo la nullità del contenuto e il
falso di quella pittura truculenta e agitatoria. Ciò che
lascia più diffidenti (è stato detto benissimo dal Pompeati) è
quell'accanito contrapporre di qua tutta la luce, di là le
tenebre della barbarie», «il lato, insomma, ingenuo e fazioso
del poema». Ingenuo non direi però il nostro scenografo
dell'al di là, che trasfigurava Luigi XVI in Gesù Cristo, e
che deformava un Voltaire e un Diderot in assassini, appena
salvando Rousseau come il buon ladrone della «filosofia d'oltremonti».
Il poema si chiudeva con un interrogativo: «Su chi propizie
volgeran le sorti?» In Francia il nuovo regime si consolidava,
e il Monti si preoccupava di avere scritto la Bassvilliana:
egli, in fondo, si sentiva sempre un liberale. E confidandosi
a Francesco Torti già si raccomandava di non esagerare troppo
con le sue lodi del poema. |