ORIGINI E DUECENTO

  • LA GENESI E IL RITARDO DELLA LETTERATURA ITALIANA
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    Autore: Luigi Russo Tratto da: Ritratti e disegni storici

     
         

    Il primo problema che ci si fa innanzi, alle origini della nostra lettratura, è naturalmente quello della sua genesi. Per tutto l'Ottocento prevale il concetto romantico che la poesia popolare sarebbe stata la cellulaoriginaria della nuova letteratura e poesia, e si amò drammatizzare l'origine delle letterature romanze, sorte, si diceva, come esperienze oppositrici dei laici contro la vecchia letteratura latina del medioevo, patrimonio, privilegio e roccaforte dei chierici. Popolo e chiericato, ecco i due grandi antagonisti degli storici romantici; e avrebbe finito col prevalere l'ingenua freschezza del popolo, contro il vieto e lambiccato classicismo dei dotti.

    Senonché, attraverso l'incessante studio dei documenti, perseguito nello stesso Ottocento romantico e positivista e in questo primo quarantennio del Novecento, si è venuto tramutando tra le mani il canone dell'interpretazione. La nuova poesia dei trovatori, oggi si dice, ha la sua origine dalla cultura classica ed ecclesiastica del chiericato, e non dal popolo. il popolo non esiste, se non vaga metafora, e la poesia e la letteratura non nasce mai dall'ignoranza. Anche la letteratura religiosa non è produzione popolare, al suo esordio. S. Francesco, sebbene esaltasse gli uomini idioti e senza lettere, fu amantissímo e rispettosissimo delle lettere. Tommaso da Celano racconta che il Serafico raccoglieva qualsiasi rotuletto o pezzo di pergamena che fosse per terra, temendo di non pestare il nome del Signore o qualche tratto che parlasse di cose divine. E poiché un suo discepolo gli domandava perché ricogliesse con pari studio gli scritti dei pagani: «Fili mi - avrebbe risposto - litterae sunt ex quibus componitur gloriosissimum Dei nomen». E poi aggiungeva che ciò che in tali scritti vi poteva essere di buono, non si appartiene ai pagani, e agli altri uomini, ma a Dio solo, da cui procede ogni bene.

    In questo modo genialissimo, Francesco rispettava tutte le letterature, le sacre, e le profane, come il più illuminato umanista. Egli poi, è noto, si piaceva di parlare e di cantare francese, ed è indubitato che conoscesse bene i romanzi di cavalleria francese; altrimenti non si spiegherebbero tante allusioni, nei suoi discorsi, a immagini cavalleresche.
    Parlando di frate Egidio, con i suoi confratelli esclama: «Ecco il nostro cavaliere della Tavola Rotonda». Carlo Magno, Orlando, Ulivieri e «tutti i paladini» sono ricordati nello Speculum perfectionis, e una volta è detto nello stesso Speculum che i buoni frati devono sapere operare il bene e pregare in solitudine, per non insuperbire di vanità, e in quella occasione sono chiaamati «i fratelli miei, cavalieri della Tavola Rotonda». «Questi sono i fratelli miei cavalieri della Tavola rotonda, che si tengono nascosti in luoghi deserti e riposti, per attendere con maggiore cura all'azione e alla meditazione». Orbene, soltanto un lettore assiduo dei romanzi di cavalleria, ha osservato il Rajna, poteva essere bene addentro su questo particolare della segretezza dell'operare dei cavalieri, che vanno per il mondo celando il loro essere e compiendo grandi gesta Lancillotto é chiamato il beI valletto, e più tardi diventerà il cavalier bianco.
    Sono anonimi e ignoti al mondo, come dovrebbero essere i seguaci del santo frate...
    Un'altra testimonianza della cultura di Francesco d'Assisi ci sarebbe anche nell'assisiate illustre, che egli adottò nel Cantico delle creature, se è vero che perfino il per ripetuto sette volte in quel cantico può essere paragonabile al par francese e al per, complemento di agente, dell'italiano antico, che sarà poi anche l'italiano di Dante: «Fur fossa mie per Ottavian sepolte», «Intanto voce fu per me udita», «Più era già per noi del mondo volto», ecc. ecc. Si pensi alla ingegnosa interpretazione che del Cantico ha dato Luigi Foscolo Benedetto. Ma lasciando da parte questa ancipite testimonianza del per come par, è buona abitudine di poeta dotto quella di far capo a delle fonti e a dei modelli letterari. Ed è noto che il Cantico è esemplato, e in certi punti letteralmente, sul Cantico di Daniele dei tre fanciulli nella forrince ardente, e sul salmo 98 di David.

    Si conclude dicendo che il santo protettore ed esaltatore degli uomini idioti e senza lettere, fu uomo non idiota e fu uomo di molte belle lettere; e l'idiotezza da lui vantata era soltanto la semplicità e l'umiltà dello spirito e della mente, a quello stesso modo che Dante disdegnò i motti e le iscene dei predicatori, i quali facevano le loro invenzioni ingegnose sulla Scrittura, mentre non si pensa «quanto piace chi umilmente con essa s'accosta».

    È dunque falso che il primo monumento della nostra letteratura sia nato dalla ispirata ignoranza della santità, comecché si dica che nei tempi antichi lo Spirito Santo amasse calarsi frequentemente sulla lingua degli uomini idioti: sono favole a cui non credeva più nello stesso Trecento il Boccaccio, e anche Dante, che si apparecchiava al suo poema, armatissimo di latino e di teologia. Tipico esempio ancora quello di Jacopone, presentato da Alessandro d'Ancona, attorno al 1880, come poeta di popolo, il giullare di Dio, mentre la critica recente, dal Gentile al Casella, dal Sapegno al Russo, lo ha giudicato invece poeta dotto, anzi dottissimo: poeta-teologo, che ha nelle sue vene tutto un albero genealogico di dottrine medievali, e ha creato tutto un suo originale linguaggio, dove l'elemento popolare è contaminato con l'elemento classico, con quello ecclesiastico, e ancora con motivi delle nuove civiltà romanze di Francia e di Provenza. Un todino illustre la lingua poetica di Jacopone, dall'apparente rozzezza, ma che, all'analisi, si rivela compendio di una complessa
    esperienza letteraria. Giullare di Dio il nostro Jacopone, si conservi pure l'antica definizione del d'Ancona, ma a patto che non si calchi sulla rozzezza e sull'ignoranza del cantore: la sua giollaria, come quella di Francesco, non era ignoranza o rozzezza, ma una forma di umiltà, fervore di apostoli, di molte lettere, che non disdegnavano di accomunarsi
    ai volgari giullari, per contendere l'attenzione delle moltitudini alla corruttela delle altre invenzioni e storie profane. Le ballate dei giullari del demonio devono diventare le laude dei giullari di Dio; alla « ruota dei danzatori, si deve sostituire la ruota dei devoti che si flagellano e cantano lodi alla Vergine e a Dio; alla ruota di Satana si dovrà sostituire la ruota di Dio. Così solo Jacopone può dirsi giullare, e così solo da Francesco d'Assisi procede tutta una compagnia di giullari. Bisogna adoperare gli stessi accorgimenti dei giullari profani, servirsi anche della loro lingua, dei loro metri, delle loro formule di raduno, anche del modo stesso di citare le loro fonti. Quelli citavano Turpino, e questi citeranno la Scrittura, il testo e la glossa; l'importante era di chiamare attorno a sé il popolo. E poeti dottissimi si trasfigurarono nella leggenda, nella tradizione proverbiale, come umili cantori nati dal popolo e allevati in mezzo al popolo: l'umiltà dell'atteggiamento si scambiò per popolarità di esperienza e di contenuto, mentre questo andare verso il popolo era stata la caratteristica di tutte le eresie e i movimenti religiosi dopo l'anno Mille. Le nuove idee religiose partivano da gruppi aristocratici, e si diffondevano in mezzo al popolo, sempre per quel processo che si osserva in tutti i movimenti ideali, che vanno dall'alto verso il basso, e non mai dal basso verso l'alto. Molte verità del senso comune e del buon senso sono le verità dei grandi filosofi che, per vie molteplici e insospettate, sono diventate patrimonio del popolo. Anche gli stessi movimenti politici, che pare obbediscano talvolta a oscuri istinti economici e insorgano dalla faticosa terra e dalle strade canicolari della città, sono sempre un riflesso di dottrine politiche e di idealità morali spesso aristocratiche, che si corrompono, circolando in mezzo al popolo e trovando in quella corruzione il loro trionfo e al tempo stesso la loro morte...

    Se ora volessimo rapidamente caratterizzare la civiltà italiana nel suo lontano crepuscolo, dovremmo rilevare che assai scarsi sono i documenti volgari, i quali siano testimonianza del popolo italiano nascente, nell'alto medioevo. Ed è stata fatica generosa ma sterile quella di alcuni eruditi, i quali hanno voluto allontanare nel tempo la presenza di alcuni documenti che attestino l'esistenza di un nuovo idioma. Quale disdetta che l'Italia, figliuola idealmente primogenita di Roma, sia nata ultima per la sua lingua e per la sua civiltà ! Che sarebbe rammarico analogo di chi, largamente dotato, si dolga di essere nato ottavo o decimo fra fratelli e sorelle, o di essere nato nel Novecento invece che nell'Ottocento. Quello che conta è la ricchezza e la grandezza di una civiltà, e non la priorità della nascita.

    Pure la boria piccolo-borghese che si è messa in questa ricerca delle lontane origini, lontane più che sia possibile, dell'Italia, della Francia, della Spagna, della Catalogna: della Provenza, ecc., è stata forse una piccola astuzia segreta della storia perché gli studiosi non riposassero sulle vaghe congetture e fossero spoltriti alla ricerca di documenti concreti di appoggio. Si è trovato che i più antichi documenti latini scritti in Italia, che lascerebbero intravedere l'esistenza di un nuovo idioma, risalgono al sec. VT, ma tutto questo non può far parlare di una civiltà italiana; come invero non si può parlare di una civiltà francese o di una civiltà provenzale, catalana, anche se di questa esistono documenti più abbondanti fin dal sec. VI. Fino al sec. X si può dire che esiste, grosso modo, una civiltà unitaria, che si può continuare a chiamare romana, a romanica.

    È la civiltà di quei paesi che complessivamente nel Medioevo si appellano Romànin, che è parola di origine popolare con la quale si indicò precisamente in quell'epoca il gruppo dei paesi latini, con la parola analogicamente esemplata su quella di Gallia, di Grecia, di Britannia; e Romania si disse per qualche tempo l'impero d'COriente. La parola Romania è il simbolo dell'unità spirituale dell'alto medioevo, e tal verbo si adoperava in contrasto con la Barbaries, e il romanice loqui fu contrapposto al barbarice loqui. E i glottologi, modernamente, è noto, in omaggio a codesta denominazione popolare del medioevo, chiamano Romania tutto un gruppo di paesi che ha per centro l'Italia (compresa la costa orientale adriatica fino a tutta la Dalmazia), la penisola iberica, la Francia, una parte della Svizzera, e del Belgio; e, isolata in Oriente, la Rumenia con qualche propaggine balcanica. Lingue romanze o neo-latine sono dette le lingue di codesti paesi.

    La denominazione di Romania, popolarmente, sopravvisse fino ai Carolingi, ricevendo anzi un nuovo impulso dalla restau razione del vecchio impero, compiuta col genio e con le armi di Carlo Magno. Soltanto dopo lo smembramento di quella rinnovellata unione si va a spegnere la coscienza comune della Romania, mentre si delineavano, ciascuna con il suo nome particolare, le varie individualità nazionali ormai distinte, scioglientesi con vita propria dal ceppo comune....

    Romani poi continuarono a chiamarsi isolatamente due popoli latini, i quali si trovarono stretti d'ogni intorno dalle gemi barbariche; e poiché non avevano da distinguersi, latini da altri latini, ma soltanto da barbari, conservarono il nome di Romani. Sono i romani della Resia, i quali parlano il romancio (il volgare neolatino dei Grigioni, recentemente riconosciuto come la quarta lingua della Svizzera), e i Romani della penisola balcanica, ossia i Rumeni. Coree si vede il nome di Romania rimase a quei popoli che continuarono a contrapporsi a dei barbari; sparisce invece per quei popoli neolatini, che vivono e confinano tra loro, e che sono però costretti a differenziarsi anche nel nome, chiamandosi franchi, provenzali, catalani, ispani, lombardi. Del resto quel nome persiste ancora nei paesi d'Occidente, in un uso in cui si è perduta la consapevolezza dell'origine. Romance in Spagna e in Portogallo continua a dirsi l'idioma rispettivo. In Francia roman ebbe poi singolare fortuna, quando la parola fu applicata a indicare la letteratura latina tradotta in francese, e poiché in Francia, fin dai primi secoli, la letteratura più in fiore fu quella narrativa, la parola roman fini con l'indicare il genere letterario romanzo.

    Questi paesi che complessivamente si appellarono Romania, sentono anche di avere una cultura comune. Le scuole di teologia di Parigi, quelle di filosofia aristotelica e geografia tolemaica a Toledo, e più tardi la scuola di medicina di Salerno, quella del giure romano a Bologna, non sono scuole nazionali della Francia, e della Spagna o dell'Italia, ma dell'Europa, ancora romana e cristiana. Mai la cultura fu tanto universale e unitaria in Europa, come nel momento stesso in cui essa si avviava alle sue distinzioni nazionali. E l'unità del pensiero medievale si rivela nelle crociate, quando moltitudini varie di paesi diversi si muovono a morire per la fede, e si rivela nell'architettura, la quale, dopo il Mille, per adoperare una frase passata in proverbio, copre tutta quanta l'Europa di una candida veste di chiese.

    Orbene, appunto in base a codesta vigorosa unità di pensiero medievale, è necessariamente vano il tentativo di venir cogliendo segni delle nuove civiltà romanze prima del sec. XI. Le nuove civiltà romanze sorgono, si può dire, e acquistano coscienza solo quando esse sono adulte. Così, in particolare, per riferirsi all'Italia, la civiltà italiana con la sua fisionomia nazionale sorge solo nel sec. XIII, quando è matura una letteratura italiana. Della nascita di una civiltà si deve dire quello stesso che della genesi di un'opera d'arte, della quale, qualche volta, si ama tracciare la preistoria fantastica, cogliendone i segni annunciatori in questa o quell'opera precedente dello stesso autore, ma la cui genesi concreta è solo la storia dell'opera d'arte compiuta, la storia degli elementi, dei motivi
    confluenti in quell'opera compiuta.

    Ordunque la nuova civiltà romanza italiana nasce letterariamente non già attraverso quelle scritte tra latine e volgari che sono state accumulate dagli eruditi, nella speranza di respingere questa nascita dellaciviltà italiana al sec. XII o al sec. XI o ancora più in là (curiosa la falsificazione delle carte di Arborea che tra il 1845 e il 1880 mise a rumore il mondo della cultura europea, ciò che in ogni modo testimonia ingenua boria nazionalee municipale) ; nasce nel sec. XIII, e il primo notevole monumento di letteratura italiana, imitazione o non, è il Cantico delle Creature di S. Francesco, del primo quarto del sec. XIII, e l'altro monumento è il Ritmo Cassinese, e, più tardivo, una poesia tenzonante d'amore, il Contrasto di Cielo d'Alcano, che non può essere stato composto prima del 1231 e non più tardi del 1250 Poesia religiosa da una parte e poesia amorosa dall'altra, ed entrambe temperate di motivi dotti e di motivi popolareschi. Poiché, come si è detto, se è da respingere la tesi romantica dell'origine meramente popolare della nostra letteratura, non è nemmeno da accettare l'altra dell'origine meramente dotta, perché uno scrittore vivo non respira soltanto nel chiuso di biblioteca, masi mescola sempre a tutta la vita. In fondo, popolo e chiericato sono due astrazioni polemiche, e l'opera letteraria nasce compendio di umanità libera al disopra dei compartimenti sociali e scolastici.

    La letteratura in questo caso è come la consapevolezza critica del nuovo essere che si è venuto formando, e tale consapevolezza si può dire che non si forma una volta per sempre nei primi decenni del sec. XIII, ma si viene approfondendo per tutto il Duecento, e assume una forma teoricamente tipica e manifesta nel De vulgari Eloquentia di Dante. Per tutto il secolo XIII permane accanto alla lontana e pigra consapevolezza della nuova civiltà, e della nuova letteratura, anche la persuasione che l'antica civiltà della latinità sopravviva ancora. E questo avviene non solo in Italia, ma anche in Francia e in Provenza che pure erano letterariamente più adulte di almeno un secolo. In altri termini, queste nuove letterature nazionali nascono e vivono con un afllato universalistico.
    L'antico universalismo medievale non è rinnegato. E si direbbe che l'ispirazione nazionale delle nuove letterature sia una forma di mancamento, di decadenza, rispetto alla comunità universalistica di un tempo. Quello che per gli storici nazionalistici dell'ottocento è stato un motivo di orgoglio o di umiltà per la boria delle loro nazioni, per uno storico medievale poteva essere il segno di una deplorevole frattura e di uno scadimento, o una laudabile sopravvivenza. Ciò che ci deve confermare sulla relatività dei criteri di progresso o di regresso, e sulla fatuità delle presunte priorità « romanze » di questa o quella nazione.

    L'universalità propria della letteratura latina, l'universalità propria del pensiero politico e chiesastico, l'universalità dell'architettura, e infine l'universalità della scienza medievale per cui tutto il mondo è patria, alimenta di sé come mito le nuove letterature nazionali. Nei sec. XI e XII, comincia, è vero, una specie di separazione tra le nascenti civiltà romane, sennonché l'afflato universalistico di tutta la cultura medievale fa sentire anche i suoi effetti sulle chiuse letterature nazionali. Solo così possiamo
    spiegarci come la letteratura provenzale e la francese fossero così popolari e quasi indigene in Italia. Così ci spieghiamo come Dante possa nel suo De vulgari Eloquentia affermare che la lingua francese, la lingua provenzale e il volgare nostro fossero una sola lingua pronunziata diversamente da tre popoli diversi.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis