Il Cantico di frate Sole
è tutto un lavoro d'arte. Si modella sui grandi cantici della Bibbia e
vuol essere risolutamente una poesia. Francesco adotta il versetto biblico
colla sua libertà di lunghezza e di pause, ma non se ne appaga. Avvezzo
alle rime degl'inni e delle sequenze, non ignaro della nuova poesia
volgare, egli fa del versetto biblico una sorta di strofe mercè la rima o
l'assonanza. Sa conservare alla sua laude, colla semplice ripetizione
dello .stesso inizio di lassa - laudato sie mi' Signore - l'effetto
potente che la poesia biblica ottiene col ritorno costante, tra versetto e
versetto, della stessa battuta intercalare. Dà alla laude un'unità di
costruzione e di tono. Siccome la destina a coronare liricamente le
prediche dei suoi frati, ad accentuare e a confermare nelle anime degli
astanti gli effetti che deve avere una predica volgendole verso l'alto,
egli trova il tono che si conviene allo scopo : un tono ove ci sono ad un
tempo la gravità del monito sacro e la dolcezza serena delle celesti
promesse. Anche i lettori meno vicini spiritualmente a S. Francesco, anche
i critici meno disposti ad ammettere che una preghiera o una
preghiera-predica possano essere poesia, sono costretti a riconoscere che
il Cantico di frate Sole arriva a comunicarci una sua suggestione poetica.
È purtroppo perduto, e forse per sempre, il motivo melodico ch'era parte
integrante dell'opera. Nel manoscritto 3 3 8 di Assisi è rimasto vuoto il
rigo tracciato per ricevere i neumi di canto. Ma il Cantico ha anche da
solo una sua linea musicale: una dolce litania di note lente e pacate su
cui di tanto in tanto si stacca, senza turbare l'impressione generale di
calma devota, una nota più chiara e più alta.
Un'opera può rivelare delle intenzioni letterarie e restare al di fuori
della poesia. Si può vedere nel Cantico di Frate Sole una sequenza meno
rozza di quanto a primo aspetto non paia, qualcosa di più che dei semplici
gridi, e non aderire perciò in nessun modo al giudizio entusiastico di un
Renan, secondo cui quel canto sarebbe <il più bel pezzo di poesia
religiosa dopo il Vangelo ». Ciò che abbiamo detto non basta ad escludere
che il Cantico sia, da un punto di vista estetico, un'opericciola più che
modesta, né ad impedire il sospetto che nessun critico forse si sognerebbe
di esaltarlo se non ne fosse conosciuto l'autore.
Crediamo per nostro conto si abbia più che il diritto di parlare, per il
Cantico, di vera ed alta poesia.
Non ci fa velo la paternità illustre. L'essere quel canto di S. Francesco
ci fa solo più attenti, meglio orientati a comprenderlo. Sapendo da che
anima si è sprigionato ne cogliamo meglio l'intima essenza.
Se è poesia il dono di fissare colle parole la luce che la nostra anima
getta sulle cose (quando abbiamo un'anima ed un'anima capace di irradiare
una sua luce!), non si può non chiamare poesia, in tutto il senso della
parola, il Cantico di fiate Sole. Esso ha una sua atmosfera lirica: una
mestizia serena entro cui tutte le cose appaiono più staccate e più pure.
Ci fosse o non ci fosse nel cantore la « coscienza apollinea », quali che
siano i mezzi dell'artista e le dimensioni del mondo evocato, certo si è
che quel canto arriva ad esprimere, e a farci sentire nella sua bellezza,
lo stato di un'anima che si è elevata all'accettazione tranquilla e alla
speranza.
C'è nel Cantico la preghiera, colla sua intimità e col suo abbandono; ci
sono la meditazione ascetica e l'appello sacerdotale... Ma c'è soprattutto
un senso di distacco e di pace: come una serenità di aurora. Ci sentiamo
lontani dalle contingenze, dalle tristezze terrene. In un ciclo più terso.
Più alto.
S'indovina dalla semplicità delle parole e del tono, che il poeta è
avvezzo a quell'altitudine. S'intravede, per entro quella pace ch'egli
attua come poeta, la catarsi che lo ha consolato come uomo nel suo
travaglio religioso e morale.
Chiunque si sia un po' avvicinato al dramma religioso ed umano di S.
Francesco riconosce facilmente nella luce serena ond'è permeato il suo
canto la famosa « letizia spirituale » nel cui concetto si riassume il suo
grande messaggio. È la tanto sospirata « letizia », ma nel senso che ha
tale parola quando è fatta sinonimo di « consolazione ». Non ci sono più
né
la febbre della lotta né l'ebbrezza della vittoria. Ma c'è ancora in
quella quiete la segreta melanconia delle tempeste a cui succede. Se ci è
permessa un'immagine suggeritaci dagli agiografi, è un sorriso, ma un
sorriso mesto, in occhi divenuti ciechi per il troppo piangere...
Francesco visse coll'intensità più straziante tutti i presupposti della
religiosità del suo tempo. Lo prova il tipo di esistenza a cui si voto,
inspiegabile senza quei presupposti. Il suo programma di rinuncia totale
di povertà, d'ininterrotta preghiera, scaturisce dal convincimento che
sola realtà sia Dio, che all'uomo rimanga soltanto di prostrarsi davanti a
lui, che sempre e dovunque vegli ai nostri danni il Nemico. La semplicità
e la povertà - la rinuncia, in altre parole, a tutte le gioie
dell'intelligenza e a tutti i beni della terra - sono un mezzo innanzi
tutto per svuotare lo spirito di ogni contenuto ché non sia Dio, per farne
« una vuota forma pronta a riceverlo »; sono anche un mezzo per evitare le
insidie del demonio, ché può celarsi un'insidia in tutto ciò che « anche
un peccatore può possedere ». La preghiera è l'arma con cui si tiene
lontano il Maligno.
Cristiano del suo tempo, Francesco accettò senza discussione i tragici
postulati in cui ogni cristiano del suo tempo credeva. Ma non si rassegnò
al tormentoso dualismo che faceva di Dio e dell'uomo due entità
incomunicabili. Non si rassegnò al concetto teocratico di un Dio monarca
assoluto e di un uomo schiavo in catene. Intuì che all'uomo restava un
mezzo per riscattarsi, ed era di trasformare quel servaggio fatale in un
servaggio volontario. Le belle chimere cavalleresche onde s'erano nutriti
i suoi giovani anni gli suggerirono che poteva esserci tra l'uomo e Dio lo
stesso vincolo che c'è tra un cavaliere e il suo signore. Non era il più
grande degli onori avere per signore il signore stesso della terra e dei
cieli? Non era il più dolce dei doveri obbedire fedelmente ai suoi ordini
eseguire, propagare, difendere la sua legge, quella legge ch'egli ci ha
amorosamente largita colla bocca dei profeti da lui ispirati, colle parole
e coll'esempio del Cristo? Per sanare ogni opposizione tra l'umano e il
divino bastava ricordarsi che Din era buono e che l'uomo poteva ricambiare
la sua bontà meritandola, mostrandosi col cuore e colle opere un suddito
riconoscente e fedele. La vita diveniva così una generosa milizia sotto le
bandiere del più grande dei re, per la più gloriosa delle conquiste, il
Paradiso. Di fosca e triste diveniva bella. La letizia francescana è il
sentimento di quella bellezza...
Si deve soprattutto al Cantico di frate Sole se si usa contrapporre la
letizia francescana all'incubo medievale dell'inferno e del demonio, come
se l'umanità a lungo tormentata dal dualismo manicheistico avesse
finalmente ritrovato, grazie a S. Francesco, l'unità e la serenità
nell'ammissione di un solo principio, quello del bene. Si contrappone al
Cantico il
Dies irae Molti parlano di un vero e proprio Rinascimento, cioè di una
riscoperta della natura, dell'uomo, della bellezza, della vita. Si
dimentica che la letizia francescana è la consolazione che Dio concede
proprio a quelli che hanno più strenuamente lottato contro il « nemico ».
Si dimentica che il Cantico stesso ci lascia scorgere il lugubre sfondo
che ora abbiamo evocato. Fa da esordio proprio il concetto più desolato :
quello del nulla umano di fronte all'unico Essere. Breve ma potente è
l'accenno centrale alle discordie e alle tribolazioni che ci opprimono.
Volutamente pauroso quello alle punizioni infernali (Guai a quelli...). Le
ultime strofe, rievocando i novissimi, ne rievocano anche la suggestione
sinistra. Non dobbiamo fare in grande quello che ha fatto in piccolo il
rifacitore di cui già abbiamo parlato, il Crescimbeni, quando cancellò dal
Cantico quel cupo guai per sostituirvi un più francescano grazia a quelli!
La bellezza del Cantico, ciò che ne fa inconsapevolmente la soluzione di
un vero e proprio problema d'arte, è l'unità ch'esso conserva, nonostante
quei foschi riflessi, in quanto cantico della santa « letizia »...
Il Cantico di frate Sole è il cantico della bontà divina. Non solo
l'Altissimo, l'Onnipotente, è anche buono, ma è, nel Cantico, soltanto
buono. È il Padre. La lode che sale verso di lui è un omaggio figliale. Le
diverse forze della creazione, in cui il suo volere si manifesta, ci son
presentate unicamente nel loro aspetto benefico. Il sole vuol dire la
soavità delle aurore, la limpida chiarità degli spazi; vuol dire la luce e
il calore prodigati regalmente a tutto il creato, quasi a simboleggiare
l'infinita misericordia d'Iddio. La luna e le stelle sono state fatte da
Dio perché l'uomo avesse l'incanto dei pleniluni e delle notti stellate.
Il vento e le nubi, lungi dal suggerire delle immagini di tempesta,
diventano delle vicende provvidenziali necessarie alla vita. Nulla, tra le
lodi tributate a « sor acqua », che lasci sospettare le sue insidie; le
sue terribili collere. Del fuoco son menzionate la « robustezza » e la «
forza », ma anche, ed in primo luogo, la bella giocondità, in modo da
farci pensare non alla fiamma devastatrice, ma al calore che ritempra e
rallieta. La terra è la sostentatrice e la regolatrice della nostra vita
corporea. Non solo tutto è utile, ma tutto è bello. Bello è il sole, belle
sono la luna e le stelle, bello è il fuoco. L'epiteto di preziose, ch'egli
applica alle stelle ed all'acqua, contiene forse, più che un'idea di
utilità, un'idea di bellezza: un'idea di bellezza più nobile e rara. Qua e
là l'astrattezza sentimentale di quel bello si risolve e determina in
luce: il sole è radiante cum grande splendore, clarite sono le stelle,
coloriti i fiori. Ogni cosa creata insomma esegue verso il resto della
creazione, verso l'uomo soprattutto, un comando di bontà. Della bontà è un
aspetto la bellezza, gioia e refrigerio dei sensi umani. La creazione
resta una prova della bontà divina anche quando, dopo il sole, dopo le
stelle, dopo il fuoco... si passa all'umanità. Certo il poeta non può
pensare agli uomini senza pensare anche subito agli odi che li separano e
li armano, alle lacrime che sono costretti a versare, all'Inesorabile che
li atterra e dissolve. Ma non ne resta intaccata l'azzurra purezza della
sua visione. Al di sopra del dolore umano si inarca un lembo di paradiso
ove si vedono « incoronati » quelli che hanno sofferto senza rivolta e
quelli che in punto di morte si sono trovati concordi con Dio.
Ma il Cantico di frate Sole è soprattutto il cantico dell'umiltà. Ne siamo
avvertiti dalla stessa umiltà delle sue parole: le più candide, le più
disadorne che mai sieno state adoperate in un inno. A quella straordinaria
umiltà formale corrisponde una non meno straordinaria umiltà nei
sentimenti e nelle idee. Esce da ogni particolare del Cantico la figura
inconfondibile dell'orante: « frater Franciscus, homo inutilis et indigna
creatura Domini Dei ». La laude si apre con una professione d'indegnità (nullu
homo ene dignu...) e si chiude con un invito esplicito alla « grande
humilitate ». Sono, chi ben guardi, momenti ed aspetti dell'umiltà i vari
atteggiamenti che assume la lode: l'estasi ammirativa dinanzi alle cose
create, quasi forante assista al loro uscire dal nulla; il commosso
riconoscimento di tutto ciò che dobbiamo al Creatore; il senso della
nostra dipendenza da lui, la coscienza cioè che ogni cosa è nelle sue mani
e che è lui, sempre e dovunque, la sola volontà, la sola forza operante («
Allumerai noi loi », « in celu l'ai formate », « per lo quale a le tue
creature dai sustentamento », « per lo quale ennallumini la notte »). I
nomi di « frate » e di « Bora » con cui vengono chiamate le diverse
creature, la bella fraternità francescana abbracciante tutte le creature
d'Iddio, sono indici anch'essi di umiltà. Francesco rinuncia in tal modo
ad ogni regalità di fronte al creato; si mette al livello di qualunque
cosa esistente, anche della più modesta e della più vile; riconosce un
fratello nel sole, è vero, ma anche nel vermicciolo e nel filo d'erba.
Nessuna ebbrezza panteistica, nessun orgoglio di animo che si allarghi
alla misura dell'universo e che in sé assorba il Tutto. Francesco si sente
elemento infimo e impercettibile in una moltitudine infinita di esseri,
tutti come lui opera di Dio, tutti attestanti la bontà e la potenza
divina, tutti bisognosi che Dio li vesta della sua luce e fissi loro il
compito su cui giudicarli e redimerli. L'amore di Francesco per le
creature è comunanza di « servizio e di attesa. Comunanza anche di dolore.
Francesco le solleva con sé nella chiarità sovrumana dell'estasi, ma
perché riconoscano con lui la loro nullità dinanzi al Creatore, perché lo
ringrazino di aver fatto di esse un suo
strumento. Si aggiunga che l'amore di Francesco va di preferenza alle
creature più umili e che ciò traspare anche dal Cantico. Non solo sono
menzionati, accanto alle cose più eccelse della creazione, accanto al sole
e alle stelle, anche i coloriti fiori e l'erba, ma quei coloriti fiori
sono la sola cosa del Cantico per cui non ci sia, a nostra saputa almeno,
nessun riscontro nei testi sacri. E quello un particolare nuovo,
personale; ed è tale che basta per riconoscervi tutto l'ingenuo candore,
la pia simplicitas, illustrataci così ampiamente dagli agiografi e
specialmente da quel meraviglioso commento del Cantico che sono i
Fioretti. È ancora umiltà l'ideale simplicitas che spira da tutto il
Cantico, l'idea che da esso si effonde di una vita prodigiosamente
semplificata, ridotta alle cose essenziali, alle cose più necessarie e più
sante: nel campo materiale, la luce, l'acqua, i cieli stellati... nel
campo dello spirito le sole eterne voci del cuore. È l'umiltà la « pace »
che il Cantico esalta: la rassegnazione di chi perdona invece di
vendicarsi, di chi soffre in silenzio invece di protestare e di
lamentarsi. Più in generale è umiltà la « santa obbedienza », la
disciplina di chi compie fedelmente il suo compito. Ché ogni cosa creata
ha la sua speciale missione: come è compito degli astri rischiarare ed
abbellire la notte, della terra produrre le cose necessarie all'umana
famiglia, così è compito dell'uomo mantenere intatta nel suo spirito
l'effigie divina, riconquistare il cielo come Cristo ha insegnato,
baiulando crucem. Conoscere ed attuare la propria legge, sentirla come
atto della volontà di Dio e quindi di una volontà buona, ecco il modo con
cui l'uomo e le cose possono fin da questa vita redimersi, e mutare il
dolore in « perfetta letizia ». Nel Cantico non domina soltanto il
concetto di volontà divina; vi si tende ad una sintesi del creato in
quanto attui una legge fissata da Dio.
Le varie creature son definite mediante il particolare compito a ciascuna
assegnato. L'invito finale che tutte le abbraccia non è soltanto al
ringraziamento e alla lode, ma all'obbedienza : « serviteli cun grande
humilitate».
Degli uomini sono ricordati soltanto quelli che accettano ed attuano la
missione di amore predicata dal Cristo. S'intona con questo carattere
fondamentale del Cantico il richiamo finale alle « santissime voluntati »
in cui bisogna che la morte ci colga se vogliamo ch'essa ci schiuda i
regni della felicità eterna. Né può sorprenderci che tra le qualifiche
tributate a « sor acqua » ci sia anche quella di humile.
Il Cantico di frate Sole è sì il cantico dell'umiltà, ma dell'umiltà
francescana umiliarsi per essere esaltato. Non è la genuflessione di un
imbelle o di un vinto. Con quell'inginocchiarsi dinanzi a Dio Francesco
celebra il suo sogno più grande e più bello, il mondo luminoso che la sua
dolorante. umanità ha costruito al disopra del triste mondo reale. Ché
Francesco ha subìto anche lui, come testé avvertivamo, lo spietato
teologismo dell'epoca; ha avuto anche lui delle ore di mistico
annientamento; ma è qui, nel Cantico, soprattutto un uomo e un poeta.
Religione ed umanità restano congiunte. Si alleano per aprirgli i regni
dell'idillio e per procurargli un anticipo di serenità paradisiaca.
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