Si pensò per tanto tempo
che il Contrasto potesse essere stato composto prima del 1193, perché vi
si fa menzione del Saladino:
Se
tanto aver donassemi, quant'à lo Saladino
e per ajunta quant'à lo Soldano,
toccàreme non posteri la mano. |
Ma Saladino è nome enfatico e proverbiale come potrebbe essere quello di
Augusto o di Cesare, e, se pace meglio, di Garibaldi e di Mazzini, che
possono essere ricordati morti come se fossero vivi. Del resto il Saladino
era il Soldano d'Egitto e la donna che parla in quei versi distingue fra
il Saladino e il Soldano: chiaro segno che il primo nome è assunto nel suo
valore proverbiale.
Il Contrasto invece è stato composto tra il 1231 e il 1250.
Se
i tuoi parenti trovanmi, e che mi pozon fari
Una difensa mettoci di dumilia agostari;
non mi toccàra patreto per quanto avere à 'm Bari. -
Viva lo 'mperadore, grazi' a Deo!
Intendi, bella, quel che ti dico eo? |
Orbene, la difesa o il divieto (si pensi al francese defense) era il
ferreo che si poneva ad una aggressione, invocando il nome dell'imperatore
e designando ad alta voce una somma che l'aggressore doveva pagare nel
caso che non desistesse. Essa per l'appunto fu sanzionata da Federico
nelle Costituzioni di Melfi (123 z), ed è il titolo decimoquinto di tale
costituzione; gli agostari, cioè augustali, furono coniati da Federico II
proprio in quello stesso anno, ed era moneta imperiale d'oro di carattere
commemorativo per la grande opera legislativa compiuta a Melfi. E poiché
nei versi citati vi è ricordata la formula di scongiuro in nome
dell'imperatore (Vive lo 'mperadore, grazi' a Deo) proprio della defensa,
si può stabilire quasi con certezza che il Contrasto è stato composto tra
il 1231
e il 1250, essendo quest'ultima la data di morte di Federico II.
Per tanto tempo, fino a ieri, s'è parlato nelle storie di Ciullo d'Alcamo:
un Ciullo che si faceva derivare arbitrariamente da Vincenzullo, mentre
nel dialetto siciliano il diminutivo di Vincenzo dà soltanto 'Nzulo e non
Ciullo. Come è saltato fuori questo Ciullo? Da una cattiva interpretazione
di un manoscritto di un filologo cinquecentista: Angelo Colocci (morto il
1547), il quale ricercando quale fosse il primo rimatore italiano scrive:
« Io non trovo alcuno se non Cielo dal Camo, che tanto avanti scrivesse,
quale noi chiameremo Celio. Costui dunque fu celebre poeta dopo la rovina
dei Gothi ». La e di Cielo, perché aperta nel suo occhiello, fu letta come
u da un erudito del '600, monsignor Ubaldini, il quale trascrisse Ciulo, e
dopo di lui ripeté l'errore l'Allacci ed esso si perpetuò per tresecoli.
Il nome invece sarebbe Cielo tradotto in forma umanistica dal Colucci
Celio, perché non ne intendeva le genesi onomastica. A me pare che non ci
sia dubbio che esso non sia altro che Cheli (Michele), forma molto diffusa
in Sicilia ancora oggi, se il Verga in una novella di Vagabondaggio ci
presenta un personaggio detto zio Cheli; Cheli si è palatalizzato in Celi,
conforme ad alcune parlate della Sicilia, dove si ha chiano e ciano
(piano), chianciri e cianciri (piangere).
Il cognome Miceli poi è comunissimo in Sicilia e nelle Calabrie, e non è
altri che Micheli, di Michele. Il copista toscano, non rendendosi conto
che cosa potesse significare quel Celi, lo ha chiamato Cielo e l'umanista
Colocci lo ha latinizzato in Celio.
Ci si domanda se questo Cheli d'Alcamo sia un poeta popolare.
Questa fu l'opinione del D'Ancona e di tutti i seguaci della vecchia
scuola erudita, in omaggio al mito romantico: dove c'è freschezza e
vivacità, ivi c'è un autore nato dal popolo. Certamente Cheli non fu poeta
di corte, non appartenne alla scuola siciliana vera e propria, sebbene
risenta largamente l'influenza di quella scuola ed in ogni modo si mostra
molto sensibile alla cultura franco-provenzale. Bastano i numerosi
francesismi e provenzalismi di cui è ricco il contrasto: non boglio m'attalenti
(non voglio che mi piaccia) ; l'omo con parabole la dimina e amonesta (con
parole la domina e la persuade, dal provenzale amonestar) ; percazzala (la
incalza, perseguita, dal provenzale percassar); gueri (guarì); col viso
cleri; mossero e mosteri (monastero); confreri; pantasa (da un latino
medievale phantasiare che ha le sue corrispondenze nel provenzale e nel
francese antico);
sanza faglia; minespreso; purpensannome; disdutto (divertimento, spasso) ;
traito (traître) ecc. Si obbietta che anche un poeta popolare poteva
adoperare questi francesismi per i numerosi prestiti linguistici che il
francese con la dominazione normanna prima, con quella angioma poi ha
lasciato nel dialetto siciliano. Ma si tratta di francesismi crudi, non
assimilati ancora nella lingua, che attestano la derivazione letteraria di
essi: oltre a questi ci sono poi i provenzalismi e molte parole proprie
del frasario erotico cortigiano: madonna, sire, donna cortese, donna
cortese e fina, sovrana, di bon core e fino, solaccio e diporto, le
altezze, merzé ecc. Ma, a parte la lingua, tutte le movenze del contrasto
non sono popolaresche e attestano un'arte tutt'altro che rozza : c'è una
vivacità di dialogo che rasenta il drammatico scherzoso proprio delle
schermaglie d'amore.
Chi poteva dunque essere questo Cheli d'Alcamo? Come mai i codici non ci
hanno tramandato nient'altro di lui? Si può anche pensare a un giullare,
ma a un giullare artista; si è troppo irrigidita l'accezione di giullare
in quella di ripetitore e dicitore di versi altrui. Come ci sono gli
artisti di teatro che si fanno lor stessi autori, così non poté mancare
l'esempio di qualche giullare d'ingegno che elaborasse poesie di
ispirazione personale. In tal modo si spiegherebbe l'adozione di tutte
quelle frasi cortigianesche, di tutti quei francesismi e provenzalismi,
impastati in una specie di siciliano illustre o meglio di meridionale
illustre, poiché vi sono frequenti anche le forme napoletane. C'è stato
chi ha pensato che l'autore potesse essere uno studente universitario, un
Michele d'Alcamo che avrebbe frequentato la scuola medica di Salerno. La
scena avviene certo in una città di mare, e a un certo punto la donna,
scandalizzata dalle proposte del suo petulante corteggiatore, dice:
Segnomi in Patre e 'n Filio e 'n santo Mateo.
San Matteo è il patrono di Salerno e in una chiesa della città se ne
conserva il corpo, rinvenuto nel 1080 Il giurare non in nome dello Spirito
Santo ma in quello di San Matteo si spiegherebbe per il culto vivissimo
che si aveva dell'apostolo, e sarebbe più che legittimo sulla bocca d'una
donna salernitana.
Comunque si risolva la quistione, o giullare o studente siciliano a
Salerno, il nomadismo dell'autore ci spiegherebbe la lingua in cui egli
scrisse il Contrasto: che nel suo fondo possiamo chiamare un siciliano
illustre (fortemente toscanizzato poi dai copisti toscani), ma che
accoglie anche numerosi napoletanismi, come per esempio il paremo e il
patreto, mio e tuo padre. Senza pensare allo studente o al giullare, la
presenza di espressioni napoletane si spiega per la vicinanza dei due
dialetti. Per poco che si latineggi o toscaneggi, il vocalismo di una
parola o frase o verso siciliano diventa napoletano o qualcosa di simile.
Per un copista toscano poi, i dialetti meridionali dovevano modellarsi e
stilizzarsi quasi in un unico e solo dialetto, come di solito avviene
anche nei nostri rifacimenti e verseggiamenti moderni. Qualcuno ha anche
pensato che l'autore possa essere stato un pugliese, perché è ricordata la
città di Bari; mala congettura è stata dimostrata infondata, anche per la
testimonianza di Dante: Dante cita il terzo verso del Contrasto (traieme
deste focora, se teste a bolontate) per dare un esempio del dialetto
siciliano, e ritrovare anzi il difetto della pronunzia siciliana,
consistente nella soverchia temporis oaupatione. Né si può pensare che
Dante adoperasse la parola « siciliana in quel significato politico
letterario in cui l'adopera quando parla della scuola siciliana. Ma in
quel luogo fa proprio distinzione del dialetto; e subito dopo aver parlato
del dialetto pugliese, torna a parlare del dialetto siciliano, citando
quel terzo verso del Contrasto. La testimonianza non potrebbe essere più
sicura; poi c'è la faccenda del paese d'Alcamo che, com'è noto, è una
grossa cittadina fra Trapani e Palermo, e gli eruditi hanno trovato che
già nel '200 il d'Alcamo era diventato il nome di una famiglia siciliana.
Per un malinteso spirito nobilesco poi, specialmente gli eruditi
siciliani, che (salvo lo scrittore di queste pagine che ha sempre vantato
origini plebee) hanno tutti sangue di barone nelle vene, hanno voluto
sostenere che il poeta, identificato con la persona del corteggiatore,
dovesse essere un feudatario, un nobile della corte normanna e la donna
una castellana, se essa dice:
En
paura non mettermi di nullo manganiello,
istomi 'n esta groria desto forte castello. |
Ma evidentemente si tratta d'una metafora, i due contendenti d'amore si
trovano invece in una modesta e pur propizia camerella: il castello lo
regaliamo ai vecchi eruditi siciliani. Ma filologi di altre regioni, per
un pregiudizio accademico, pur hanno aderito a questa tesi per ricondurre
il contrasto alla pastorella francese: nella pastorella c'è sempre una
pastora e un cavaliere a tenzone. La donna dunque sarebbe di umili
condizioni, mentre il corteggiatore sarebbe un nobile cavaliere! Nulla
nemmen di tutto questo : il contrasto, semmai, può richiamarsi a quello
tipico di Rambaldo di Vaqueiras, e non già alla pastorella. Il De Sanctis
giustamente parlò d'un don Giovanni da taverna: e l'impressione è sempre
questa : che si tratti d'una avventura quotidiana tra un giovane e una
donna, di eguale condizione media, e forse la congettura dello studente
siciliano a Salerno, per quello che può valere una congettura nel suo
significato trascendentale, definisce meglio il tono di questa avventura
amorosa ritratta in un mimo drammatico di mirabile freschezza.
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