Formandosi in Sicilia,
soprattutto nell'evo federiciano, focolari di cultura - a rammentarne due
insigni, Messina, « chiave del Regno », e Palermo - e stabilendosi una
relativa unità culturale fondata su quel pensiero latino che costituiva lo
spirito stesso, unitario e universale, del Regno, alla disgregazione dei
dialetti dovette succedere la rintegrazione di lingue parlate, le quali,
per natura dotate di vigoria espansiva e unificatrice, si liberavano dai
caratteri troppo tipici o eccentrici e si diffondevano livellando i
vernacoli, ed, esplicita significazione di civiltà, subivano un processo
di stilizzamento. Linguaggio colto della conversazione era certo il «
dilicato parlare » assai amato, per testimonianza del Novellino, dal «
nobile e potente imperadore Federigo », « specchio del mondo in parlare ed
in costumi». È perciò assurda l'ipotesi che i nostri dialetti del Duecento
avessero certe conformità finite poi per oscurarsi e non svelassero ancora
alcune differenze che spiccano in seguito, perché (si afferma) tutti più
prossimi alla loro comune origine. In realtà e invece, il latino,
nell'atonia spirituale dei secoli dal VII al IX, si era andato
decomponendo in una pletorica moltitudine di parlate: e la effettiva
conformità della lingua, assunta, per esempio, dai testi letterari,
religiosi e didascalici, dell'Alta Italia nel secolo XIII, non poté che
conseguire, come ben videro il Mussafia e il D'Ovidio,a un vasto movimento
di cultura che rese comuni modi di vita c modi di lingua : rassomiglianza
tanto più netta e tangibile, quando dalla lingua parlata si passa alla
scritta. S'intende poi che suoni e forme e modi dialettali largamente
diffusi restrinsero la loro area d'espansione o dileguarono in seguito,
col frazionamento che caratterizza la storia d'Italia.
Lingue cosiddette di civiltà, effetto del dilatarsi di un tipo di vita
raffinata e colta, erano quindi pronte in Sicilia ad assorgere a organo di
letteratura, e a linguaggio nuovo, quando germinasse una lirica schietta e
nuova. Invece, la poesia amorosa fiorita nell'Isola ha il suo nascimento,
o almeno trova incentivo c aiuto, in un'altra poesia, quella trobadorica:
non è canto che si possa levare sotto ogni cielo, non è « il fiore che
spontaneamente si apre al calore di ogni emozione della vita », ma, nel
suo insieme, elaborata manifestazione letteraria del sentimento d'amore,
pensabile dunque solo, come del resto tutta la poesia romanza, in una
atmosfera di cultura. Dalle corti feudali della Francia meridionale la
lirica dei trovatori s'era propagata e imposta nella Penisola iberica, in
Italia, nella Francia del nord, in Germania, per i suoi ammalianti ideali
d'arte e di vita : perché - lo ha mostrato in un suo penetrante discorso
Carlo Vossler - rappresentava in forma aristocratica, e tale da poter
gareggiare per accorta eleganza con la più squisita poesia latina del
medioevo, il complesso mondo di sentimenti individuali del poeta e, in
ispecie, l'amore spiritualizzato : mondo individuale ma a un tempo
collettivo, in quanto rispondeva al sentire di una nobile società cortese.
E formalismo, culto dell'io, spiritualizzazione dell'amore, ossia le
caratteristiche in cui il Vossler fa risiedere il pregio e il prestigio
della lirica occitanica, dispiegarono un'efficacia palese e diretta sui
primordi della poesia europea.
I nuovi doctores illustres, - giudici, notai, uomini d'arme a di chiesa,
nativi dell'Isola (e sono la più parte, i più antichi e i più celebri),
del rimanente Regnum o di altre regioni d'Italia, e comunque legati alla
Corte degli Svevi, e che costituirono presto una scuola con un suo gusto
particolare, - si accordarono alla nota dominante. E poiché nella
letteratura ha rilievo ed è pungolo la tradizione o imitazione, essi
derivarono dai loro supremi e inevitabili modelli, ma con qualche
indipendenza, i concetti e gli atteggiamenti dell'amore di corte col
relativo fastoso corredo di convenzionalismi, galanterie e astrattezze;
dedussero la forma metrica del discorso; di più trassero conforto e
sostegno ad applicar alla lingua siciliana quella tecnica che era
un'eredità latina, continuatasi nel Medioevo e aggravata da buon numero di
ingegnosi artificii di concetto, di stile, di versificazione. Confluirono
pertanto nel lessico della nostra prima poesia, e in quello dell'antica
poesia francese, nel gallego-portoghese dei trovatori della Penisola
iberica e nel medio-alto-tedesco dei Minnesànger, i termini dell'idioma
d'amore delle corti occitaniche, il quale si fece così europeo, ed è
considerato come un linguaggio proprio solo di un certo strato sociale,
capito solo in un determinato ambiente, tipico insomma di una scuola, ed è
stato posto legittimamente a confronto con la terminologia italiana della
musica, che godette anch'essa, nei secoli XVII e XVIII, di incontrastato
dominio nell'Europa...
Ma i rimatori legati alla Corte sveva, che, discepoli dei Provenzali e,
non meno, dei Latini (troppo spesso tenuti in disparte, questi ultimi,
nell'esplorazione della nostra nascente poesia), avevano fine il senso
della forma, limpida la coscienza del valore personale della parola,
lavorarono con trepida cura la loro lingua quotidiana, per modo che,
nobilitandosi, riuscisse una veste appropriatamente ornata del contenuto
amoroso...
Ma dove i dicitori per rima delle origini avranno potuto acquistare
familiarità intima con una lingua squisita e una tecnica consumata quali
sono quelle della poesia occitanica?
Mette in vista, naturalmente, Bologna chi si pone a ricercare, tra la fine
del XII e gli inizi del secolo XIII, un centro cospicuo di cultura che
fosse frequentato, fuori del Regnum Siciliae, da Meridionali, e in cui la
conoscenza dell'arte trobadorica dovesse essere diffusa e si avesse agio
di apprendere a fondo i segreti della forma letteraria medievale, latina
non solo ma anche volgare italiana, e, se volgare, in qualche modo di
colorito toscaneggiante.
Nella gloriosa capitale dell'insegnamento universitario le raccolte
poetiche dei trovatori si divulgarono certo fra dottori e studenti tramite
la scrittura, per mezzo della scolaresca di nazione provenzale e mediante
la recitazione dei giullari: mentre per il popolo e tra il popolo
circolavano i cantores rerum francigenarum. È notevole che Boncompagno da
Signa, il quale allo Studio professava bello stile o rettorica - e fu
autore della Rota Veneris, « una specie di Ars e di Summa dictaminum ad
uso degli amanti », scritta urbanitatis causa, - tra i moduli di
commendatizia, del 1218 circa, ne inserisse uno in favore di Bernardo di
Ventadorn, che egli conosceva solo per fama. Del rimanente, nella nativa
Bologna imparò l'arte poetica dei Provenzali, giurisprudenza e ars
dictandi Lambertino Buvalelli, a cui viene riconosciuto il merito di aver
sollevato l'arte dalle mani dei giullari e dei trovatori di second'ordine
a quelle dei dotti che si consacravano alle finezze del giure, alla
filosofia, alla dialettica e si preoccupavano del decoro della forma
poetica e prosastica.
Proprio del lavorio letterario davano la teoria e gli esempi dalla
cattedra i maestri di ars dictandi : oltre a Boncompagno, Bene da Firenze
e Guido Faba, il quale ultimo mostrò il modo di applicare al volgare le
norme medesime che regolavano lo scrivere latino e ci ha lasciato quindi i
più aprichi saggi di una prosa d'arte italiana. Con una vita dello spirito
tanto fervida, e piuttosto che per influsso dei vernacoli contigui, si
capisce pure che il dialetto bolognese, in quanto strumento della
conversazione colta, si dirozzasse e levigasse al punto di apparire a
Dante la miglior parlata municipale d'Italia. Ma le preferenze di Dante
per Bologna troveranno la loro ragione non meno nel fatto, su cui batteva
il Parodi, che la città dello Studio, oltre ad aver dato all'Italia il
primo esperimento di prosa d'arte, era stata anche la patria del
Guinizelli, l'instauratore di una nuova Scuola poetica.
Dei Meridionali che attesero al giure in Bologna, e qui forse avrebbero
perfino cominciato la loro attività di poeti, è rappresentante Pier della
Vigna, da Federico assunto agli uffici di notaio, di giudice e poi di
protonotario e logoteta del Regno e dell'Impero. Ma anche altri regni-coli
che avevano conseguito in quell'Università il grado di magister il quale
apriva la strada ai pubblici uffici, il Monarca volle con sé nell'opera di
riordinamento amministrativo e legislativo del Reame che attuo dopo il suo
ritorno, del 1220, dalla Germania: allo stesso modo che docenti e scolari
dello Studio bolognese richiamò nel Regnum quando, correndo il 1224,
istituì le cattedre del nuovo Studio di Napoli.
Comunque, quali che siano gli argomenti e le supposizioni, risulta
tutt'altro che necessaria l'ipotesi della fase bolognese nella storia
della nostra più antica poesia, si accetti in cambio la tesi
antipositivista ciel libero, spontaneo, imprevedibile circolar delle
esperienze letterarie e artistiche, o si presti fede agli obiettivi dati
di fatto, che non mancano e sono stati messi insieme dalla solerzia degli
eruditi. Né l'ipotesi della fase bolognese é proprio indispensabile a
spiegarci il linguaggio ibrido dei nostri primi rimatori, quale risulta
dai manoscritti e con le sue ben note attinenze col toscano. Circa poi
l'ars dictandi, « difficile sarebbe ammettere che gli stilisti siciliani
dell'opaca federiciana abbiano direttamente derivato il loro stile dai
dettatori di Bologna, nonostante i parecchi punti di contatto che essi
presentano ». Piuttosto è da pensare alla Curia romana.
La lingua già epurata e livellata dalla conversazione colta, necessaria
per un'arte e una tecnica pretensione come quelle dei Siciliani,
presumibilmente fu il dialetto messinese, poiché nativi di Messina, la
città che per importanza superava la stessa Palermo, erano numerosi poeti
e di grande prestigio. Il nuovo idioma accelerò com'è naturale, e
intensificò, parallelamente all'affermarsi dell'arte della parola, il suo
processo di liberazione dai tratti vernacoli, che - spiega Amado Alonso in
pagine luminose sulle lingue letterarie - allo scrittore sembrano propri
di un momento di scarsa tensione spirituale, o comunque ripugnano
all'ansia di universalità, caratteristica della lingua della letteratura,
in quanto peculiarismi geografici e soprattutto sociali e, insomma,
limitazioni. Con lo sfrancarsi dallo stato dialettale: è da considerare il
contatto c l'influsso operoso e molteplice delle grandi lingue di civiltà:
quella che rappresen-tava la tradizione rispecchiava la forma di cultura
più alta e veneranda, ossia il latino dei libri, della scuola e della
Chiesa, c quella che rifletteva una nuova vita dello spirito, morale e
artistica, ossia il provenzale. La parola dei trovatori evocava
all'immaginazione nostalgica dei poeti di Sicilia il fantasioso mondo
dell'amore cavalleresco, contrastante con le coercizioni del costume
feudale, e ornava e impreziosiva. Il latino favoriva quella tensione
spirituale che si accompagna al momento estetico della lingua; e,
determinando un deciso progresso sulla gracile sintassi e la logica
balbettante dei Provenzali, rinsaldava l'architettura del periodo con lo
stringere e rilevare i legami del ragionamento...
L'aura siciliana ha infuso nel nuovo linguaggio anche provenzalismi,
cresciuti poi di numero con il già ricordato intensificarsi, negli anni di
Guittone, dello studio dei trovatori. E voci di Sicilia, latine,
provenzali, costituendo presto lo strato arcaico, e tradizionale, della
lingua poetica toscana, hanno la facoltà, che è insita negli arcaismi ed é
stata chiarita con finezza dall'Alonso, non di significare o definire, ma
di ornare, e rispondono egregiamente, perché vissute in pagine illustri,
alla tensione dell'attività letteraria; come sinonimi, sono una ricchezza
non lessicale ma spirituale; come forme particolari di sensibilità o modi
di vedere, si trasmettono da poeta a poeta, e instaurano una tradizione.
Per mezzo soprattutto delle rime, ma senza trascurare altri indizi, si
sono dunque potute ravvisare (e si è accennato) le genuine sembianze della
lingua in uso presso i poeti che fiorirono alla Corte sveva. Le loro
poesie furono trascritte e ritrascritte da amanuensi quasi tutti toscani
(qualcuno é emiliano o veneto), e quindi più o meno toscaneggiate.
Peró, sotto la patina toscana serbano un linguaggio che nei suoi tratti
caratteristici si rivela fondamentalmente siciliano, vale a dire poco
idiomatico.
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