Nel mezzogiorno, il
provenzale, pur essendo la lingua d'una poesia ammirata e invidiata, era
una lingua assai lontana dagli idiomi paesani, difficile da imparare e da
possedere, né la difficoltà potè essere attenuata dalla presenza personale
dei trovatori. Non v'erano in Sicilia né in Puglia corti feudali : v'era
un'unica grande corte regia, e la liberalità e la magnanimità di chi vi
regnava sapeva certo esercitare la sua attrazione sin nei luoghi più
remoti. In realtà, ben che molti trovatori celebrassero di lontano l'opera
di Federico II, non par che nessuno (o forse uno solo) raggiungesse la sua
corte. Perciò chi volle, alla sua corte, imitare poetando la grande arte
trobadorica, e volle nello stesso tempo esprimersi senza impaccio e farsi
comprendere dai circostanti, ricorse alla lingua da tutti egualmente
parlata studiandosi, s'intende, di depurarla, di affinarla, di
disciplinarla, di renderla atta a una funzione letteraria, di farle
sopportare senza disdoro il paragone con l'aristocratica lingua dei
trovatori.
Fu la grande opera di Federico II e dei poeti che si raccolsero intorno a
lui : primo fra tutti il Notaro, Giacomo da Lentino. Questi era siciliano;
e altri erano pur siciliani; altri pugliesi, calabresi, campani; qualcuno
veniva da Roma o dalla Toscana, uno solo dal settentrione (Percivalle
Doria, ch'era anche il solo, appunto perché settentrionale, che poetasse,
abbiamo visto, oltre che in lingua di si, come usava alla corte dei suoi
re, anche in lingua d'oc, come usava nella sua Genova). Mala maggioranza
era meridionale: e la corte che li accoglieva era la corte regia di
Sicilia, era una corte essenzialmente meridionale: la lingua che vi si
parlava doveva avere caratteri nettamente meridionali : la lingua che i
poeti vi si foggiarono non potè avere che un fondo meridionale. Il fatto è
che la loro poesia, nonostante il travestimento subito nei manoscritti
(tutti, quelli che si conservano, toscani, o settentrionali), ancor rivela
nelle rime il suo fondo idiomatico siciliano.
Chi fa nascere quella poesia a Bologna si lascia illudere da una
costruzione fantastica, che non risponde affatto alla realtà. A Bologna
poetava Lambertino Buvalelli; e poetava in provenzale. Certo, anche nel
settentrione, qualche tentativo di poesia d'arte in volgare italiano non
mancò; e si può ricordare il « sirventes lombardesco » che un ignoto
autore mandò fuori come « cosa nova ». La « cosa usaa » era però e
continuò a essere, in tutto il settentrione, quella di comporre canzoni e
serventesi in provenzale.
Torniamo nel mezzogiorno. La poesia di quella che da tanti secoli
chiamiamo « scuola siciliana » senza dubbio è nata qui. Solo la sua
nascita meridionale può spiegare sia l'adozione di una lingua diversa da
quella tradizionale dei trovatori, sia l'innegabile fondo siciliano della
sua lingua, sia, infine, la rinuncia a ogni velleità di trattare argomenti
politici.
Niente v'è nel mezzogiorno di ciò che spiega la fortuna della poesia
politica del settentrione. Non corri feudali or guelfe or ghibelline, non
liberi comuni aperti al gioco alterno delle fazioni: qui è un unico reame
saldamente costituito, retto da una potente monarchia accentratrice.
Tutta l'attività politica si svolge in un solo senso, mira a un solo
scopo, obbedisce a un solo volere. Manca ogni discussione. La polemica si
fa cogli estranei, fuor dell'ambito chiuso del regno, sulla vasta scena
imperiale; e si fa forza d'epistole e di libelli latini. A che mai le
servirebbe la fragile tenuità delle strofe volgari?
Quando Pier della Vigna si dà ad intonare canzoni nella sua lingua nativa,
non pensa ad esprimervi i concetti politici ch'egli è avvezzo a fermare
nel suo fiorito latino (e che, d'altra parte, egli non avrebbe alcun
bisogno di esporre agli ascoltatori delle sue canzoni). Quando le intona,
egli dimentica, e vuol dimenticare, per qualche istante, le sue
preoccupazioni consuete.
Amore, in cui disio ed d speranza,
di voi, bella, m'à dato guiderdone... |
Né fa diversamente lo stesso imperatore. Le gravi cure del governo e del
comando tacciono mentr'egli canta:
Poi che ti piace, Amore,
che io deggia trovare... |
Sembra che la poesia per loro non voglia e non possa essere che una
distensione dell'animo. « Amore » cantano, « amore »; e pur ci si chiede
se Amore sia veramente il dio che li fa poetare (« trovare », come essi
dicono). Anche l'amore, per quei sottili rimatori, è un puro gioco. Ond'è
che la loro poesia facilmente s'accomoda di tutte le convenzioni che le
impone la dottrina d'amore trobadorica, anche di quelle che più discordano
dalla circostante realtà. O se si piega talora a raccogliere, più che non
facesse la poesia trobadorica, qualche indisconoscibile motivo popolare,
anche questo è un gioco che rivela per mille modi il gusto aristocratico
che l'ha ispirato.
'Dolze
meo drudo, e vatene:
meo sire, a Dio t accomanno;
che ti diparri da mene,
ed io, tapina, rimanno...
'Dolze mia donna, lo gire
non è per mia volontate,
che mi convene ubidire
quelli che m'à 'n potestate... |
Di chi sono questi versi? Dicano quel che vogliono i critici;
?'indicazione del codice è chiara: l'autore di questo leggiadro dialogo
popolaresco è proprio colui che ha « potestate» di separare gli amanti, di
chiamar gli uomini alle armi lungi dalle loro donne: il re, l'imperatore.
Gli piace qui di staccarsi da sé stesso, immaginare i sentimenti e le voci
d'altre persone, d'umili anonime persone; così come gli è piaciuto altre
volte staccare sé stesso dalla sua realtà consueta, darsi una figura
immaginaria, la vieta figura del servo sospiroso, nella finzione poetica
dell'amore:
ed ò fidanza ne lo mio servire...
Portar nei suoi versi la sua personalità di sovrano, con le sue cure
d'ogni giorno, con le sue lotte d'ogni tempo, è ciò che Federico non
vuole. Né vuole che altri intorno a lui lo faccia. Né gli altri
vorrebbero, fermi come sono tutti in una stessa concezione della poesia :
poesia gioco, poesia oblio della realtà.
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